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Quanta faziosità nella ricostruzione storica di Giorgio Spini della Spagna cattolica

di Francesco Lamendola - 18/10/2011



Come c’informa la «Enciclopedia biografica universale» della Treccani (Roma, 2007, vol. 18, p. 244) Giorgio Spini, nato a Firenze nel 1916 e ivi deceduto nel 2006, è stato professore di Storia all’Università di Messina dal 1952, e in quella di Firenze dal 1960.
I suoi interessi di ricercatore si sono orientati specialmente verso la storia della signoria medicea («Cosimo I de’ Medici e la indipendenza del principato mediceo», del 1945), quindi sulle vicende politico-religiose dell’età moderna e contemporanea, pubblicando «Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano», nel 1950; «Risorgimento e protestanti», nel 1956; «L’evangelo e il berretto frigio. Storia della Chiesa cristiana libera in Italia», nel 1971; nonché sulla storia dell’America anglosassone («Autobiografia della giovane America», 1968) e una sintesi complessiva intitolata «Storia dell’età moderna», del 1965.
Con il figlio Valdo, esponente del Partito Socialista Italiano, che ne fu vice-segretario nazionale dal 1981 al 1984, Giorgio Spini ha pubblicato anche un’opera di carattere autobiografico, apparsa nel 2002: «La strada della liberazione. Dalla riscoperta di Calvino al Fronte dell’VIII Armata»; che, come si vede fin dal titolo, lega indissolubilmente, nella vicenda umana dell’Autore e nella sua concezione storico-religiosa, l’idea protestante con la Resistenza al nazifascismo, quasi che la seconda fosse il naturale sbocco di quella.
Giorgio Spini, infatti, era di fede valdese; e tale fede traspare ampiamente dalle sue opere storiche, ma specialmente da quelle dedicate alla scuola (e, in particolare, il «Disegno storico della civiltà», per i Licei e gli Istituti Magistrali) che ebbero, all’epoca, vasti consensi e conobbero un’ampia diffusione, perfino nelle scuole private cattoliche, come possiamo testimoniare per esperienza personale.
Ciò potrebbe far pensare che l’opera storiografia dello Spini si segnalasse per un particolare sforzo d’imparzialità e per una oggettività rigorosa; ma non è così: al contrario, denota l’inconsapevolezza, il conformismo e la mancanza di discernimento critico da parte di molti professori delle scuole superiori, o, per dir meglio, la loro deliberata faziosità “progressista”  ed i loro radicati pregiudizi di matrice anticattolica.
Di fatto, la ricostruzione storica di Spini avviene attraverso la duplice lente del suo progressismo e del suo protestantesimo: buone sono le politiche che si avvicinano alle sue convinzioni ideologiche, cattive quelle che se ne discostano. Il passato non è serenamente considerato e ricostruito secondo la sua logica interna, ma sottoposto al confronto implacabile con le categorie politiche e religiose proprie della modernità, e giudicato dal punto di vista soggettivo dell’Autore.
La cosa è particolarmente evidente nei capitoli dedicati alla nascita dell’Europa moderna, ovvero al XVI e al XVII secolo, tra Riforma protestante e Controriforma cattolica: e già i termini sono significativi di tale atteggiamento, perché la Riforma protestante fu piuttosto una Rivoluzione, cioè uno scardinamento della concezione cristiana e la Controriforma fu anche, e soprattutto, una Riforma, vale a dire un rinnovamento interno, che ferveva già da almeno due secoli, piuttosto che una semplice reazione alla ribellione di Lutero e di Calvino.
Leggendo il testo di Spini, non vi si trova nulla, assolutamente nulla di diverso da quello che si potrebbe trovare in un libro di storia inglese, olandese o americano: il regno di Elisabetta d’Inghilterra appare circonfuso di gloria; la lotta degli Olandesi per l’indipendenza è seguita con commossa, trepidante partecipazione; le imprese di Gustavo Adolfo nella Guerra dei Trent’Anni trasudano partecipazione emotiva e approvazione ideologica, tanto quanto le vicende della Chiesa, della Spagna e delle altre potenze cattoliche appaiono sotto una luce negativa, quasi una raccapricciante galleria di prepotenze, errori e degenerazioni.
