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Riscoprire la virtù della speranza in un mondo che scivola nella disperazione

di Francesco Lamendola - 25/09/2011



È importante ricominciare a parlare della speranza, della speranza in senso teologico e cristiano; una delle tre virtù teologali che ci sono state insegnate fin da bambini e che abbiamo poi dimenticato: la fede, la speranza e la carità.
La speranza appartiene a una categoria diversa dall’ottimismo.
L’ottimismo, come pure il pessimismo, è il frutto di un atteggiamento razionale, di una valutazione dei pro e dei contro, quasi di un calcolo probabilistico; e, soprattutto, è qualcosa di puramente umano.
La speranza nasce invece da un atteggiamento di apertura verso il trascendente, da una esigenza metafisica dell’uomo: è il suo protendersi verso una dimensione altra, non fideistico e passivo, ma carico di forza e di fiducia nella vita, nella bontà della vita.
La speranza nasce dall’intima persuasione, che non è solo di tipo razionale, che tutto ciò che esiste, esiste per il bene; che noi siamo qui per un fine buono; che nulla di ciò che può accaderci è per il male, ma solo ed esclusivamente per il bene.
Per dirla con il Bernanos del «Diario di un curato di campagna» (ma la frase non è dello scrittore francese, è di Santa Teresa del Bambin Gesù che, a sua volta, si rifà ad un concetto centrale nella teologia paolina e agostiniana): tutto è grazia.
Naturalmente, questo è un linguaggio duro per chi ragiona in termini meramente umani: come potrebbe essere un bene, per esempio, l’insorgenza di una grave malattia? Dal punto di vista umano è uno scacco, una minaccia, un’angoscia; ma da un punto di vista spirituale, potrebbe essere una preziosa occasione per ripensare la propria vita, per darle una svolta benefica, riscoprendo le autentiche priorità; in termini cristiani: per una reale conversione.
Il mondo contemporaneo non solo è privo di speranza, ma è giunto al punto di deriderla, di disprezzarla, di considerarla una debolezza per vecchiette mezze rimbambite o addormentate dalle chiacchiere dei preti.
In ciò, esso somiglia al mondo greco-romano dei due o tre secoli a cavallo della nascita di Cristo, diciamo fra l’età di Cesare e quella di Marco Aurelio: un mondo sazio, decadente, svuotato di linfa vitale; un mondo sterilmente colto e dubbioso di tutto.
Nella cultura greca il concetto di speranza era considerato negativamente, in quanto sinonimo di illusione; e la filosofia prevalente a quell’epoca, lo stoicismo, insegnava che gli esseri umani devono liberarsi della speranza, così come devono liberare l’anima da ogni altra passione e illusione.
In questo senso, e giustamente, San Paolo (nella «Lettera agli Efesini») chiamava i pagani «uomini senza speranza», alle cui amare e orgogliose verità i cristiani contrapponevano la categoria della speranza in tutto il suo significato positivo: attesa fiduciosa di un bene che è già stato annunciato e testimoniato - dall’incarnazione, dalla passione e dalla risurrezione di Gesù Cristo - e che pertanto è già presente e già si sta manifestando nell’uomo e nel mondo.
La speranza, coltivata nella società europea dal cristianesimo per più di mille anni e le cui vestigia più impressionanti sono le grandi cattedrali gotiche e la prodigiosa fioritura degli ordini mendicanti, ha incominciato ad affievolirsi mano a mano che l’uomo, accecato dall’orgoglio e dalla presunzione, ha creduto di potersi fare Dio di se stesso e di costruire il Paradiso in terra, adorando gli idoli del progresso, della scienza, della tecnica, del benessere materiale.
Ebbene, gli uomini e le donne del terzo millennio devono liberarsi dalle sterili e orgogliose verità della ragione strumentale, che conducono alla confusione e alla disperazione, e riscoprire in tutta la sua pregnanza e in tutta la sua bellezza luminosa la categoria della speranza.
Abbiamo sguazzato anche troppo nella palude del nichilismo; troppo a lungo i nostri intellettuali e sedicenti uomini di cultura hanno predicato, a piene mani, il pessimismo e la disperazione: ora è tempo di rialzarsi e di ricostruire, lasciandosi dietro le spalle il malsano compiacimento della decadenza e della rovina.
