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La ricerca faticosa e drammatica del Santo Graal si è risolta in un fallimento?

di Francesco Lamendola - 12/10/2011



Studiare la storia del Medioevo, o anche soltanto la letteratura medievale, senza confrontarsi con il tema del Graal, anzi della Ricerca del Santo Graal, è cosa impossibile: sarebbe come affrontare lo studio del mondo greco senza nulla sapere dei Misteri, o come studiare la civiltà dell’antico Egitto senza aver mai neanche sfogliato il «Libro dei morti».
Eppure è precisamente questo che si fa nelle nostre scuole, nei nostri licei e nelle nostre università; salvo rare eccezioni, né i libri di testo, né i professori, si soffermano a parlare di questo aspetto fondamentale della civiltà medievale; è possibile, quindi, anzi è quasi la regola, che uno studente delle superiori giunga al diploma, o che uno studente universitario giunga alla laurea, magari in Storia o in Lettere, senza aver minimamente approfondito il tema del Graal e perfino senza essersi mai imbattuto in esso, neppure in maniera casuale.
Ma che cos’è il Medioevo, senza l’idea del Graal? Un guscio vuoto, una forma senza sostanza, un contenitore senza contenuto.
Questa situazione, assolutamente paradossale, non è per nulla dovuta al caso o ad una non meglio precisabile fatalità, ma è il risultato di una politica cultura ben precisa, che discende, a sua volta, da un vieto pregiudizio ideologico della modernità: il pregiudizio illuminista, secondo il quale ciò che non è riducibile alle categorie della conoscenza scientifico-matematica non è degno di indagine o, addirittura, non esiste, ma è frutto d’ignoranza e di superstizione.
Di più: la modernità, a partire dal razionalismo del XVII e XVIII secolo, e poi con l’impressionante diffondersi e ramificarsi della Massoneria e di altre similari società segrete, si caratterizza sempre più come radicalmente laicista, secolarizzata e anticristiana: il suo progetto, giunto ormai a tre quarti dell’opera, è quello di sradicare dalla coscienza delle persone il sentimento religioso in quanto tale, non con i metodi brutali della Francia rivoluzionaria o dell’Unione Sovietica staliniana, ma con quelli, suadenti e striscianti, dell’indottrinamento ideologico spacciato per evidenza scientifica, della denigrazione e della derisione sistematica della sfera del sacro, del ricatto intellettuale in base al quale ogni forma di fede o credenza nel soprannaturale sarebbe indegna di una persona intelligente, colta ed evoluta.
Tutt’al più, i programmi scolastici ed i corsi di studio universitari riservano qualche spazio a Chrétien de Troyes e al romanzo cortese-cavalleresco, quindi sfiorano incidentalmente il tema del Graal; ma lo fanno in maniera estemporanea, tanto che la stragrande maggioranza degli studenti ricava l’impressione che i Cavalieri della Tavola Rotonda se ne andassero per il mondo, genericamente, in cerca di “avventure” e di amori, attribuendo alla parola “avventura” il senso, laico e profano, che essa ha nella cultura odierna e non certo nell’accezione spirituale e trascendente che aveva nel contesto della cultura cavalleresca.
Non c’è da stupirsene, del resto, se è vero - come è vero - che tutta la filosofia del Medioevo viene sbrigata, il più delle volte, in poche lezioni frettolose, in cui si fa, sì e no, il nome di San Tommaso d’Aquino; mentre spesso si parla della lirica provenzale senza nemmeno nominare il Catarismo, oppure dell’arte medievale, e specialmente della pittura, dando a intendere che, prima di Giotto, ci fosse, più o meno, il vuoto.
E invece no: se si vuol comprendere qualcosa dello spirito cavalleresco, della sensibilità medievale rispetto alla trascendenza, bisogna  fare i conti con il mistero del Graal: un mistero, certo; e il fatto che nessuno possa affermare con certezza nemmeno se si tratti di un oggetto materiale (la coppa in cui Giuseppe d’Arimatea conservò il vino dell’Ultima Cena, o il sangue di Cristo dopo la deposizione dalla croce, oppure la lancia del centurione Longino o ancora, magari, la Sacra Sindone) o se non si tratti, invece, di un bene immateriale (e anche qui le ipotesi sono numerose e vanno dalla discendenza reale dei Merovingi alla raccolta di una sapienza occulta, gnostica e templare, eretica rispetto alle posizioni della Chiesa cattolica) non fa che rafforzare il pregiudizio scientista, secondo il quale non vale la pena di sprecare tempo ed energie per indagare su un qualcosa che neppure i contemporanei sapevano dire con certezza cosa fosse.
