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La commercializzazione del corpo femminile incomincia con la pubblicità degli anni ‘70

di Francesco Lamendola - 12/09/2011




Dal celebre «Chiamami Peroni, sarò la tua birra», sussurrato con voce ammiccante da una bionda estremamente sensuale, all’apertamente blasfemo «Chi mi ama, mi segua», stampigliato sul retro di un paio di mini shorts indossati da una formosa modella, la pubblicità degli anni ’70 del Novecento segna l’inizio di quel processo di commercializzazione del corpo femminile che, da allora, non si è più fermato, toccando ultimamente vertici quasi surreali.
E gli anni ’70 sono quelli che vedono l’ingresso nell’agone televisivo delle reti private commerciali, nelle quali la pubblicità è il vero programma e tutto il resto - film, spettacoli, telegiornali - non è che la cornice o, per dir meglio, il pretesto: inizio del dilagare della volgarità e della stupidità senza più freni né limiti, ovvero di un nuovo modello televisivo cui anche la Rai si è uniformata, pur avendo tutta un’altra storia e pure essendosi basata, fino allora, sulle idee piuttosto che sulle facili trovate per un pubblico di bocca sempre più buona
Qualcuno potrebbe obiettare che il processo rimonta ancora più indietro e che, quanto meno, i suoi esordi sono rintracciabili nella pubblicità, non solo televisiva, ma anche della carta stampata, negli anni ’60 e perfino negli anni ’50; per esempio, con il mitico sorriso di Virna Lisi, accompagnato dalla frase: «Con quella bocca, può dire ciò che vuole», nella reclame di una nota marca di dentifricio.
Ma è proprio vero?
Nella televisione dei primi anni, ancora dominata da una forte vocazione didattica e culturale - si pensi ai grandi sceneggiati firmati da fior di registi; al maestro Manzi che insegna pazientemente a scrivere nel suo «Non è mai troppo tardi»; al pomeriggio settimanale dedicato al teatro; agli stessi programmi per i bambini, caratterizzati da una cura e da una attenzione encomiabili per la scelta degli sceneggiati, dei cartoni animati, degli spettacoli musicali e di intrattenimento - esisteva un confine preciso fra intento pubblicitario e dignità della persona: sia la persona dei conduttori e delle conduttrici, degli attori, dei soggetti impegnati nelle pubblicità stesse, sia la persona degli spettatori, che erano essenzialmente un pubblico di tipo familiare.
Esisteva un codice deontologico dei pubblicitari, non scritto e non ufficiale, basato sul buon gusto e sul senso della misura; e il fatto che registi come Ermanno Olmi e attori come Ernesto Calindri o Franco Volpi mettessero la loro firma o il loro volto nel «Carosello», unito alla fascia oraria in cui quest’ultimo andava in onda, come spettacolino della sera prima che i bambini più piccoli fossero mandati a nanna, rappresentava una sufficiente garanzia di serietà.
La società italiana è cambiata rapidamente dopo che il processo di industrializzazione si è completato, verso la fine degli anni ’60 (almeno nel Nordovest: perché nel Nordest ciò è avvenuto solo due decenni dopo e nel Centro-Sud non è avvenuto affatto) e la pubblicità ha rispecchiato tale brusca trasformazione; nessuna meraviglia, quindi, se le lunghe gambe di Minnie Minoprio che balla una specie di scatenatissimo tip-tap si sono sostituite al sorriso malizioso, ma in fondo ancora casto ed innocente, della bella Virna Lisi: il confine del buon gusto non è stato ancora superato, se non a partire dalla seconda metà degli anni ’70, mano a mano che edonismo pigliatutto e consumismo rampante si sono allargati a macchia d’olio nelle coscienze e hanno colorato di sé anche le fantasie dell’immaginario collettivo.
Una parte notevolissima dell’immaginario collettivo, così come di quello individuale, è rappresentato, come ben si sa, dall’immaginario erotico: ed è fin troppo logico che i signori pubblicitari, una volta rotte le dighe, si siano lanciati in una gara sfrenata per superarsi l’un altro, sul terreno della provocazione sessuale o della vera e propria pornografia.
Intanto, sulle spiagge di Milano Marittima e di Forte dei Marmi, i primi seni nudi cominciavano appena a far capolino qua e là, con molta titubanza, dato che facevano ancora scandalo e costituivano oltraggio al comune senso del pudore: non certo come oggi, quando ormai non stupiscono proprio nessuno e, anzi, sono giunti a suscitare la reazione opposta, una specie di sazietà mista a noia, per la sovrabbondanza della merce esposta.
