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La teoria delle sfere di Keplero è un classico esempio di pseudoscienza?

di Francesco Lamendola - 30/09/2011




A sentire certi Soloni della divulgazione scientifica, non esiste nulla di più chiaro ed evidente della linea di separazione fra la scienza e la pseudoscienza: la prima gode dell’avallo della comunità accademica internazionale, la seconda giace nelle cantine degli oggetti vecchi ed inutili; e,  mentre lo scienziato è una persona estremamente seria e rispettabile, lo pseudo scienziato è un povero mattoide afflitto da ogni sorta di manie e ossessioni.
Ahimè, forse le cose non stanno proprio così; forse la distinzione fra scienza e pseudoscienza, fra scienziati e pseudoscienziati non è così netta e irrevocabile come quei signori credono, o piuttosto fanno mostra di credere; forse essa corrisponde a una forma di manicheismo intellettuale che ignora quanto sia vasta e sfumata la “zona grigia” che si estende nel punto di intersezione fra la prima e la seconda.
Il bello è che tale confusione viene alimentata a senso unico: si chiude un occhio, e magari tutti e due, su quelle pseudoscienze, come la psicanalisi, che hanno conquistato, bene o male, un posto di apparente rispettabilità nel consesso delle scienze accademiche riconosciute come tali; ma si levano alte strida di derisione nei confronti di quelle scienze, come la parapsicologia (peraltro inficiata all’origine, come tutte le altre, da pesantissimi pregiudizi razionalisti e  materialisti), che osano prendere in considerazione il mondo dei fenomeni misteriosi.
Alcune scienze, poi, come la criptozoologia, giacciono nel Limbo: ora come ora sono considerate, a tutti gli effetti, pseudoscienze; ma basta qualche ritrovamento biologico eccezionale, come fu quello del Celacanto nelle acque sudafricane, un pesce “fossile” che si credeva estinto da 350 milioni di anni, per rialzarne le quotazioni e per spingerle fin sulla soglia del riconoscimento “ufficiale” da parte del mondo accademico.
Prendiamo il caso della teoria delle sfere celesti di Johannes Keplero, il grande astronomo tedesco (1571-1630) che, fra le altre cose, formulò le tre leggi che ancora oggi portano il suo nome: 1) le orbite dei pianeti sono ellissi in cui il Sole occupa uno dei fuochi; 2) la velocità dei pianeti non è costante, ma segue una legge secondo la quale il segmento che congiunge il Sole al pianeta descrive, durante il moto orbitale, aree uguali in tempi uguali; detta R la distanza media Sole-pianeta, il cubo di tale distanza è proporzionale al quadrato del periodo T di rivoluzione.
Eppure Keplero era anche uno studioso capace di voli straordinari dell’immaginazione, che egli mescolava al calcolo matematico puro, con risultati sorprendenti per la nostra mentalità, dato che tale mescolanza era suscettibile di produrre le teorie più bizzarre e stravaganti - almeno secondo il modo di pensare tipico degli scienziati moderni.
La teoria delle sfere celesti ne è un buon esempio.
Tutti, crediamo, sanno che cosa sia un poliedro regolare convesso: un solido nel quale da ogni vertice esce un uguale numero di spigoli e nel quale tutte le facce sono poligoni regolari, uguali fra di loro.
Esistono solo cinque tipi di poligoni regolari e precisamente:
1) il tetraedro regolare, che ha per facce quattro triangoli equilateri uguali, mentre da ogni suo vertice escono tre spigoli;
2) l’esaedro regolare o cubo, che ha per facce sei quadrati uguali e in cui da ogni vertice escono tre spigoli;
3) l’ottaedro regolare, che ha per facce otto triangoli equilateri uguali e in cui da ogni vertice escono quattro spigoli;
4) il dodecaedro regolare, che ha per facce dodici pentagoni regolari uguali e in cui da ogni vertice escono tre spigoli;
5) l’icosaedro regolare, che ha per facce venti triangoli equilateri uguali e in cui da ogni vertice escono cinque spigoli.
