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Cara Giovanna…

di Francesco Lamendola - 30/09/2011


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Cara Giovanna, mi piacerebbe credere che tu non sia stata di parola: mi avevi detto che, quando non ti avessi più sentita, ciò avrebbe significato che eri morta.
Ti portavi dentro un male oscuro, che non perdona; e te lo portavi dentro due volte, perché non ne avevi mai parlato a nessuno; nemmeno a colui che condivideva con te la sua vita: dicevi che era come un eterno bambino e che non avrebbe retto a una simile realtà.
Eppure sapevi di essere condannata, di avere ancora poco da vivere; per fortuna non accusavi dolori, il tuo era come lo spegnersi lento di una candela.
Ti portavi dentro questo segreto terribile in perfetto silenzio, senza farne parola ad anima viva; del resto, poco a poco ti eri ritratta in te stessa e vivevi ormai quasi da reclusa: la malattia strisciante non ti consentiva più che una limitata libertà di movimenti.
La tua vita non era stata felice: sempre avevi dovuto fare i conti con situazioni più grandi di te, con dolori e delusioni sopportati da sola: a nessuno avevi mai aperto il tuo cuore sino in fondo, nemmeno nell’ultimo periodo, il più difficile.
A nessuno, tranne a me.
Mi avevi cercato senza conoscermi, solo per aver letto i miei scritti, e in me avevi trovato un orecchio amico che ti ascoltava senza giudicarti, forse una spalla sulla quale appoggiarti e riprendere un po’ le forze.
Le tue mail un po’ convulse, le tue lunghissime telefonate erano la tua valvola di sfogo: un segreto che tenevi gelosamente nascosto a tutto il mondo.
Strana amicizia, la nostra: senza mai esserci visti di persona, senza mai posare lo sguardo sul volto dell’altro: di te sapevo solamente, perché me lo avevi detto tu, che somigliavi un poco alla scrittrice Margaret Mazzantini; di me, avevi visto solo una fotografia.
Per me eri soltanto una voce: una voce che sembrava venire da chissà quali lontananze. Non avevi voluto dirmi il luogo in cui abitavi, temendo, chissà, che io venissi a trovarti, anche se sapevi benissimo che avrei rispettato il tuo desiderio di segretezza.
O forse no.
Mi avevi coinvolto nel tuo dramma silenzioso; mi sembrava così ingiusto, così assurdo che tu dovessi prepararti al gran viaggio come una clandestina, senza ricevere una parola di conforto dalle persone che ti stavano accanto.
Dicevi di essere serena e in pace con Dio; e forse lo eri. Io però percepivo una grande tristezza, una grande stanchezza, una immensa solitudine nella tua voce, che pure talvolta assumeva toni spensierati e scherzosi, perfino sbarazzini.
È stata un’amicizia strana anche perché, nella essenzialità della situazione, senza alcun fattore di distrazione o di disturbo fra due anime che si parlano a tu per tu, nemmeno l’immagine fisica dell’altro, si era creato un legame profondo, dolente, suggellato dalla consapevolezza di essere i due unici esseri al mondo a condividere il segreto della tua malattia mortale.
C’è stato anche dell’altro.
Sono venute a galla, dal profondo, delle aspirazioni umane, umanissime, che la particolare situazione rendeva ancora più struggenti: delle cose che restano un segreto fra noi.
Una, però, mi è rimasta in fondo al cuore e non posso mandarla via, perché tremendamente impegnativa per chi la riceve: mi dicesti, con voce rotta dalla commozione, ma al tempo stesso lucida, che, al momento della fine, avresti pensato a me; che sarei stato il tuo estremo pensiero in questa vita terrena.
Mi hai fatto un dono straordinario, ma, insieme, mi hai anche caricato sulle spalle una grande responsabilità: perché quanto più grande è il dono, tanto più esso stabilisce un legame indissolubile con colui che lo riceve;.
E questo, senza paragoni, è il dono più grande che un essere umano possa offrire ad un altro: confidargli che l’ultimo pensiero della propria esistenza mortale sarà rivolto a lui; e che quel pensiero sarà un pensiero d’amore.