Questo non significa che dobbiamo fare come gli struzzi e nascondere la testa per non vedere il male che da più parti ci minaccia; dobbiamo, al contrario, saper leggere i segni dei tempi e riconoscere, ad esempio nel mutamente climatico, la prova di un delitto che abbiamo perpetrato contro la natura e quindi, in definitiva, pure contro noi stessi.
Anche la crisi economica che ci attanaglia, in maniera sempre più drammatica, deve insegnarci qualcosa: perché, sfrondata delle complicate spiegazioni tecniche che ce ne danno gli economisti e gli esperti di borsa e ricondotta ai suoi termini essenziali, essa non può non apparirci come l’esito perfettamente logico e naturale di un modo aberrante di porsi di fronte alla vita: quello che pretende di consumare più di quanto venga prodotto, di accumulare sempre più cose a scapito di tutto il resto; come una mostruosa forma di egoismo verso la nostra parte migliore, verso gli altri esseri umani e verso tutte le creature che popolano la Terra, ridotte a meri strumenti del nostro vantaggio e del nostro piacere.
Tornare ad essere uomini e donne di speranza vuol dire abbandonare le chimere del possesso e del dominio e aprirsi alla gioia del dono gratuito, della disponibilità alla vita, della condivisione delle gioie e dei dolori con quanti ci stanno intorno, invece di rinchiuderci nel fortino sempre più assediato e sempre più vacillante di un preteso benessere che cela, in realtà, una forma gravissima di disamore verso se stessi e verso la vita.
Aprirsi ad un orizzonte di speranza non significa, perciò, ignorare il male, ma negargli la facoltà di esercitare una tirannica fascinazione sulla nostra anima e affrontare le difficoltà con un atteggiamento diverso, propositivo e fiducioso.
Nessuno può sgombrare gli ostacoli dalla nostra via e, anche se qualcuno lo potesse, non ci renderebbe un buon servizio, perché sono essi che ci aiutano a crescere, a maturare, ad evolvere; quel che possiamo fare per noi stessi è di vivere le situazioni di criticità con animo sereno, rappacificati con la nostra parte più vera e con il mondo circostante,.
La maniera frenetica, compulsiva, nevrotica di porci davanti alle cose, nel tentativo di asservirle e dominarle, di sfruttarle illimitatamente e di disporne come padroni tirannici, è il punto d’arrivo di una filosofia di vita basata sulla inconsapevolezza, sulla esteriorità, sulla gratificazione dei nostri bisogni artificiali o secondati e sulla trascuratezza ostinata e sistematica dei nostri bisogni reali e più profondi; in una parola: sulla totale ignoranza di noi stessi.
Giungiamo così alla conclusione che, per tornare ad essere uomini e donne di speranza, dobbiamo prima tornare ad essere uomini e donne, con un cuore di carne capace di sentire, invece che burattini dal cuore di pietra, ciechi e sordi davanti alla voce interiore, che vorrebbe riportarci sulla strada giusta, abbandonata per orgoglio e presunzione.
Prima si impara a guardare in se stessi e a diventare dei veri esseri umani, capaci di sentimenti veri e di pensieri veri, rifiutando sia le sirene dell’edonismo esasperato, sia le formule rassicuranti di un Logos strumentale e calcolante che vorrebbe capire tutto e spiegare tutto, ma senza l’umiltà necessaria e senza onestà intellettuale; poi si può incominciare a porsi i problemi sociali, politici, economici e culturali connessi con la crisi della civiltà contemporanea.
Non esistono scorciatoie, né paradisi in terra: e tutte le dottrine che hanno preteso di realizzarli, escludendo radicalmente il male dal concreto orizzonte esistenziale, hanno costruito qualcosa di molto simile all’inferno. Esse, infatti, sono partite dalla erronea premessa che l’uomo sia un angelo e che i suoi impulsi distruttivi altro non siano che il risultato di un’azione malefica di questa o quella istituzione sociale; funesta illusione: se l’uomo non accetta la propria fragilità e non può che cadere nella “hybris”, nella dismisura e nella follia.
E lo stesso si verifica se egli, come avviene nella civiltà contemporanea, nega, ignora o nasconde la propria finitudine, la propria mortalità, la certezza della propria dipartita: diviene un essere nevrotico, disperato, folle.