Gli antichi matematici greci erano affascinati da questi solidi “perfetti” e ne cercarono a lungo degli altri, come pure i moderni, ma senza trovarli, arrivando alla conclusione che ne esistono cinque e solamente cinque.
Ma perché proprio cinque, perché proprio quei cinque? Sospettarono che dovesse esservi una ragione nascosta e indagarono in ogni modo per individuare una traccia, un indizio che permettesse loro di svelare l’arcano.
L’ultimo studioso che chiude la serie degli indagatori del mistero dei cinque poliedri regolari fu, appunto, Johannes Keplero.
Scrive Irving Adler nel suo libro «Il segreto dei numeri. Introduzione alla matematica» (titolo originale: «Mathematics», 1958, 1960, New York, Golden Press; traduzione italiana di Mario Selmi, Milano, Mondadori, 1961, 1970, pp.54-56):

«Esistono esattamente cinque solidi regolari, né uno di più né uno di meno e questo fatto ha terribilmente imbarazzato i ricercatori dal momento in cui è stato conosciuto. Alcuni ne hanno dedotto che questi solidi dovrebbero avere una importanza particolare in natura. Nella Grecia antica, i filosofi discepoli di Pitagora, vedevano un legame fra questa particolarità e la teoria per la quale l’universo sarebbe composto di quattro elementi: la terra, l’aria, il fuoco e l’acqua. Essi insegnavano che la terra è fatta di cubi,l’aria di ottaedri, il fuoco di tetraedri e l’acqua d’icosaedri. Quanto al dodecaedro esso era il simbolo dell’universo  considerato nel suo insieme, Sappiamo adesso che la struttura del mondo che ci circonda immensamente più complicata. Esistono non già quattro elementi chimici, ma un centinaio. Però è molto interessante il notare che i cristalli formati da certe combinazioni di elementi hanno la forma di solidi regolari.
Questi ultimi appaiono anche nelle teorie di Johannes Keplero, il grande astronomo del XVI secolo. Egli conosceva l’esistenza di sei pianeti: Mercurio, Venere, Terra,  Marte, Giove e Saturno.  Egli pensava che non ve ne fossero altri e si meravigliava del perché ve ne fossero esattamente sei di essi. Poiché vi sono cinque spazi che separano i sei pianeti l’uno dall’altro e vi sono cinque solidi regolari, egli pensava che vi dovesse essere una connessione fra questi due fatti.
Propose una teoria secondo la quale i solidi sono collegati allo spazio fra i pianeti in questo modo: disegnò la Terra su di una sfera intorno al Sole. Attorno a questa sfera e con le facce che la toccano, è un dodecaedro. Una sfera maggiore passa per i vertici del dodecaedro. Marte, diceva Keplero, è su questa seconda sfera. Un tetraedro circonda la seconda sfera e una terza sfera circonda il tetraedro. Su questa terza sfera si trova Giove. Un cubo circonda la terza sfera e una quarta sfera circonda il cubo. Saturno giace sulla quarta sfera.  Poi partì dalla sfera che porta la Terra su di sé e procedette internamente ad essa verso il Sole. Nella sfera vi è un icosaedro e nell’icosaedro vi è una quinta sfera. La quinta sfera segna la posizione di Venere. In questa sfera giace un ottaedro che a sua volta circonda una sesta sfera, sulla quale si muove il pianeta più interno, Mercurio.
Questa graziosa piccola teoria di Keplero è stata abbandonata per il fatto che le sue sfere non segnano affatto le effettive distanze  dei pianeti dal Sole. Inoltre noi sappiamo adesso che vi sono tre altri pianeti. Urano, Nettuno e Plutone. Ma mentre questa sua teoria, l’altra sua teoria intorno al moto dei pianeti divenne celebre. Keplero fu il primo a mostrare che l’orbita di ogni pianeta è una figura di forma ovale che è chiamata ellisse.»