Con la tua femminilità sensuale, un po’ perfida, sapevi che una dichiarazione del genere crea un legame che dura per l’eternità: mi hai messo in un bel pasticcio. Questo dono troppo grande mi pesa sulle spalle, mi fa sentire persino inadeguato: che cosa mai potrebbe fare un vivo, per ricambiare una persona che non è più qui tra noi?
Dove tu sia adesso, è un mistero: eppure credo che tu mi possa ascoltare - non dico leggere, come facevi sempre, commentando ogni mio scritto; perché nella condizione in cui sei ora, non c’è bisogno di leggere, né di vista, né di occhiali.
Ti piaceva sentirti giovane e scherzavi sul tuo nomignolo: Gio come giovane; anche se giovane non lo eri più; avevi però la civetteria di dirmi sempre che eri bella e che tutti ti davano dieci e perfino venti anni in meno della realtà.
Facevamo conversazioni strane, interminabili, tanto che io mi preoccupavo per la tua bolletta telefonica: parlavamo di tutto, passando dagli argomenti leggeri e dalle cose piccole d’ogni giorno, a discorsi terribilmente seri e profondi, terribilmente impegnativi: e più per le parole non dette che per quelle pronunciate apertamente.
C’era un sottinteso, c’era un tacito segreto: lo leggevo fra le righe, aleggiava nel tuo tono di voce, che avevo imparato a decifrare come un libro aperto.
Qualche volta erano conversazioni tese, dolorose, quasi drammatiche; una volta ti ho sbattuto giù il telefono e un’altra volta ti ho sentita piangere; avevi un immenso bisogno di confidarti e di sfogarti, un bisogno represso per tutta la vita; ma, al tempo stesso, avevi paura a lasciarti andare del tutto, a rivelarti interamente.
Eppure una volta lo hai fatto, hai superato quel confine: ma è un segreto che custodirò in silenzio, perché non riguarda nessun altro.
Ci sono stati dei momenti di incomprensione, perfino di tensione, perché la situazione era troppo anomala e claustrofobica, troppo carica di elettricità, come una stanza dalle finestre socchiuse, mentre da ogni lato infuriano venti fortissimi; però ci sono stati anche momenti di dolcezza, di totale confidenza, di apertura sincera e incondizionata.
Certo che non si può portare in silenzio un segreto come il tuo senza sentirsi scottare le dita, è come tenere in mano della dinamite; cercavo di convincerti a consultare un medico, a curarti, ma tu dicevi di confidare solo in Dio e di non temere la morte.
La tua fede si era approfondita, nella preghiera trovavi la forza di affrontare la realtà; eppure, lo ammetto, nelle tue parole sentivo un misto di sincerità e di forzatura e sospettavo che tu fossi meno serena di quel che proclamavi e che nella tua religiosità vi fosse qualche cosa di angusto, un po’ da sacrestia.
Del resto, pensavo che, in una situazione come la tua, sia lecito aggrapparsi dove si può e come si può: e chi siamo noi per giudicare? Perciò lo pensavo, ma non te lo dicevo; ti esortavo soltanto a guardarti dentro bene, sino in fondo, con assoluta sincerità; perché mi sembrava che, in un angolino della tua coscienza, tu barassi un poco al gioco.
E adesso è un pezzo che non ti sento più, sono passati molti mesi. C’erano state altre pause di silenzio, mai però così prolungate.
Immagino che tu te ne sia andata in punta di piedi e mi piace pensare che adesso hai trovato la pace: quella pace che, nella tua vita, sempre ti era sfuggita.
Prima l’incomprensione di tua madre, poi quella di tuo marito, nonché la malevolenza di alcune altre persone, che si era spinta fino a volerti fare del male nel modo più crudele, hanno fatto della tua vita affettiva un deserto costellato di rimpianti.