Ora, è chiaro che la storia è storia, e che i libri di storia dovrebbero innalzarsi al di sopra delle contingenze di tempo e di luogo di chi la studia; certo, sarebbe una bella cosa: ma, di fatto, sappiamo benissimo che non è così. Possiamo immaginare, per fare un esempio, che uno storico italiano ed uno austriaco parlino allo stesso modo del Risorgimento o anche, semplicemente, della prima guerra mondiale, ossia di un “semplice” conflitto tra Stati sovrani?
Ciò premesso, bisogna osservare che sono proprio i libri di storia dei Paesi anglosassoni a trasudare le forme peggiori di nazionalismo e di partigianeria: quale testo scolastico inglese presenterà mai Churchill come un grande criminale? Eppure, un grande criminale lo è stato: le macerie delle città tedesche distrutte deliberatamente dall’aviazione britannica, senza alcuna necessità militare, e le centinaia di migliaia di persone innocenti bruciate vive con le bombe al fosforo liquido o seppellite sotto le rovine delle loro case, stanno lì a dimostrarlo.
I libri di storia tedeschi, invece,  a cominciare dai testi scolastici, riflettono un profondo ripensamento della propria storia nazionale: Hitler non vi è certo presentato come un eroe, ma come il capo di un regime totalitario e criminale. Non parliamo, per carità di patria, dei libri italiani, nei quali l’autodenigrazione di tutto un popolo si spinge oltre ogni ragionevole misura e rispetto di sé, fino a raggiungere quasi i vertici del surreale.
Lasciamo, dunque, che i libri di storia inglesi e americani insegnino agli studenti che Francis Drake fu un eroe romantico e non un corsaro senza scrupoli; che la regina Elisabetta è stata una grandissima figura di sovrana e non una crudele, avida, spietata persecutrice dei suoi nemici e della minoranza cattolica; che tutte le ragioni stavano dalla parte dei seguaci di Lutero, di Calvino e perfino di quella specie di sadico Barbablù che è stato Enrico VIII d’Inghilterra, mentre tutti i torti erano dalla parte dei papi, dei cattolici e dei re di Spagna.
Ma perché dovremmo accondiscendere a suonare la stessa musica anche sui nostri libri di testo? Perché i nostri storici dovrebbero identificarsi con la parte che, allora, stava - come si suole dire - dall’altra parte della barricata; e che ancora oggi - questo è il punto - vorrebbe disegnare il mondo a sua immagine e somiglianza: bianco, protestante, anglosassone?
Nelle pagine di Giorgio Spini, Filippo II appare come il prototipo del sovrano assolutista e fanatico, che, per smania di centralizzare e di uniformare tutti e tutti, prepara la rovina del suo stesso regno: quasi una caricatura o il protagonista di un dramma teatrale, non un personaggio storico a tutto tondo; il Duca d’Alba è un soldataccio sanguinario, che sa solo impiccare e decapitare; la repressione spagnola nei Paesi Bassi è una guerra di sterminio; Olivares, al confronto di Richelieu, è uno statista miope, irrealistico, condizionato dai propri pregiudizi religiosi e votato all’insuccesso; tutta la Spagna non è che un immenso convento e una immensa caserma, mentre, all’opposto, tutti i Paesi protestanti non sono che delle fucine di libertà, di fervore industriale e commerciale, di intelligenza politica.
Scrive, ad esempio, il Nostro, nel suo affermato «Disegno storico della civiltà» (Roma, Editrice Cremonese, 1963, 1970, vol. 2, pp. 168-69; 172-73):

«Questo regime di esasperato centralismo castigliano era reso tanto più pernicioso nei suoi effetti dall’imperversare della crisi economica, scatenata dall’inflazione e dall’assurda politica finanziaria dello stato spagnolo. Mentre il rincaro dei prezzi, prodotto dall’afflusso dei metalli preziosi dall’America, metteva alla fame gli strati più umili della popolazione e provocava la rovina dell’industria spagnola, incapace di resistere più alla concorrenza straniera, lo stato si accaniva ad oberare d’imposte quanti ancora continuassero a lavorare e a produrre. Una burocrazia favolosamente corrotta e rapace, una casta militare cresciuta di numero e di prepotenza nei lunghi anni di guerra con la Francia e di conquiste nell’America, un clero continuamente crescente di numero e di ricchezze, ingoiavano tutto ciò che un fiscalismo pazzescamente vessatorio estorceva ad una popolazione produttiva sempre più misera e scarsa. Chiunque poteva, infatti, abbandonava il proprio campo o la propria bottega, per arruolarsi nell’esercito od entrare nelle file del clero e della burocrazia statale. Nel giro di pochi decenni, province che una volta bastavano alla propria alimentazione, erano ormai ridotte alla fame, a causa dell’abbandono dei campi e dei traffici.