Eppure entrambe le teorie sono scaturite dalla mente dello stesso uomo: quella delle sfere, però, è stata relegata nella soffitta delle curiosità e delle stranezze, mentre la seconda è stata accolta nel salotto buono della fisica ed è stata promossa addirittura al rango di legge scientifica.
Ci si vorrebbe far credere che la cosiddetta rivoluzione scientifica del XVII secolo segna uno stacco nettissimo rispetto alla scienza precedente; che il modello di scienza sperimentale introdotto da Galilei scaturisce da una visione completamente nuova rispetto al paradigma culturale del Rinascimento, quasi che un uomo solo potesse mutare la visione del mondo del suo tempo e che un bel mattino l’umanità si fosse risvegliata alle «magnifiche sorti e progressive», dopo aver brancolato così a lungo nelle tenebre della scienza non sperimentale, ossia di una mezza scienza o, addirittura, di una pseudoscienza.
Ebbene: come mai la teoria delle sfere celesti nasce dal ragionamento fantasioso e strampalato di quello stesso astronomo che tutti i cultori della scienza galileiana lodano come un portento di razionalità e di precisione: l’ideatore delle tre famose leggi di Keplero?
Forse che il Keplero che ideò la teoria delle sfere era una persona completamente diversa, che pensava in maniera completamente diversa dall’altro Keplero, quello che formulò con tanto acume la triplice legge sul moto dei pianeti?
Se, invece, così non è; se entrambe le teorie scaturiscono dal medesimo cervello, come mai l’una costituisce un perfetto esempio di corretto ragionamento scientifico e l’altra, invece, un imbarazzante esempio di fantasticheria pseudoscientifca: talmente imbarazzante che quasi tutti i libri di testo scolastici si guardano bene dal farvi il benché minimo accenno, così grande è il timore di sminuire, agli occhi degli studenti, l’immagine di Keplero e quindi, indirettamente, di far loro intuire quanto breve spazio separi la gloriosa scienza “nuova” da quella antica e ormai sorpassata, di origine aristotelica?
Ecco, per esempio, come presenta la figura di Keplero il manuale per i licei «Fisica», di M. E. Bergamaschini, P. Marazzini e L. Mazzoni (Milano, Carlo Signorelli Editore, 1993, vol. 1, pp. 214-15), che abilmente dice e non dice riguardo alla teoria delle sfere celesti, riuscendo anzi a ricavare da un accenno indiretto ad essa la teoria “giusta”, quella sul moto dei pianeti:

«Tutti gli studi nati dalla rivoluzione copernicana costituiscono il primo esempio del applicazione di un corretto metodo scientifico, in quanto contengono tutti gli ingredienti della ricerca scientifica modernamente intesa: l’accuratezza nella raccolta dei dati sperimentali, la ricerca appassionata di leggi interpretative in rado di render conto, fin nei minimi particolari, dei dato già noti, e di prevederne altri. Una gran massa di dati sperimentali, come quelli raccolti da Tycho Brahe, costituisce una condizione necessaria per lo sviluppo della scienza, non una condizione sufficiente.
Infatti, i dati osservativi puri non producono quasi mai una previsione sullo sviluppo di fenomeni pur simili: occorre prima individuare una legge che li inquadri e li interpreti, e questo non è il frutto di un’operazione meccanica ma di fantasia e genialità.
Occorreva quindi un altro contributo, di natura interpretativa, per dare un senso compiuto ai dati sperimentali di Tycho Brahe: questo contributo fu fornito da Keplero.
Keplero rappresenta il prototipo del fisico teorico: uno scienziato che si preoccupa, non tanto di fare nuove misure, ma di interpretare quelle a disposizione.
Per tutta la vita egli cercò leggi semplici nelle quali si potessero inquadrare tutti i dati di Tycho. Dopo lunghi anni credette di aver trovato un modello geometrico soddisfacente, basato sulla teoria eliocentrica e realizzato con orbite circolari, che verificò in particolare sull’orbita di Marte.
