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La leggenda nera degli Spagnoli in Olanda nel 1500 e 1600 è davvero così nera?

di Francesco Lamendola - 14/10/2011




Vi sono dei cliché, dei luoghi comuni, dei “topoi” intoccabili, nella storia d’Europa, che abbiamo bevuto, si fa per dire, con il latte materno; e che, non essendo mai stati minimamente messi in dubbio da alcuno, si sono radicati nelle nostre menti con radici profondissime, al punto da acquisire lo statuto ontologico di verità definitive e indiscutibili, che non hanno nemmeno bisogno di dimostrazione, tanto sono evidenti di per se stesse.
Che la Spagna, nel tardo XVI secolo e soprattutto nel XVII, abbia svolto un ruolo regressivo nella politica europea, nella società, nell’economia, nella cultura; che, specialmente nei Paesi Bassi, non abbia saputo governare se non con la spada insanguinata delle soldataglie del duca d’Alba e con i roghi degli eretici della Santa Inquisizione; che ovunque abbia perseguitato la libertà di pensiero e perseguito strenuamente l’intolleranza e il fanatismo; che abbia saputo solamente espellere le sue minoranze più creative e laboriose, come Mori, Ebrei e Protestanti, impoverendosi e riducendosi ad un deserto popolato solo di pastori e di frati; che abbia realizzato la forma più dispotica, più biecamente arrogante e brutale di centralismo amministrativo e finanziario, sfruttando le province con selvaggia avidità e lasciando mano libera alle prepotenze e alle illegalità dei baroni e degli altri nobili: tutto questo, e altro ancora,  forma la “leggenda nera” da cui si direbbe che nulla e nessuno potranno mai riscattarla, nemmeno timidamente e parzialmente.
E siccome abbiamo imparato a mandare giù questa minestra fin dagli anni del liceo, se non prima, e poi, all’università, ci siamo sentiti dire e ripetere le stesse cose, semmai rincarando la dose, abbiamo finito per considerarle verità assoluta, né mai ci è sorto il minimo dubbio che questa visione manichea della storia, con tutta la luce da una parte e tutta l’ombra dall’altra, è, in effetti, null’altro che l’interpretazione interessata del vincitore: l’Inghilterra della “grande” Elisabetta, l’Olanda di Guglielmo il Taciturno e, poi, la Francia di Richelieu; le potenze emergenti economicamente e politicamente, che, come tutti i vincitori, scrivono la storia per celebrare se stessi e non certo per stabilire la verità.
Quello che è stupefacente, semmai, è che la Vulgata del vincitore si sia protratta per quattro secoli e che gli eredi degli sconfitti, ossia i Paesi cattolici dell’Europa meridionale, l’abbiano fatta propria senza batter ciglio, senza manifestare la minima perplessità e senza sollevare alcuna obiezione; che l’abbiamo abbracciata così entusiasticamente, come se fosse stata scritta dai loro stessi storici e non dagli storici dell’altra parte, intesi unicamente a celebrare la grandezza e lo splendore dei propri rispettivi Paesi, la saggezza e la lungimiranza dei propri politici, l’intraprendenza dei propri mercanti e dei propri banchieri.
Valga per tutti il caso dello storico Giorgio Spini, che, quando parla della Spagna nel 1500 e nel 1600 e quando descrive il regno di Filippo II e il dramma delle guerre religiose nei Paesi Bassi Spagnoli, lo fa, da buon protestante (valdese), dipingendo un quadro a tinte fosche, nel quale alle tenebre oscurantiste della politica spagnola fanno contrasto le luci radiose di libertà e di progresso che vengono dai Pesi luterani e calvinisti del Nord Europa.
Vittorio Messori, da parte sua, ha detto che, in cambio della vittoria (non decisiva) di Lepanto sui Musulmani, nel 1571, avrebbe preferito cento volte la vittoria dell’Invincibile Armata sulla flotta inglese nella Manica, nel 1588; ma quante voci del genere hanno occasione di udire i nostri studenti, dai libri di testo o dalla voce dei professori? Nessuna; e così la “leggenda nera” spagnola in Europa (e nelle Americhe) si perpetua all’infinito, per semplice forza d’inerzia.
Salvador de Madariaga (1886-1978), il grande storico, scrittore e diplomatico spagnolo, ha così riassunto la questione della “leggenda nera” della Spagna nell’Europa settentrionale (in «Ritratto d’Europa»; titolo originale: «Portrait of Europe»; traduzione di Albina Ferretti Calenda, Milano, Il Borghese, 1964 e La biblioteca di “Libero”, 2005, pp.184-88):

«Carlo, fattosi con gli ani così spagnolo da non voler parlare se non quel castigliano che aveva imparato per ultimo, abdicò nel 1555-6 lasciando le Fiandre a suo figlio Filippo che gli succedete come re di Spagna, anziché al fratello di questi, Ferdinando, che successe al padre come imperatore di Germania: decisione che fu disastrosa per la Spagna, perché rappresentò la rovina per il suo Tesoro, l’inimicizia coi paesi nordici, col mondo protestante, e l’esaurimento in una lunga guerra estranea ai suoi veri destini e ai suoi interessi nazionali; per le Fiandre, significò una lotta a lungo protratta, spesso sanguinosa e distruttiva, ma coronata alla fine dalla libertà.
