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Peter Handke, uno spettro tra noi (dossier)

di aa.vv - 22/06/2006

Ostracismo all'opera di un autore, per le sue posizioni politiche

Peter Handke, uno spettro tra noi

«Così l'Europa si scarica la coscienza dalle sue responsabilità». Incontro con lo scrittore e attore Moni Ovadia

Tommaso Di Francesco

C'è un avvenimento «europeo» dirompente. E' l'attualità della vicenda «balcanica» che riguarda lo scrittore Peter Handke. Su questo abbiamo rivolto alcune domande a Moni Ovadia, un altro scrittore, autore di teatro e attore, ipersensibile ai nodi della democrazia reale, del rispetto delle minoranze, e più in generale dell'identità occidentale di fronte alla devastazione delle guerre e del terrorismo.

Possiamo dire che s'aggira per l'Europa lo «spettro» di Peter Handke»? Perché è accaduto che prima la Comédie française ha annullato la programmazione di un suo dramma e poi che la città di Düsseldorf ha sospeso l'assegnazione del prestigioso «premio Heine», vinto quest'anno da Handke. Lo scrittore è sotto accusa per essere andato al funerale di Milosevic e per essere filoserbo. Handke si è difeso accusando: «Basta incriminare solo i serbi, parliamo di tutti i crimini se vogliamo che la storia che nei Balcani non passa mai, cominci finalmente a passare». Che ne pensi?

Fatta naturalmente chiarezza sui crimini di Ratko Mladic e Karadzic che sono orrendi e sulle responsabilità di Milosevic, il caso che riguarda Peter Handke è importante perché prima di tutto appare come un modo per scaricare la coscienza dell'Europa dalle sue responsabilità. Come dimenticare infatti che la Federazione jugoslava è stata lasciata affondare proprio dall'Europa, perché l'allora premier Markovic aveva tentato di tenerla insieme aspettando un'apertura di credito, anche politico, proprio dalla Comunità europea. Mentre quando la spaventosa guerra interetnica è partita, sappiamo benissimo che dall'Europa invece sono venuti riconoscimenti intempestivi delle indipendenze su base etnica di Slovenia e Croazia, immediate da parte della Germania e del Vaticano - cosa di cui papa Wojtyla alla fine, se ben ricordo, fece in parte ammenda.
Poi ci sono i crimini compiuti dai leader delle altre «etnie», di cui nessuno parla. Silenzio su Franjo Tudjman, ipernazionalista xenofobo e revisionista storico, grande alleato dell'Occidente, già generale di Tito quindi perfino ex uomo della nomenklatura del regime, diventato poi di estrema destra al punto di riabilitare il cardinale Stepinac e gli ustascia - ci è mancato poco che andasse a recupare il corpo di Ante Pavelic. Le colpe e i crimini non sono solo dalla parte serba, ma anche croata e musulmana. Peter Handke ha ragione, e non citare mai le responsabiltà degli altri è una operazione non pulita. Bisogna abbandonare la pratica di coprire un massacro con un altro. Bisogna individuare le responsabilità precise, ma di tutti. Ho un amico - madre serba e papà croato - che molto emotivamente a una mia domanda sbottò: «E' una guerra fra cattivi e pessimi».

Il fatto è che a Peter Handke rimproverano proprio i suoi dubbi sui riconoscimenti del 1991, quando domandò alle cancellerie europee perché consentissero alle autoproclamazioni di stati che si dichiaravano indipendenti sulla base di identità etniche quali la «slovenicità». Ma la risposta fu il riconoscimento delle divisioni fino alla loro statualità legittimando la guerra interetnica scatenata per raggiungere l'indipendenza...

