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Haditha: la colpa giace ai piedi di Bush

di Scott Ritter - 21/06/2006


Nelle forze armate statunitensi esiste un vuoto in termini di leadership, a cominciare dal comandante in capo George W. Bush. Nel frattempo, lo scopo e la portata dei crimini americani – come manifestato in Iraq e altrove – diventano sempre più sbalorditivi

Come molti americani, anch’io ho seguito la tragedia del massacro di 24 civili iracheni nella cittadina irachena di Haditha – e i ruoli e le responsabilità relativi attribuiti ai marines – con un misto di rabbia, frustrazione, shock ed orrore. Vorrei premettere che considero tutte le persone coinvolte innocenti fino al momento in cui verrà dimostrata la loro colpevolezza, e manterrò questa posizione fino a quando non si sarà fatta piena luce sulle circostanze di questo episodio.

In quanto ex ufficiale del corpo dei marines Usa, devo ammettere che mi ritengo parzialmente a favore di questi ultimi. In ogni caso, credo che tutti i marines coinvolti debbano essere puniti secondo quanto stabilito dalla legge se ritenuti colpevoli dei crimini per cui i quali sono stati accusati. Non esistono scuse che giustifichino l’uccisione sistematica di civili.

Tuttavia, i crimini di cui i marines sono stati accusati, e l’atteggiamento necessario per compiere siffatte atrocità (sia da parte dei Marines arruolati che dei loro ufficiali), sono talmente contrastanti con la struttura stessa del corpo di cui sono stato membro che mi risulta difficile credervi. Molti miei compagni prestano ancora oggi servizio come comandanti di battaglione, comandanti di reggimento o ufficiali superiori.

Non si tratta di un “nuovo” corpo di marines che ha in un qualche modo perso la propria strada da quando ho lasciato il servizio attivo. Si tratta della mia compagnia, di compagni permeati da uno spirito di servizio e sacrificio che non solo non mancano di perseverare sul campo di battaglia, ma mai hanno arrecato vergogna e disonore alla tradizione di 232 anni che lega i marines.

La guerra è una faccenda complicata, e coloro vi si impegnano devono essere spietati se vogliono sopravvivere. Le sottigliezze della vita civile vengono accantonate. In guerra gli uomini (e in misura sempre crescente anche le donne) sono chiamati a prendere parte ad un’azione che va contro tutto ciò che è stato insegnato loro in quanto esseri umani e cittadini americani: avere poco o nessun rispetto per la vita umana di coloro che vengono uccisi, spontaneamente e abilmente.

Un bersaglio è un obiettivo in quanto tale, e qualsiasi esitazione nell’attaccarlo può fare di te un obiettivo ugualmente esposto. In guerra vale la regola 'uccidere o essere ucciso', nel vero senso della parola. La maggior parte dei civili non riuscirà mai a comprendere né questo né il trauma mentale e fisico che la guerra infligge a coloro che ne sono coinvolti. Il combattimento tempra una persona e la cambia per sempre. Poiché la guerra è di per sé così orribile, e l’atto di muovere guerra contro qualcuno così disumanizzante, esiste il rischio reale che le persone coinvolte subiscano un completo tracollo della propria sensibilità umana, diventando così traumatizzati dall’atto di uccidere, sufficientemente da desensibilizzarsi alla sofferenza umana e alla morte. La morte diventa un narcotizzante, e l’atto di uccidere vite umane una droga che deve essere ripetutamente consumata.

La guerra è una forza distruttiva, per coloro che vi partecipano come combattenti. La guerra diventa una dipendenza, e i resti umani un avvenimento comune. Ha scritto Michael Herr, l’acclamato scrittore che ha descritto la Guerra in Vietnam nel suo libro 'Dispatches': "Accusare qualcuno di omicidio in Vietnam è come multare per eccesso di velocità ad Indianapolis". In guerra, la morte diventa la quotidianità. La tendenza a diventarne dipendenti e a dispensare morte è una delle ragioni principali che regolano la guerra. Il rispetto delle leggi di guerra oltrepassa di gran lunga qualsiasi obbligo giuridico; una volta che i proiettili iniziano a volare, le sfumature legali perdono di significato.