“Mi sono proposto di dimostrare con questa operetta, o lettore, che Dio Ottimo Massimo, nella costruzione del mondo e nella disposizione dei cieli, guardò ai cinque corpi solidi regolari che tanto sono stati celebrati fin dal tempo di Pitagora e di Platone e che dispose numero, proporzioni e movimenti delle cose celesti secondo le proprietà di quei corpi”. (J. Kepler, “Prodromus dissertationum”, in P. Rossi, “La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton”, Loescher, Torino, 1977, p. 159).
Le previsioni di questo modello si adeguavano in modo soddisfacente ai dati sperimentali di Tycho… tranne che per una piccola e fastidiosa ma significativa differenza!
Forse, a questo punto,. Keplero avrebbe potuto pensare all’esistenza di un errore nelle misure di Tycho, ma la fede assoluta nella precisione sperimentale di colui che egli considerava suo maestro, lo condusse invece a rinnegare il suo lavoro teorico per ricominciare da capo; fu la scelta vincente!
La soluzione fu trovata quando Keplero ebbe i coraggio di abbandonare l’ipotesi che le traiettorie delle orbite fossero circonferenze. Così, paradossalmente, proprio l’abbandono di questo presunto simbolo di perfezione e di ordine eterno permise di scoprire in forme nuove una grande simmetria e unità nel movimento dei corpi celesti.»

Da questa pagina non si capisce bene in cosa consistesse la teoria originaria di Keplero, ossia quella delle sfere celesti, che non viene neppure nominata come tale; si parla solo delle orbite planetarie come circonferenze e si dà a intendere che la strada giusta fu imboccata quando Keplero decise di ipotizzare che fossero, invece, delle ellissi.
Non si spiega, però, in base a quale procedimento la fantasia e la genialità di Keplero passarono dall’errore alla verità, se non dicendo che tutto nacque dal fatto che la venerazione di lui per Tycho Brahe lo spinse a scartare l’ipotesi originaria, che non si accordava perfettamente con le misure calcolate da quest’ultimo secondo il metodo sperimentale.
Bisogna quindi credere che il cervello di Keplero, che fino a un certo punto aveva ragionato in un modo, costruendo fantasiosi castelli teorici e, per giunta, mostrando una cieca riverenza per il lavoro di un astronomo precedente (cosa che somiglia terribilmente all’aborrito “principio di autorità” che i galileiani rimproveravano violentemente agli aristotelici), da un dato momento in poi si mettesse a funzionare in una maniera del tutto diversa, illuminandosi tanto improvvisamente quanto misteriosamente.
Ma quanti contorsionismi sono capaci di fare gli apologeti della rivoluzione scientifica, pur di mostrare che solo gli scienziati di indirizzo copernicano e galileiano erano scienziati nel senso moderno della parola, mentre gli altri lo erano solo a mezzo servizio.
Se la mente di Keplero non avesse mai partorito, per ipotesi, le tre leggi sul moto dei pianeti, ma soltanto la teoria delle sfere, non vi è il minimo dubbio dove lo avrebbero relegato i moderni cultori della scienza galileiana e sperimentale: non certo nel Paradiso della vera scienza, ma nell’Inferno della pseudoscienza.
Senza contare che Keplero non era soltanto un matematico e un astronomo, ma anche - orrore degli orrori - un valente musicista…
E cosa bisognerebbe dire, allora, di Isaac Newton, che passò gran parte della propria vita a scrivere di teologia in maniera a dir poco estrosa?
Se egli non avesse legato il suo nome anche - e sottolineiamo anche - alla teoria della gravitazione universale e se di lui ci fossero rimassi solamente gli scritti esoterici e teologici, dove lo avrebbero collocato i solerti celebratori della scienza moderna: all’Inferno o in Paradiso?
E si aggiunga che Newton fu anche un alchimista; ma non ci è stato sempre detto, da quei tali signori, che l’alchimia è il classico esempio di una inutile ed ingombrante pseudoscienza?