Sono totalmente d'accordo. Infatti c'erano interessi strumentali degli stati europei quanto ad aree di influenza, che li ha spinti in questa direzione. Garantire l'ingresso unitario della Federazione jugoslava avrebbe favorito il permanere dell'entità «jugoslava», con milioni di persone legate a famiglie miste, con una lingua unica e bellissima, il serbo-croato, con interessi economici necessariamente eguali anche se, come in tutta l'Europa occidentale, fortemente contrapposti tra un nord e un sud interni. Era una convivenza quella della Federazione jugoslava necessaria anche per la nuova Europa che cominciava a nascere. E invece...
Certo, la questione resta complessa, perché insieme alle responsabilità dell'Europa impegnata nei Balcani a dividere invece che ad unire, ci sono anche le responsabilità del passato regime di Tito. C'è l'irrisolta questione del difficile equilibrio tra vari «diritti nazionali» con corrispettivi «diritti di veto», e il mancato approfondimento delle responsabilità degli ustascia, dello stato fascista croato. Comunque l'Europa si è comportata in modo ignobile con vari paesi europei che hanno fatto i loro affari con la devastazione della Jugoslavia. E non vorrei che l'operazione su Handke, un intellettuale scomodo e problematico che non ha mai scritto glorificazioni di Milosevic, servisse proprio per chiudere tutta la vicenda scaricando solo su Milosevic e su quattro tagliagole serbi l'intera vicenda, cosa che farebbe molto comodo a un'Europa che continua a non voler fare i conti con se stessa. Così continuiamo a tenerci dentro la malattia della menzogna, perché pensiamo di sfangarla ... Come quando viene ripetutamente lanciata l'operazione delle foibe fino a dimostrare che l'Italia fascista fu la vittima. Nessuno va a inginocchiarsi nei villaggi africani davanti agli orrori del generale Graziani o, appunto, nei villaggi dell'ex Jugoslavia davanti alle lapidi dei civili e dei partigiani massacrati dalle camicie nere. Tutto dimenticato, la pulizia etnica ordinata da Mussolini, il lager di Arbe, quello di Jasenovac dove quasi 500.000 serbi sono stati massacrati dagli ustascia croati. Era l'imperativo del nazismo: le popolazioni slave dovevano essere liquidate o schiavizzate.
E' giusto celebrare i morti innocenti che nelle foibe ci sono stati, ma capire anche quali sono le principali responsabilità: non si può riabilitare il fascismo attraverso le foibe. Lo stesso meccanismo viene usato per l'ex Jugoslavia. E' stata solo colpa di Milosevic - dimenticando i suoi saldi rapporti con gli Usa -, i tagliagole al suo soldo e ai suoi ordini hanno fatto tutto, le altre milizie «etniche» armate sono perfettamente a posto. Temo che così abbiamo creato altri «problemi», se non altri rigurgiti di odio... e di guerra.

Wim Wenders ha difeso Handke ricordando ai tedeschi che è incredibile che quelli ai quali è stata risparmiata l'accusa di «colpa collettiva» verso il nazismo, diventino gli accusatori di un intero popolo, i serbi...

Ha ragione: la Germania ha avuto sì il processo di Norimberga ma dopo gli è stata data fiducia illimitata, al punto che abbiamo una delle democrazie più forti. Allora lo stesso va fatto con la Serbia, anche se il paragone non tiene neanche quanto a colpe. L'argomento di Peter Handke ha grande dignità se lo si legge in profondità, non ideologicamente. Il suo libro Viaggio in inverno parte proprio dal presupposto di salvare l'innocenza del popolo serbo, anche dall'ignominia dei luoghi comuni che lo vogliono colpevole di tutto. Ma attaccare un intellettuale, metterlo alla gogna, non serve a niente. E' polvere mediatica. Non serve neanche a colpire Peter Handke la cui autorevolezza intellettuale e la cui capacità di leggere problematicamente la sua società e l'Europa è secondo me più forte di tutti questi boicottaggi. L'isolamento - parlo solo di isolamento mediatico culturale - può sembrare giusto per i negazionisti alla Irving. Ma il problema resta se non si vanifica il discorso negazionista nella fattività sociale. Noi non possiamo mettere in galera Irving, eppoi vivere in un paese dove i nazifascisti partecipano da protagonisti nella coalizione di centrodestra che si presenta alle elezioni. Colpire Handke, vuol dire colpire la problematicità di pensiero.

Per nascondere verità fastidiose. Come il fatto che la Serbia accusata di pulizie etniche, vive con un milione di profughi cacciati da Bosnia, Krajine croate e Kosovo. Mentre si plaude alla nascita di piccole patrie, il Montenegro e tra poco il Kosovo...

Tutta gente che vivrà e crescerà in un totale risentimento. Convinti di essere le vittime, oltretutto pugnalate alla schiena da quell'Occidente del quale si considerano da sempre parte. Peccato che Versailles non abbia insegnato niente. Sono stato con Paolo Rumiz in un monastero serbo protetto dalle truppe italiane. Sono i luoghi, raccontano i monaci, dove durante le catastrofi di tutte le guerre hanno sempre accolto tutti, anche albanesi e musulmani. Ho sofferto enormemente a vedere come sono ridotti e considerati i serbi. Perché i serbi sono fra i pochissimi che hanno messo i loro corpi, letteralmente, tra i nazisti e gli ebrei. Siamo alle solite, c'è la pace di Dayton, e tutto è fatto sempre con il solito meccanismo. Le responsabiltà profonde della comunità internazionale, le ragioni per cui è accaduto, una analisi articolata e problematica anche con un confronto vero - come chiede Peter Handke - non c'è. Perché per esempio l'Onu non è in grado di intervenire a monte invece che a valle? - tra l'altro con interventi fallimentari. Perché ci vuole sempre lo sceriffo che faccia vedere che è meglio se lui è il padrone del mondo, così tutto va a posto? L'operazione contro Handke mira ad imbavagliarci. C'è ormai una malattia assai diffusa: non c'è più l'ascolto e la dignità dell'argomento. Se critichi la guerra in Iraq sei subito antiamericano, se critichi la guerra alla Jugoslavia sei immediatamente filoserbo.