Si potrebbe affacciare questo paradosso, che se Carlo d’Asburgo avesse lasciato all’imperatore quella che allora veniva chiamata “Germania inferiore”  è perlomeno incerto se l’Olanda e il Belgio esisterebbero oggi come nazioni indipendenti.
Ma esse esistono, e tutte due hanno forti legami spagnoli. Spesso così in Belgio come in Olanda s’insegna la storia con quello stesso spirito fieramente avverso alla Spagna che si sarebbe potuto aspettarsi nel secolo decimosettimo, omettendo qualunque allusione al dominio che sulla Spagna esercitarono fiamminghi e olandesi  durante i primi anni di Carlo V. Fui per me una curiosa impressione l’informare nel 1950, gli studenti di una università olandese che il loro compatriota Adriano di Utrecht era stato non solo reggente di Spagna ma anche l’inquisitore generale : non l’avevano mai sentito. E nemmeno sapevano che Erasmo avesse vissuto per annidi una pensione di duecento ducati che gli versava Fonseca, l’arcivescovo di Toledo, e che l’amico di lui, Luis Vives, uno dei più illustri umanisti, espulso dall’Inghilterra per volontà di Enrico VIII a motivo delle sue opinioni sul divorzio famoso, si fosse stabilito a Bruges, a richiesta della città, e lì avesse scritto una specie di Piano Beveridge che stupisce nella sua modernità di visioni e di conclusioni.»
Ma peggiore di questa ignoranza di singoli fatti, ancorché rilevanti, è la prospettiva falsata la quale manca di rendersi conto che non fu mai la Spagna  a tiranneggiare i Paesi Bassi, ma che invece tanto la Spagna che i Paesi bassi furono oppressi da una dinastia che olandesi e fiamminghi consideravano spagnola, e gli spagnoli fiamminga. La prima volta che mi trovai a Ginevra a rappresentare la Repubblica spagnola  avevo appena finito, durante una seduta della Commissione europea, un breve indirizzo augurale quando un signore dai capelli rossi si alzò dal banco di fronte, attraversò l’intera sala e venne molto cordialmente a stringermi la mano. “Sono Colijin”, mi disse, “il primo ministro olandese” e dopo qualche parola cortese su quel che avevo detto, aggiunse: “Avevo tanto desiderato di conoscervi per dirmi quanto mi fosse piaciuto il vostro libro sulla Spagna, e in modo speciale quel che dite di Filippo II. È un argomento che a noi olandesi può ancora essere utile sentir trattare da un diverso punto di vista”. Io, allora, senza il minimo segno di umorismo e con la massima serietà, replicai: “Signor Primo Ministro, noi spagnoli siamo portati alla massima imparzialità verso Filippo II che, per noi, era fiammingo”. L’altro parve vacillare, e a me sembrò che fosse caritatevole lasciar cadere qualche osservazione di carattere generale e senza importanza, perché potesse appoggiarsi su quelle per riprendere l’equilibrio.
Ma è un fatto che i capelli color del lino e gli occhi acquei di Filippo II non avrebbero potuto essere meno spagnoli di così.  Quando Egmont andò in Spagna (1565) latore di proposte ragionevoli da parte di margherita di Parma per pacificare i paesi Bassi, Filippo II convocò un consesso di teologi che gli consigliassero se potesse concedere ai suoi sudditi del nord la libertà di coscienza. Il consesso deliberò che, considerato o stato di quelle province e i pericoli che la Chiesa universale avrebbe potuto ricevere da una ribellione colà, il re potrebbe accordare la libertà di culto senza rischi per la sua regale coscienza.  Ma il re rimase inflessibile. Questo stesso re fece arrestare nel dicembre 1591 Lanuza, primo magistrato d’Aragona, nella città di Saragozza esattamente con lo stesso sistema a tradimento con cui aveva fatto arrestare Egmont e Horn a Bruxelles il 9 settembre 1567, e lo fece decapitare in maniera altrettanto illegale, se non più. Il suo potere assoluto in Spagna e, attraverso la Spagna, nelle Fiandre, fu conseguenza della disfatta dei comunitari spagnoli sotto il regno precedente. Non fu la Spagna ma fu Filippo II ad opprimere olandesi e fiamminghi e, per quanto possa sembrare paradossale, fu il rifiuto della Spagna di accordare a Filippo i fondi occorrenti per sostenere le sue guerre nel nord che sospingendo le truppe di Filippo, non pagate, ad ammutinarsi, accrebbe in modo così terribile le sofferenze dei fiamminghi.