Il rispetto delle regole legali non deriva da un senso di 'giusto o sbagliato' sul campo di battaglia, è piuttosto il risultato di regole e procedure inculcate nelle menti di coloro che la guerra la dichiarano; ciò fino a quando tali norme, come le strategie per combattere con un'imboscata, sono impresse nelle menti e nella memoria muscolare di coloro che premono il grilletto.

I precetti di guerra sono rispettati non perché qualcuno sul campo di battaglia pensa di fare la "cosa giusta", ma grazie alla disciplina che ha radicato queste regole nel tessuto stesso in cui i soldati incitano al combattimento, e alla leadership che ha continuato ad enfatizzarle a guerra in corso.

Il motivo principale per cui mi è così difficile credere che i marines Usa del Terzo Battaglione, Primo Reggimento, abbiano fatto quello per cui sono accusati di aver fatto ad Haditha, è che ciò andrebbe contro la disciplina e la leadership a cui so per certo essi sottostavano. Se la strage di Haditha è avvenuta, qualcosa deve senz'altro essere andato storto.

È troppo facile addossare la colpa a "poche mele marce", quando in guerra le cose vanno male. La verità è che in guerra ogni soldato, di fanteria, pilota o marine, diventa una potenziale "mela marcia" se non vengono riconosciute la disciplina e la leadership necessari a mantenere un certo standard di condotta durante il conflitto. Qualsiasi americano che abbia visto il film "A Time to Kill" sa che qualsiasi individuo (sia uomo sia donna), proprio come il personaggio interpretato da Samuel Jackson nel film, assumerebbe il controllo della legge e ucciderebbe qualsiasi persona abbia esposto il proprio figlio al tormento e alla sofferenza inflitti alla giovane ragazza del film [1].

È più difficile mettersi nei panni di un giovane marines che ha visto un compagno con cui ha legato per mesi o persino anni morire improvvisamente e violentemente per mano di un nemico. È persino più difficile quando il nemico non può essere immediatamente localizzato, e quando ci si vendica di lui.

Ma ancor peggio è quando il nemico sei tu. Paul Rieckhoff, veterano della guerra in Iraq e autore del notevole libro Chasing Ghosts ("Caccia ai fantasmi", NdT), ha descritto cosa significhi crescere da bambino influenzato da film quali "Red Dawn" ("Alba Rossa", NdT), dove un esercito di occupazione sovietico-cubano invade il suolo americano. Nel film, un gruppo di liceali americani si riunisce per resistere all'occupazione e danno vita a una guerriglia che soprannominano "Wolverines" (dal nome della squadra di football della propria scuola, NdT). I Wolverines useranno qualsiasi metodo necessario per combattere il nemico invasore, dotato di carri armati e forza del fuoco superiore, compresi uccisioni e mezzi esplosivi improvvisati". I "Wolverines" sono eroi. Gli invasori, frustrati dalle tattiche dei primi, utilizzano mezzi sempre più brutali per sopprimere la rivolta, compreso il far ricadere la propria vendetta sulla popolazione civile innocente. Reickhoff ha scritto di come lui e i suoi compagni soldati, invadendo e occupando l'Iraq, abbiano ribaltato i ruoli con gli iracheni.

Gli americani sono ora il brutale invasore, gli iracheni i "Wolverines". In uno scenario del genere, è troppo facile cominciare a riversare le proprie frustrazioni su coloro che puoi vedere, come ad esempio i civili innocenti, quando coloro che non riesci a vedere, i ribelli, cominciano ad uccidere. Noi tutti siamo il personaggio di Samuel Jackson, in cerca di vendetta. E quando non siamo in grado di trovare alcun chiaro perpetratore, diventiamo l'invasore diabolico sovietico-cubano di "Alba rossa".