La pubblicità sui giornali e quella murale seguivano a ruota le direttive di quella televisiva, di cui spesso, anzi, non erano che la replica pedissequa, con le stesse immagini e le stesse parole d’ordine; mentre i settimanali andavano gonfiandosi sempre di più, due, trecento pagine addirittura, ma per oltre la metà di pubblicità, tanto da costringere il povero lettore a sfogliare pagine per un quarto d’ora, prima di arrivare al sommario e ai servizi giornalistici.
Confrontare le pagine pubblicitarie di una rivista illustrata della fine degli anni ’60 e dei primissimi anni ’70 con quelle di appena dieci anni dopo, significa passare da un mondo ancora relativamente ingenuo, in cui il corpo della donna è utilizzato con garbo e discrezione, ad un mondo estremamente erotizzato, dove la provocazione imperversa sia a livello linguistico - doppi sensi e allusioni d’ogni genere - sia, soprattutto, a livello di immagine, con il corpo femminile sempre più separato dal resto della persona, sempre più ridotto a cosa, a merce, a incentivo per la vendita di questo o quel prodotto; sempre più artificiale, sempre più avulso dalla realtà, sempre più irraggiungibile da parte dei comuni mortali.
Ormai sono le modelle più famose a contendersi gli spazi pubblicitari, anche per reclamizzare la pastasciutta o un qualsiasi aperitivo, con quei loro corpi androgini, diafani, trasparenti: ed è da quel momento che iniziano, per la quasi totalità delle donne comuni, la grande frustrazione e il grande complesso di inferiorità, la grande angoscia, spingendo le più giovani e insicure verso la nera voragine dei disordini alimentari e specialmente dell’anoressia.
Ma che differenza c’è, si potrebbe chiedere, fra una ragazza che ammicca sorridente, tenendo in mano un bicchiere di bibita superalcolica (o analcolica), ed una che si contorce in pose apertamente provocanti, mezza svestita come una odalisca o, per dir meglio, come una professionista dei viali di periferia: soltanto di qualche centimetro di pelle esposta?
Niente affatto, è tutto l’insieme che segna una differenza qualitativa: non tanto quello che viene mostrato, ma quello che viene suggerito; e infatti si può essere più sfacciati e pornografici mostrano relativamente poco, ma suggerendo moltissimo, che non facendo il contrario.
Quello che balza all’occhio è l’effetto d’insieme: nella pubblicità dei primi anni ’70, la donna è largamente utilizzata, ma la sua immagine è presentata ancora con un certo rispetto, con una certa discrezione, con un certo buon gusto; alla fine degli anni ’70 e poi, sempre più, a partire dai “mitici” anni ’80, è ridotta al rango di una battona di terz’ordine: si trascina a quattro zampe come un animale, ruggisce dietro le sbarre di una gabbia come una pantera in calore, per la gioia di quella cultura femminista che ha predicato la distruzione del senso del pudore come via privilegiata per arrivare all’agognata liberazione.
La bella e brava Gigliola Cinquetti, una cantante che aveva doti canore da vendere per fare una carriera estremamente brillante, è stata presa di mira da quella cultura femminista; il suo «Non ho l’età» è stata deriso e sbeffeggiato da autorevoli critici musicali, come tipico esempio di ipocrisia cattolica e di becero moralismo anti-femminile; si è voluto ridurre il suo personaggio artistico entro i limiti di una macchietta, di una caricatura anacronistica, di una attardata verginella ignara delle meraviglie del progresso e della società emancipata e permissiva.
Furoreggiavano i cantanti del nulla, gli urlatori da strapazzo, le grottesche imitazioni dei modelli stranieri, specialmente anglosassoni: si copiavano i loro modi, le loro zazzere, il loro abbigliamento, il loro accento, con effetti che sarebbero stati esilaranti, se non fossero stati penosi ed estremamente umilianti per chi avesse un minimo di orgoglio nazionale, nonché di puro e semplice senso del ridicolo. Non c’era posto per la grazia e la delicatezza, bisognava giocare agli arrabbiati e agli iconoclasti, ultimissima versione di certo romanticismo ribellistico ed esistenzialista.
E poi, nel corso degli anni Settanta, è andata sempre peggio.