Non sarebbe ora che l'Italia e l'Europa ripensassero a quel che è accaduto nei Balcani comprese la guerra «umanitaria» decisa dalla Nato, senza l'Onu, e con tante vittime civili?

E' assolutamente necessario. E devono smetterla di tapparci la bocca con il fatto che i bombardieri americani hanno impedito che venissero uccise migliaia di persone se poi quei bombardieri hanno ucciso migliaia di persone. Possiamo continuare con un mondo nel quale sono gli americani a decidere chi va bene e chi no? Non si può andare avanti così perchè i risultati poi peseranno tra una generazione. E potrebbero scatenarsi i mostri.

Tommaso Di Francesco intervista Moni Ovadia
Fonte:
http://www.ilmanifesto.it/
Link:
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/18-Giugno-2006/art34.html
18.06.2006
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marzian
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MessaggioInviato: Mer Giu 21, 2006 5:29 pm    Oggetto: Rispondi citando

Tra opera e biografia

Carla Casalini

Moni Ovadia rivolge la domanda al giudice, invece che al giudicato, per chiedergli - chiedere a noi europei, alle nostre istituzioni - se nel dare l'ostracismo a Peter Handke perché difende i serbi (contro i cui leader e «tagliagole» Ovadia non è certo tenero) non ci sia un movente improprio, una pervicace cattiva coscienza, e cattiva manovra per nascondere le «responsabilità» dell'Europa. Moni Ovadia per altro avverte di quanto sia pericoloso isolare e incolpare delle pulizie etniche balcaniche non tutti i leader responsabili ma uno solo, e identificandolo addirittura con un intero popolo: possono crescere riscentimenti nelle generazioni ...possono risvegliarsi i «mostri».

Anche Wim Wenders era intervenuto in questo senso. E ieri, su Repubblica - nella discussione europea sul «caso Handke» che continua a infuriare - lo scrittore Gunter Grass ritorna sia sulle responsabilità dell'Europa, e per altro verso sulla «attenzione particolare riservata ai vinti» dagli scrittori che può muoverli nell'intervento sulle questioni politiche.

Ma Gunter Grass non si ferma qui, e affronta la questione di fondo che sottende tutta questa storia: la messa all'indice dell'opera di uno scrittore, di un artista, per le posizioni che sostiene sulla scena politica quotidiana. Perchè questo ciò che è avvenuto: dalla decisione dei responsabili teatrali francesi della Comédie di cancellare dal programma un lavoro di Handke - dopo la sua partecipazione, con discorso, ai funerali di Milosevic; ai consiglieri comunali di Dusseldorf che con la stessa motivazione hanno rifiutato di consegnare il premio Heinrich Heine vinto da Handke.
In gioco c'è infatti la la pretesa di identificare l'opera di un autore tout court con la sua biografia. Pretesa nefasta teoricamente, e fattivamente, come dimostrano gli esempi di cui la storia è piena, e le coperture fornite per questa via anche ai peggiori regimi totalitari. Non che, in contrappasso, anche le glorificazioni tributate, piegando opere artistiche alle necessità del potere.

Gunter Grass fa piazza pulita di tali operazioni anche per il caso di Peter Handke. Ed è proprio da questo luogo di rigorosa chiarezza che avverte: però uno scrittore, come agente del suo tempo, non è al di sopra del mondo, ed è perciò responsabile personalmente delle sue prese di posizione politiche. Ed è su tale piano consono che P critica Handke.