Sfugge, alla rozza mentalità scientista e neopositivista, che proprio questa indeterminatezza, proprio questa “indicibilità”, sono parte costitutiva ed essenziale del mito del Graal; che proprio esse ne rendevano la Ricerca una impresa non solo umana, ma trascendente, ossia sconfinante dall’ordine naturale all’ordine soprannaturale; e che proprio esse esprimessero pienamente l’atteggiamento dell’uomo medievale nei confronti del reale, che non era razionalista (benché la filosofia medievale abbia conosciuto ANCHE le sottili raffinatezze dialettiche del razionalismo), ma pervaso di simbolismo e, quindi, fondamentalmente allegorico.
Per l’uomo medievale, e ancor più per l’esponente della cultura cavalleresca, la realtà vera non è quella che appare ai sensi, né quella che può essere indagata, quantificata, vagliata e soppesata attraverso l’analisi scientifico-matematica; ma quella che si trova nascosta dietro le apparenze del mondo materiale, celata tra le pieghe di essa e che deve essere, appunto, decodificata, interpretata, riconosciuta, per mezzo dello studio dei simboli.
Se non si fa capire questo ai nostri studenti, è meglio risparmiar loro la fatica di leggere la «Divina Commedia» di Dante, o di studiare il fenomeno del francescanesimo o, ancora, di andare alla scoperta del meraviglioso mondo della cattedrali gotiche: meglio lasciarli nell’ignoranza totale, piuttosto che fornir loro una mezza verità, quella verità parziale che viene edulcorata e mutilata secondo il modello dei pregiudizi scientisti e materialisti oggi imperanti.
E così come non si può capire nulla del Medioevo se si fa astrazione dalla Ricerca del Graal, così non si può comprendere il senso di quest’ultima se non si esce dall’otica utilitarista e pragmatista della società contemporanea, secondo la quale hanno un senso solo le azioni che possono produrre un risultato tangibile e che possono tradursi in profitto, concreto e immediato, tale da risarcire il lavoro e la fatica che sono stati dispiegati nell’impresa.
Nella prospettiva cavalleresca medievale, tutto, compreso l’amore (l’amore per la donna, l’amore sensuale non meno di quello spirituale) va giudicato secondo un metro completamente diverso: quel che conta non è risultato, ma l’intenzione e, appunto, l’impegno e la fatica che sono stati profusi; il merito e la dedizione sono premio a se stessi. In ogni caso, la ricompensa non viene concepita prevalentemente in termini materiali: simile, in questo, all’uomo greco, che gareggia alle Olimpiadi per una semplice corona d’alloro, l’uomo medievale non cerca il potere e la ricchezza, ma la realizzazione delle sue istanze più profonde, del suo autentico Sé.
Come facciamo a capire una cosa del genere, se non teniamo conto che il denaro, fin verso il XIII secolo, è guardato con profonda diffidenza; che l’usura è severamente condannata, perché il denaro non può produrre altro denaro;  e se non teniamo conto che una delle principali funzioni delle corporazioni era quella di combattere ed eliminare dalla produzione  dal commercio ogni forma di concorrenza tra le botteghe, ogni forma di pubblicità, mirando unicamente alla bontà del prodotto e alla soddisfazione di una cosa ben fatta?
Così John Matthews conclude la sua sintetica ma ben strutturata monografia «Il Graal. La ricerca infinita» (titolo originale: «The Grail Tradition», Element Books, 1992; traduzione italiana di Aldo Troisi, Milano, Xenia Edizioni, 1995, pp. 116-17):

«… siamo partiti dal concetto che la Ricerca del Graal sia una necessità:  la liberazione della Terra Desolata e il risanamento del Re Ferito sono in realtà simboli delle ferite della creazione stessa resa deserta dalla nostra incapacità di comprendere i piani divini. Ma dobbiamo essere in grado di considerarla anche in un altro modo: come non necessaria e neppure desiderabile. In questo modo è possibile scorgere nelle storie aspetti nuovi che possono essere stati messi in ombra  da una naturale reverenza per il tema della Ricerca. Perciò non dimentichiamo che la Ricerca del Graal causò la morte di molti dei ricercatori, l’umiliazione di altri e che affrettò la rovina della Compagnia della Tavola Rotonda dando ai suoi avversari l’occasione di occupare  i posti vuoti della Tavola con propri seguaci e che la Ricerca finì per spezzare personalità come Lancillotto e Galvano, che non furono più in grado di resistere alla marea delle tenebre che li minacciava da ogni lato. Per tutti loro il Graal non fu affatto sorgente di bene.
E ancora, la vittoria di Galahad fu semplicemente una apoteosi personale. Egli poté salire al Cielo, come dice Malory, “con una gran moltitudine di angeli”, mentre Perceval rimane a sostenere il peso della custodia del Graal e Bors ritorna alla sua antica vita quasi che non fosse accaduto nulla. E ancora, se Perceval veramente ritorna al castello del Graal per diventare il suo nuovo custode, in effetti la Ricerca non è servita a nulla.
Questo deve servire a mostrare i modi diversi in cui è possibile considerare la ricerca del Graal e far capire come si possa imparare di più da una commistione di atteggiamenti diversi.