Naturalmente siamo americani che combattono, uomini e donne; seguiamo un elevato standard di condotta, basato su disciplina e leadership. So che i nostri uomini e le nostre donne combattenti sono stati istruiti a dovere secondo le regole della guerra. Il problema è la leadership. E, per citare un antico detto militare russo: "Un pesce puzza dalla testa". Esiste un deficit in termini di leadership nelle Forze armate Usa oggi, a cominciare dal Comandante capo, il presidente George W. Bush, e il suo segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld. Questo ammanco si estende all'intero Congresso statunitense e all'interno della leadership dei servizi armati in uniforme, i Capi di Stato Maggiore.

Tutte queste autorità stabiliscono un principio di indifferenza spensierata verso la legalità nel momento in cui hanno ordinato, o hanno dato il consenso per, l'invasione e l'occupazione dell'Iraq. Hanno taciuto quando il presidente e il suo segretario alla Difesa hanno rinunciato alla Convezione di Ginevra per occuparsi dei cosiddetti "terroristi" e "combattenti illegali". Hanno dimenticato che molti di quelli che hanno combattuto per gli Stati Uniti durante la Rivoluzione Americana sarebbero oggi classificati come "terroristi" o "combattenti illegali" basandosi sugli standard introdotti dall'amministrazione Bush. Lo sarebbero anche i "Wolverines". Rinunciando a rispettare la legalità in generale, e la legge della guerra in particolare, la leadership statunitense, civile e militare, ha stabilito uno standard di indifferenza che gli uomini e le donne al loro servizio hanno trovato fin troppo facile replicare. Ecco perché abbiamo avuto Bagram, Guantanamo e Abu Ghraib. Ed ecco perché abbiamo Haditha.

La cosa triste è che i responsabili del "servizio" Usa in Iraq non stanno combattendo una battaglia che possono vincere. Non esiste una regola per la vittoria. Vengono schierati per sei mesi, un anno o più, in un teatro di operazioni che il presidente Bush ha già fatto sapere verranno risolte solo dal prossimo presidente. Questo significa che coloro che vengono spediti in Iraq hanno solo una missione: sopravvivere. Non si tratta di una dichiarazione di missione tendente a decisioni e azioni legittime. È una dichiarazione di missione dove tutti i combattenti statunitensi ritornano ad una condizione primitiva, nella quale vige la regola dell'"uccidere o essere ucciso", senza tenere conto delle norme. Ed è piuttosto stolto parlare di regole quando la leadership degli uomini e delle donne che l'America manda a rischiare la propria vita per prima mostra un tale disprezzo indebito per le regole stesse.

Potrà esserci stato un crimine commesso ad Haditha. I fatti emergeranno a tempo debito. Ma dovrebbe allo stesso modo essere chiaro a tutti che il crimine viene incessantemente commesso in Iraq e in qualsiasi parte del mondo dove le forze militari americane operano secondo un ordine assegnato loro dall'amministrazione Bush. L'America si è collettivamente distanziata dalla legalità, e facendo questo, è diventata la più grande perpetratrice di crimini di guerra dei tempi moderni.

Lo scopo e la portata dei crimini americani, come manifestato in Iraq e altrove, sono sbalorditivi. L'indifferenza della maggioranza del popolo americano intorpidisce la mente. E l'indignazione della storia, che giudicherà severamente tutti gli americani, deve ancora farsi sentire.

 

Scott Ritter è stato ispettore delle Nazioni Unite in Iraq (1991-1998) e responsabile dei servizi d’intelligence dei marines. È autore di 'Iraq Confidential – Intrighi e raggiri: la testimonianza del più famoso ispettore ONU' (prefazione del premio Pulitzer Seymour Hersh, prefazione all'edizione italiana di Gino Strada).

 

 

Fonte: AlterNet
Tradotto da Arianna Ghetti per Nuovi Mondi Media