Allo sfacelo economico della Spagna, corrispondeva la rovina finanziaria dello stato. Malgrado il crescere delle imposte, né la Penisola Iberica, né  i suoi domini d’Italia e dei Paesi Bassi bastavano più a fornire il denaro sufficiente per le guerre  e la politica di Filippo II.  Non restava dunque altro rimedio che quello di estrarre sempre più oro ed argento dalle Americhe. Ma neppure questo bastava a coprire quello che dissipavano le spese militari, il fasto di una corte erede della rigida e complicata etichetta borgognona, le rapine di una nobiltà fannullona e superba, che negli incarichi di governo vedeva solo una occasione per arricchirsi alle spalle del popolo, con le spoliazioni e la disonestà. Né poteva dunque meravigliare che in tali condizioni, il re di Spagna, che avrebbe dovuto essere il più ricco sovrano d’Europa, si trovasse a dover fare bancarotta davanti ai propri creditori per ben sei volte consecutive nello spazio di un secolo.
L’Italia perciò, teatro delle rapine e delle vessazioni della burocrazia spagnola, veniva anch’essa travolta nel baratro della Spagna. L’America che tante gigantesche possibilità avrebbe offerto agli europei, veniva ritardata paurosamente nel suo sviluppo economico dai sistemi coloniali della Spagna, che ne precludeva l’accesso a tutti gli stranieri e persino a tutti i sudditi dei suoi re, che non fossero di nascita castigliana. La Castiglia, invero, non sapeva mandare in America coloni, industriali, e mercanti, ma si limitava a mandarvi i suoi soldati, i suoi nobili governatori, i suoi inquisitori fanatici e a trarne una fiumana di metallo prezioso, che traversava la Spagna senza fermarsi, per andarsi a depositare nelle mani di quei commercianti stranieri, come gi abili trafficanti genovesi, da cui essa dipendeva ormai interamente per ogni necessità economica. E più gravi ancora […] dovevano essere le conseguenze della politica spagnola, in quelle province fiamminghe, che al tempo di Carlo V costituivano il cuore economico e finanziario dei domini asburgici. […]
L dure esazioni di denaro, compiute periodicamente nelle Fiandre da Carlo V, erano state sempre bilanciate dal rispetto che l’imperatore fiammingo di nascita egli stesso, e legato da profondo affetto al paese natale, aveva mostrato per le tradizionali autonomie locali dei Paesi Bassi e dalla considerazione che egli aveva mantenuto verso questa preziosa sorgente di mezzi finanziari.  Per conservare anzi un carattere di mitezza al governo delle Fiandre, Carlo V vi aveva sempre inviato come reggenti delle principesse della sua famiglia, quasi a mostrare alla popolazione fiamminga la sua volontà d tenerla unita alla corna d’Asburgo, più col vincolo di una lealtà cavalleresca che con quello della forza e del terrore. Ultima di queste reggenti, anzi, fu la figlia stessa dell’imperatore,  […], sposata successivamente ad Alessandro dei Medici e poi ad Ottavio Farnese.
La situazione era già molto più delicata per Filippo II, spagnolo di nascita e di educazione e quindi estraneo all’ambiente fiammingo. Egli però non fece che aggravarla con la sua durezza, riducendo le autonomie locali, gravando d’imposte i borghesi e iniziando infine una guerra di sterminio contro i seguaci della Riforma. Se da una parte, cioè, l’intolleranza religiosa di Filippo II irritava gli ambienti popolari degli operai e degli artigiani, in gran parte guadagnati dalle dottrine rivoluzionarie dei calvinisti, la sua pretesa di imporre un regime di governo centralista e dispotico colpiva nei suoi privilegi secolari la nobiltà fiamminga, quantunque essa fosse ancora cattolica in buona parte ed avesse prodigato il proprio sangue per la casa d’Asburgo, nelle lunghe guerre con la Francia. […]
Restate inutili le rimostranze pacifiche, l’esasperazione popolare proruppe allora in violenze di folla contro le chiese cattoliche e il clero: in più città delle Fiandre, anzi, il popolo impose l’instaurazione del culto pubblico calvinista (1567). In risposta allora, Filippo II sostituì Margherita, ritenuta troppo mite, con un sanguinario generale spagnolo, il Duca di Alba, che inaugurò il suo governo mandando al patibolo i conti di Egmont e di Horn ed istaurando un regime terroristico di esecuzioni di massa, di confische e di feroce repressione militare, mentre il peso delle imposte veniva ulteriormente aggravato nel paese, esasperando quella stessa ricca borghesia, che in un primo tempo aveva avversato le novità religiose.»