Riscoprire l’orizzonte della speranza, dunque, significa anche ritrovare il proprio equilibrio interiore, la propria sanità spirituale, da cui dipende direttamente la salute fisica; significa rimettersi in sintonia con la natura, dalla quale non ci si può allontanare senza compromettere la propria pace, il proprio benessere, la propria armonia.
A sua volta, rimettersi in sintonia con la natura vuol dire ritrovare la parte più vera di se stessi, sgombrando l’anima da una quantità di strutture artificiali che, accumulandosi l’una sull’altra, finiscono per rendere l’uomo estraneo a se stesso: un povero essere oscillante fra megalomani sogni di dominio e paurose cadute negli abissi della depressione.
Il Pensiero Unico oggi dominante, un concentrato di materialismo grossolano, di scientismo fideistico e di edonismo spicciolo, ci ha portati in un vicolo cieco e i suoi cultori interessati non vorrebbero che ne uscissimo, forse perché, per essi, è preferibile un mondo popolato di burattini dal cuore di pietra, che non da esseri umani innamorati della vita, capaci di stupirsi per la sua struggente bellezza e di pensare in modo critico e autonomo.
Si è largamente diffuso, a tutti i livelli della società, un utilitarismo cinico e meschino, che vede in ogni creatura vivente uno strumento al servizio dei suoi disegni e che non ha occhi per la bellezza del mondo, perché interamente assorbito dalla smania di aumentare il suo potere sulle cose e sulle persone, ad ogni costo e con qualunque mezzo.
All’origine di tale utilitarismo vi sono, in ultima analisi, una profonda paura di fronte alla vita e un profondo scoraggiamento davanti alle sue incertezze e difficoltà, che esso vorrebbe esorcizzare accrescendo a dismisura il potere materiale sugli enti: al prezzo assai caro, però, di un impoverimento spirituale sempre più grande.
Ecco, allora, che ritrovare un orizzonte di speranza diviene il segno visibile di una vittoria sulla paura e sullo scoraggiamento, i due dèmoni striscianti ed insidiosi che tendono ad avvelenare la gioia di vivere e a fornire una rappresentazione cupa e distorta del nostro destino.
Possiedono la dimensione della speranza coloro che non hanno paura o che hanno sconfitto la paura; coloro che hanno fede nella bontà della vita e che sanno ancora stupirsi, commuoversi e ringraziare davanti allo splendore incomparabile del mondo.
Saper vedere il mondo con gli occhi incantati di un bambino; saper provare meraviglia e ammirazione davanti ad esso, tutto questo è indice di un animo puro e di uno sguardo limpido, non intorbidato dai falsi giudizi della mente.
La mente che analizza, calcola e giudica in continuazione, senza sosta, senza pace, senza amore; la mente, che può renderci grandi servigi nell’ambito che le è proprio, ma che diventa un dispotico signore allorché le permettiamo di travalicare ed invadere ogni spazio della nostra anima, finisce per confonderci la vista e intorbidare la nostra consapevolezza.
La nostra consapevolezza è fatta in primo luogo di ascolto, di silenzio, di accoglienza; è un sì alla vita, una piena adesione al suo progetto, qui e ora, anche in quegli aspetti che la nostra mente non riesce a spiegare, a comprendere, ad accettare; è come quando ci sediamo in riva al fiume e godiamo pienamente di ogni immagine, di ogni suono, di ogni odore, assecondando con tutta l’anima lo scorrere delle acque e lasciando che il ritmo della natura vi scorra sopra, la levighi, la plasmi come tenera argilla.
Noi abbiamo sostanzialmente due possibilità: dire di sì oppure dire di no alla vita; aprirci alla sua dolcezza, alla sua bellezza, alla sua armonia e lasciarle penetrare sino in fondo a noi stessi, oppure chiuderci nella diffidenza, nella paura, nel rifiuto, magari nascondendo la nostra avarizia esistenziale dietro le più varie maschere filosofiche.
Molti esseri umani hanno deciso di vivere la vita con avarizia, concedendole poco o nulla di se stessi ma in compenso, di solito, aspettandosi di ricevere molto, e levando altissime proteste se tali aspettative non vengono poi esaudite. Invece c’è un solo modo per ricevere molto dalla vita: ed è quello di viverla con generosità, con gratitudine, con speranza...