Strano destino, ma non infrequente fra le donne belle e sensibili: la bellezza finisce per diventare una maledizione, gli altri le vedono solo nella dimensione fisica: gli uomini le desiderano sessualmente, disinteressandosi al mistero della loro anima; le altre donne, spesso, le invidiano e ne sono gelose, anche senza ragione, e le odiano d’un odio implacabile, primordiale.
Chissà che tu ora abbia trovato la pace, cara Gio: quella pace a cui anelavi con tutta te stessa, come la cerva anela ai rivi delle acque.
Non dispiacerti se adesso parlo di te: forse le tue pochissime amiche, delle quali mi avevi parlato, specialmente quella minacciata da una cecità progressiva, non ne saranno dispiaciute e riconosceranno il tuo ritratto in queste righe.
Ti sei aperta con me come non si fa mai con alcuno, tranne che con il proprio confessore; eppure, nello stesso tempo, eri stranamente reticente, quasi avara di te stessa, ma per paura; dicevi e non dicevi, ti nascondevi dietro le parole, in un gioco senza fine.
Misteri dell’anima umana.
Io credo di sapere di che cosa avevi paura: di lasciar cadere l’ultimo velo, di mostrarti proprio tutta, messa a nudo interamente: e nessuna donna è capace di tanto, tu meno ancora di altre, perché eri donna fino alla radice dei capelli.
Ma perché dico “eri”?
Io voglio pensarti viva; certo più viva di noi che siamo ancora qui, ad arrabattarci faticosamente lungo le strade impolverate del mondo.
Perfino la tua inseparabile cagnetta, che teneva il luogo del figlio che non avevi avuto, ora se la passerà molto male senza di te: eri così preoccupata per lei, ti dicevi certa che non avrebbe potuto sopravviverti, ormai eravate quasi una cosa sola.
Se anche lei ti ha seguito oltre le porte dell’ultimo viaggio, mi piace pensare che adesso ti sia accanto, come prima, accoccolata ai tuoi piedi col suo sguardo umido, quasi umano: perché i nostri fedeli amici animali dovrebbero essere esclusi dalla nostra vita definitiva, che incomincia dopo la seconda nascita della morte fisica?
L’amore è sempre amore, sempre: e l’amore di un cane per il suo padrone, che lo spinge talvolta fino a lasciarsi morire di fame e di dolore quand’egli viene a mancare, è amore e basta, amore di serie A come quello degli umani: con buona pace di certo teologi che sono così gelosi del loro Paradiso, da volervi escludere tutte le altre creature del buon Dio.
Ma anche questo mistero, ora, tu lo conosci già, cara amica, con tutto il bene che esisteva fra te e la tua cagnetta; noi, siamo ancora al buio.
Che altro dirti?
Che non ti ho dimenticata, lo sai già.
Mi avevi raccomandato di pensarti, qualche volta: non ce n’era bisogno e certo lo sapevi anche allora; ma era una tua innocente civetteria femminile, di gusto un po’ tardo romantico, quasi crepuscolare.
Non sentirò più la tua voce dolce e un po’ sensuale, pervasa di tristezza e di rassegnazione, che era come un grido inespresso: il grido di ogni essere umano che aspira alla felicità e si vede, invece, respinto così spesso nel cono d’ombra del dolore e della solitudine.
Hai sofferto in silenzio, come soffrono tanti altri esseri umani; solo con me sei riuscita a sciogliere, come direbbe Ungaretti, il canto del tuo abbandono.
Lo hai fatto perché anch’io ero solo una voce e non una presenza fisica; diversamente, chissà se ci saresti riuscita, se ti saresti arrischiata.
Eri un po’ calcolatrice, un pochino opportunista: non volevi che il gioco ti sfuggisse di mano, volevi restare sempre padrona della situazione.
Ma, in questo, era la paura a guidare i tuoi pensieri; quello che ti suggeriva il cuore era ben altro ed io l’ho visto; e tu sapevi che io lo avevo visto.
Questo sottinteso aveva creato fra di noi una complicità fortissima, che solo la morte avrebbe potuto sciogliere.
O forse nemmeno lei, dopo quella dichiarazione così toccante e così coinvolgente, quasi ricattatoria.