I fiamminghi si erano andati, dal principio del secolo, ispanicizzando sempre più: ondate su ondate di ebrei spagnoli espulsi arrivavano ad Anversa e a Rotterdam, contribuendo a dare ai Paesi Bassi quell’atmosfera particolare, spagnola, che ancora non hanno perduta. Quanto alle armate di occupazione, non sempre ribelli né inclini alla distruzione, anch’esse lasciarono la loro impronta nella popolazione dei due paesi. Effettivamente, io mi trovai presente a una conversazione ch’ebbe luogo a Ginevra, in cui il dottor Goebbels spiegava le ragioni del suo aspetto non ariano con questo intervento, non ortodosso, delle soldatesche spagnole fra la popolazione di quel Bezirk germanico da cui egli proveniva e che, diceva, in passato era appartenuto alle Fiandre.
Così un mero capriccio della storia ha portato la Spagna sull’ultimo tratto della vallata del Reno quasi a completarne lo spirito europeo. V’erano tratti comuni ai due popoli, lo spagnolo e il fiammingo, che facilitarono questo processo, e in particolare la tendenza per la pittura. I sovrani spagnoli dei due paesi furono in grado di scegliere fra i loro sudditi del nord e quelli del sud alcuni fra i più famosi maestri di quest’arte; Rubens, che a Madrid s’incontra con Velasquez, che studia e copia Tiziano alla corte di Filippo IV e per quella corte, e che da Ferdinando e Isabella, eppoi da Filippo di Spagna, è istituito diplomatico spagnolo oltre ad essere pittore di corte, è un simbolo di questo legame,. Altro legame è lo stretto  rapporto tra la scuola musicale fiamminga e la spagnola.
Tutto, dunque, non fu sangue, torture e tirannia tra le Fiandre e la Spagna. Quando nelle strade di Bruxelles le guardie spagnole fermavano qualche tipo non desiderabile, un eretico, uno “straccione” o forse un ladro o un ubriaco, e lo conducevano al posto di polizia, usavano dirgli:  “Andiamo, amico”: “Vamos, amigo”. Il centro di polizia a Bruxelles si chiama ancora:”l’Amigo” e la strada in cui si trova porta tuttora il none di “rue de l’Amigo”.»

Certo nessuno si sogna di dire che la Spagna di Carlo V e di Filippo II fosse un modello di tolleranza, di buon governo e di corretta amministrazione.
Eppure qualche ragione ci sarà se il XVII secolo è stato, per essa, “el siglo de oro”, che ha visto fiorire il romanzo di Cervantes, il teatro di Calderon de la Barca e di Tirso de Molina, la pittura di Velasquez, di El Greco, di Murillo, di Zurbaran e se è stato illuminato da personalità gigantesche dal punto di vista spirituale, come Teresa d’Avila, o religioso, come Ignazio de Loyola; e se, infine, la Spagna è stata in grado di difendere a lungo, con successo, i suoi numerosi we sparsi possedimenti, ivi compreso l’immenso impero coloniale americano, pur trovandosi in condizioni di schiacciante inferiorità rispetto alla flotta britannica e, poi, a quella olandese e, soprattutto, rispetto ai sistemi produttivi e ai centri finanziari dell’Europa settentrionale, coi quali era perennemente in lotta.
Certo, nessuno potrà affermare che la politica spagnola nei Paesi Bassi, che portò alla perdita dell’Olanda ed impoverì irreparabilmente le finanze spagnole, oltre a logorarne l’esercito (fino alle decisive sconfitte di Rocroi, nel 1643, ad opera del Condé, e di Dunkerque, nel 1658, per opera del Turenne), sia stata abile o che abbia brillato per intelligenza politica.
Eppure qualche ragione ci sarà se la parte meridionale di essi, l’odierno Belgio, scelse infine di tornare alla fedeltà verso la Spagna e verso il cattolicesimo; e se la stessa Olanda, pur attraverso un’epica lotta per l’indipendenza (generosamente sovvenzionata, peraltro, dalla protestante Inghilterra), ha potuto costruire un futuro di autentico splendore commerciale, finanziario, culturale: forse, dalla Spagna essa non aveva subito solo sfruttamento e violenze, altrimenti è ben difficile capire come, verso la metà del 1600, dopo appena due o tre generazioni, essa abbia potuto diventare, e sia pure per un breve periodo, la nazione più prospera, più ammirata e più invidiata d’Europa, sotto ogni punto di vista.
Forse, la verità è che l’intera storia dell’Europa moderna dovrebbe essere completamente riscritta…