Si noti l’aggettivazione sovrabbondante, iperbolica e quasi barocca, degna più di un romanzo di cappa e spada che di una ricostruzione storica ad uso dei licei: la politica finanziaria dello stato spagnolo è “assurda”; la burocrazia è “favolosamente corrotta e rapace”; il fiscalismo è “pazzescamente vessatorio”; la casta militare è “prepotente”; la nobiltà è “fannullona e superba”; il Duca d’Alba è un “generale sanguinario”; la repressine militare nei Paesi Bassi è “feroce”, anzi, una vera e propria “guerra di sterminio”.
Eppure lo Spini non parla mai di guerre di sterminio, né tanto meno, come sarebbe corretto fare, di genocidio, quando si tratta di descrivere le imprese dei coloni britannici ai danni delle popolazioni indigene nel Nord America, in Australia o in Nuova Zelanda: sembra che questa specialità sia appartenuta solo agli Spagnoli.
Quanto all’affermazione che la politica coloniale della Spagna avrebbe «ritardato paurosamente nel suo sviluppo economico» l’America Latina, la cosa è tutta da dimostrare: per ragioni climatiche e ambientali, l’America Latina non è ricca come quella Anglosassone; inoltre, il fatto che i “civili” coloni britannici abbiano sterminato i Pellirossa, mentre i “fanatici” e “sanguinari” spagnoli, pur tra violenze e oppressioni, abbiano consentito che una quota rilevante della popolazione indigena sopravvivesse,  ha avuto la sua parte nel “ritardo” economico dell’America Latina. È più facile far entrare a vele spiegare un continente nell’era felice della modernità, dopo che ne sia stata spazzata via la popolazione indigena con le sue strutture socioeconomiche con i suoi modi di vita premoderni e la si sia rimpiazzata con una interamente nuova: questo è il fatto.
Lo stile colorito, sovraccarico, drammatico, dello Spini non è tale da lasciare indifferente l’animo di uno ragazzo di sedici o diciassette anni, specialmente se dotato di sensibilità e immaginazione: e così, preso all’amo dalle virtù del prosatore, lo studente abbocca anche riguardo al contenuto, introiettando e facendo sua la visione storica dell’Autore, invece di elaborare la propria, magari con la complicità di un insegnante che non gli chiede di ragionare con la propria testa, ma di saper ripetere diligentemente quanto è scritto nel libro.
Non stiamo dicendo che l’analisi storica di Giorgio Spini sia arbitraria e poggiata sul nulla; tutt’altro: è evidente, per limitarci al brano con cui abbiamo scelto di esemplificare il nostro discorso, che le sue critiche al cattivo funzionamento degli apparati statali spagnoli nella seconda metà del 1500 e alla pessima politica adottata nei confronti dei Paesi Bassi, hanno un fondamento assolutamente reale e condivisibile.
Quello che, a nostro giudizio, non è invece condivisibile, è l’unilateralismo, lo spirito settario, la partigianeria e la faziosità di cui egli dà prova quando insiste, in maniera talvolta esagerata, sugli aspetti negativi del sistema di governo spagnolo, magari slegandoli dal necessario contesto storico e dipingendo un quadro a tinte estremamente fosche; ed enfatizzando, all’opposto, i “meriti” della parte avversa, ossia dell’Inghilterra di Elisabetta, dell’Olanda di Guglielmo d’Orange e, poi, della Francia di Richelieu.
È impossibile, lo ripetiamo, essere assolutamente obiettivi, quando si ricostruisce la storia: già il solo fatto di appartenere ad una certa epoca e ad una certa società condiziona fatalmente la ricerca storiografica.
Ma da qui a considerare come cosa normale che, ai fattori sopra ricordati, si aggiungano i pregiudizi personali dello studioso, in fatto di religione o di politica, ce ne corre parecchio: è a questa “normalità” che non possiamo e non dobbiamo rassegnarci.
Ne va della nostra capacità di pervenire ad una effettiva autonomia di giudizio e di pensiero, senza la quale non ci si può dire cittadini responsabili e nemmeno persone, ma semplicemente pecore imbrancate in un gregge.