Carla Casalini
Fonte:
http://www.ilmanifesto.it/
Link:
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/18-Giugno-2006/art33.html
18.06.2006
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marzian
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MessaggioInviato: Mer Giu 21, 2006 5:31 pm    Oggetto: Rispondi citando

«Casa Slovenia»

Peter Handke contro la disintegrazione della Jugoslavia. Un testo dal manifesto Domenicale 1991

Peter Handke

Sono state invocate tante ragioni per cui debba esistere uno stato a sé stante, a pieni effetti, chiamato «Repubblica slovena». Perché queste ragioni fossero per me pensabili, afferrabili o accessibili, dovrei prima poterle vedere; il sostantivo «ragione» può, almeno per me, sussistere solo insieme al verbo «vedere». E non vedo nessuna ragione, neanche una sola - neppure il cosiddetto «panzercomunismo della Grande Serbia» - per lo stato sloveno; non si tratta di nient'altro che di un fatto compiuto. Così come non riesco a vedere ragioni per uno «stato croato»: ma questo certo mi riguarda di meno (anche se non ne sono così sicuro). Il paese sloveno e i due milioni di teste che formano il popolo sloveno invece, li considero una delle poche cose che per me si coniugano all'aggettivo «mio».Non di mia proprietà, ma appartenenti alla mia vita. Non per questo mi metto a fare lo «sloveno».

Però sono nato in un villaggio della Carinzia dove un tempo, durante la seconda guerra mondiale, la maggioranza degli abitanti, anzi si può dire tutti, erano austriaco-sloveni, e parlavano un dialetto corrispondente a questa doppia appartenenza linguistica. Mia madre da ragazza, influenzata soprattutto dal fatto che suo fratello maggiore studiava frutticoltura oltre confine, nella Maribor sloveno-jugoslava, si considerava una di quel popolo (anche più tardi, dopo la guerra, ormai tra altre cose). Mio padre però era un soldato tedesco, e il tedesco divenne la mia lingua: durante i miei primi anni, a Berlino est, e, anche se in un modo diverso, alla fine della mia infanzia, di nuovo nel vecchio villaggio sloveno, che col tempo perdeva la sua identità, tanto che persino gli abitanti finirono per chiamarlo «Stara Vas» soltanto per gioco.

Bambino nella capitale tedesca, i suoni slavi primordiali mi ferivano le orecchie e in certe occasioni arrivai addirittura a tappare la bocca a mia madre.

Nel corso degli anni, soprattutto perché trovavo delle immagini, immagini raccontate degli antenati sloveni, le cose cambiarono, come è naturale (o dovrebbe essere naturale) che avvenga. Tuttavia non sono mai diventato «sloveno», neppure a metà, anche se intanto leggevo abbastanza la lingua. Se oggi devo immaginare di appartenere a qualche sorta di popolo, mi viene da scegliere il popolo «dei nessuno». Una condizione che talvolta può essere salutare, a volte dannosa (nei momenti in cui non riesco più a pensare una comune appartenenza con i nessuno che vanno randagi per il globo terrestre).

Nonostante ciò, nella mia vita in nessun posto mi sono sentito, da straniero, così a casa come in Slovenia. Per molti anni, un quarto di secolo, mi è successo e mi ero già convinto di potermi fidare, che in quei luoghi esistesse qualcosa di simile a un tempo durevole, a differenza dei luoghi ingannevoli dell'infanzia, dalla quale io e tutti, malgrado le dicerie romantiche, ci siamo visti cacciati come niente.

A casa in Slovenia, Jugoslavia? Nella realtà. Era esattamente il contrario di quella irrealtà che aveva gettato nell'orrore il protagonista delle Lettere di un ritornato di Hoffmansthal, che dopo una lunga assenza dalla sua terra tedesca, non riusciva più a sentire l'esistenza di nessuna cosa: una brocca non sembrava più una brocca, un tavolo non stava più lì come tavolo. In Germania tutto appariva «non oggettuale» al ritornato. Come diventarono invece concrete negli anni, ogni volta che ripassavo il confine, le cose per me in Slovenia: invece di sfuggire - come avveniva nel frattempo alla maggior parte delle cose, non solo in Germania, ma dappertutto in occidente - si avvicinavano. L'attraversamento di un fiume si poteva sentire come ponte, uno specchio d'acqua diveniva lago; camminando ci si sentiva sempre accompagnati da una catena di colline, una fila di case, un frutteto; fermandosi ci si sentiva circondati da cose vive. (...)

La Slovenia apparteneva per me da sempre alla grande Jugoslavia, che iniziava al sud dei monti Karavanchi e finiva molto in giù, per esempio sul lago Ohrid vicino alle chiese bizantine e alle moschee islamiche, davanti all'Albania o nelle pianure macedoni prima della Grecia. E proprio l'evidente autonomia slovena, come anche degli altri paesi slavi del sud - autonomia che sembrava non aver mai avuto bisogno di una sanzione statale - contribuiva ai miei occhi a questa naturale, grande unità. (...)

Peter Handke
Fonte:
http://www.ilmanifesto.it/
Link:
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/18-Giugno-2006/art35.html
18.06.2006