Scomparsi i poeti della canzone come Luigi Tenco, furoreggiavano i furbi menestrelli come la coppia Battisti-Mogol, i cui insopportabili motivetti pseudo-ribelli e pseudo-emancipati, scimmiottando una profondità di pensiero del tutto inesistente, imperversavano sulle labbra di tutti i giovani e meno giovani Italioti in chiave libertaria-ma-non-troppo-mi-raccomando.
Intanto il corpo della donna veniva sempre più spogliato, degradato, commercializzato, mentre i cortei delle femministe marciavano per le strade simulando con le dita delle mani la forma della vulva e scandendo lo slogan: «L’utero è mio e ne faccio quello che voglio io», spalleggiate dai radicali e dal solito Pannella che, fra uno sciopero della fame e l’altro, trovava sempre il tempo di presentarsi al telegiornale con il bicchiere di plastica contenente la sua stessa orina e di brindare con essa alla salute del pubblico, dato che ciò gli permetteva di non infrangere la promessa di sospendere ogni forma di alimentazione dall’esterno.
Che cosa era successo in quei pochi anni, quale sconvolgimento del cuore e della mente aveva travolto - e stravolto - il comune sentire del nostro popolo?
Era avvenuta una mutazione antropologica: gli uomini, le donne, non erano più gli stessi di prima; e l’agente principale della mutazione era stata la televisione commerciale, anzi, per non restare sul generico, diciamo pure le televisioni del futuro Re Buffone, che giorno dopo giorno, inondando di spazzatura mediatica i telespettatori, erano riuscite a drogarli a tal punto, che quando si parlò di oscurarle, per la loro palese illegalità, vi fu una mezza sollevazione popolare in difesa di esse, con milioni di lazzaroni sanfedisti pronti a fare le barricate pur di non rimanere orfani di Canale Cinque e delle sue sublimi idiozie e volgarità.
E questa è la grande responsabilità storica del Cavaliere: tutto il resto, i quasi vent’anni in cui ha condizionato la politica italiana e i danni forse irreparabili che le ha inferto, così all’interno come sulla scena internazionale, allorché si è trovato alla guida del governo, al confronto sono quasi una bazzecola.
No: la sua vera, tremenda responsabilità è stata quella di avere inquinato, insozzato, involgarito i gusti e il modo di sentire e di pensare di milioni di persone e specialmente dei più giovani e dei più anziani, ossia di quelli più dipendenti dal mezzo televisivo; introducendo, poco a poco, una misura crescente di cialtroneria, di volgarità, di prepotenza sguaiata, con gli Sgarbi che pontificano e insultano e con i Ferrara che minacciano di prendere a cazzotti chi non dice quel che vogliono loro (verso Pansa, in una memorabile diretta televisiva che molti, forse troppi, hanno rapidamente dimenticato), mentre le ballerine dei varietà assomigliano sempre più a dalle professioniste della lap-dance e i cosiddetti amici di Maria De Filippi mostrano tutta la miseria di una gioventù senza ideali, senza dignità, protesa unicamente verso i miti triviali del successo ad ogni costo.
Naturalmente, quel signore non sarebbe stato in grado di innescare una mutazione antropologica, se gli Italiani non fossero stati maturi e consenzienti per una tale operazione: una legge storica fondamentale, infatti, afferma che, quando si verificano le condizioni perché un dato evento o fenomeno accadano, essi immancabilmente accadranno, ossia immancabilmente troveranno un soggetto, o un gruppo di soggetti, capaci di realizzarlo, venendo incontro ai segreti desideri della cosiddetta maggioranza silenziosa.
Ecco perché il berlusconismo, molto più del fascismo (che, almeno, era una ideologia politica con una sua dignità e perfino con una carica di idealismo) è un fenomeno tipicamente italiano; ecco perché l’esperimento della dittatura mediatica e demagogica è stato fatto in Italia prima che in qualunque altro Paese del mondo: perché eravamo pronti per esso, dunque ce lo meritavamo.
La donna, tornando al tema iniziale della nostra riflessione, sarebbe ora che si rendesse conto dell’inganno in cui è caduta e si riappropriasse del proprio vero ruolo e della propria autentica vocazione: che non sono certo quelli di aspirare al primo concorso di velina per Canale Cinque o di iscriversi alla prossima edizione di Miss Italia, bensì di stare bene con se stessa, realizzandosi in un progetto di vita sereno e dignitoso, basato sull’apprezzamento delle gioie intime, affettive in primo luogo, e non sui successi scintillanti, ma vuoti e apparenti, esaltati dalla pubblicità.
La vita vera è tutta un’altra cosa: possibile ci voglia tanto a riconoscere una verità così lampante?