Certo possiamo dire che la ricerca costituì un fallimento. Essa portò la distruzione fra coloro che la praticarono e non fece nulla per il bene di più che un ristretto gruppo di persone.
Oppure possiamo considerare la cosa in un’altra prospettiva e tornare a dire: il Graal è per tutti i tempi e scegliendo di non operare più di un miracolo occasionale, lascia aperta la Ricerca, una sfida per tutti quelli che verranno poi. Ovviamente, preferiamo la seconda risposta. Ma, in ultima analisi, essa è più valida della prima? Il Graal è un mistero, pochi vorranno negarlo. Esso è là per essere indagato anche se elude la scoperta forse fino alla fine dei tempi. Vi è un tempo giusto e un tempo sbagliato per andare alla ricerca del Graal. I tempi di Artù, l’età della tavola Rotonda, sia che la consideriamo una realtà interiore un riflesso degli ideali ella cavalleria, era in realtà un tempo sbagliato. Le apparizioni e le meraviglie della Ricerca sono messi in moto dai CERCATORI STESSI quanto dai poteri superiori che controllano il Graal. La loro esperienza e anche la loro sconfitta, se tale fu, non è perduta. Da essa possiamo imparare quanto da ogni grande insegnamento spirituale. Come ogni impulso interiore- e il Graal anche se può essere visto i altri modi è certamente questo – ha un proprio scopo che noi non sempre siamo in gradi di riconoscere. Solo un aspetto di questo può essere visto nell’energia TRASFORMATIVA del Graal, nella sua capacità di rendere ALTRE le cose. Nessuno che vada alla sua ricerca rimane immutato e anche se non aveva altro scopo che questo, esso sarebbe sufficiente per appagare la sua esistenza.»

Per la mentalità moderna, dunque, tutto il mito del Graal non è altro che un non senso, una completa assurdità, una leggenda priva d’interesse o, tutt’al più, un dato curioso dal punto di vista antropologico e psicologico, quando non addirittura un esempio di psicopatologia, probabile effetto della repressione sociale, culturale, sessuale e religiosa.
Per la mentalità moderna, andare alla ricerca di qualcosa che forse non esiste è semplicemente follia, e consumarvi tutte le proprie energie e tutta la propria vita è una forma di ottenebramento della ragione, dunque una odiosa superstizione; non c’è da meravigliarsi, con tali presupposti, che si pretenda di riscrivere la storia della civiltà medievale a partire dai nostri pregiudizi e che, in questa operazione di riscrittura, non ci sia posto per il mito del Graal.
Si vorrebbe ridurre la spiritualità del Medioevo al livello di un manicomio di alienati, di fanatici, di cupi predicatori di penitenza e di macerazione, come hanno fatto e continuano a fare scrittori come Umberto Eco e registi cinematografici come Jean-Jacques Annaud; oppure, all’opposto, la si vorrebbe trasformare in una redditizia merce New Age, buona per incrementare riviste pseudo-culturali e programmi televisivi che vedono ovunque segreti templari, rituali gnostici, saperi esoterici e oscuri complotti del potere secolare e di quello ecclesiastico per soffocare pretese verità “originarie” del Cristianesimo primitivo, stile Dan Brown.
Quanto alla domanda se la Ricerca del Santo Graal debba considerarsi un fallimento, dato che ha provocato morti e sofferenze, senza approdare ad un risultato certo e definitivo, “spendibile”, come oggi si usa dire (orribile neologismo) in termini quantitativi, crediamo che la risposta sia implicita nel discorso sin qui sviluppato: certo che no, perché quel che si vede è solo una piccola parte del reale, la meno importante e, in ogni caso, quella caduca.
La realtà vera, che non è di questa dimensione, non ha a che fare né con l’utile, né col risultato, con buona pace del Vangelo moderno e secolarizzato di Jeremy Bentham e di John Stuart Mill.
E, nella dimensione della realtà vera, ciò che conta non è il risultato tangibile, ma la ricerca stessa: il percorso dell’anima, solitario e appassionato, in direzione della Verità.
Per la cultura medievale, il mondo è ferito dai peccati degli uomini, è ridotto a una Terra Desolata che attende la sua redenzione: è esattamente ciò che Dante cerca di spiegare ai suoi lettori, fin dai primissimi versi del suo immortale poema.
La Ricerca del Graal nasce, pertanto, da un atto di fondamentale umiltà e di assoluta dedizione: è il segno della volontà dell’uomo di collaborare con Dio in tale progetto di redenzione; una collaborazione che richiede una abnegazione senza limiti e che, pur di ottenere il soccorso della Grazia divina, non teme fatiche, né dolori, né la morte stessa: perché, come spiega San Francesco nel «Cantico delle creature», quest’ultima non è un male; ciò che deve fare paura, invece, è la “morte secunda”, ossia la morte dell’anima, che è la morte della speranza e nella fede nell’Amore riparatore di Dio.