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Birra e cazzotti

di Mario Grossi - 18/10/2011

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La boxe da sempre ha ispirato la letteratura. Sono molti gli autori che hanno raccontato d’incontri e di boxe, sia come cronisti ingaggiati per commentare, sia come scrittori per immortalare campioni all’apice del successo o in declino, o per intrecciare storie che spesso sono la descrizione di vite da perdenti. Atleti, anche con uno smisurato talento, che, vittoriosi sul ring, spesso sono battuti dalla vita.

E tra gli scrittori sono i vitalisti, quelli che scelgono il ring come oggetto dei loro racconti. Su tutti mi piace ricordare Ernest Hemingway e Jack London, due autori che, pur nella loro diversità, sono assai simili nel motore che agita i loro personaggi. Entrambi hanno raccontato di boxe, quasi che la nobile arte fosse per loro una metafora della vita che poteva essere in qualche modo trasfigurata sulla carta e nella finzione, per sembrare meno cruda della realtà ma al tempo stesso potesse essere fissata in maniera vivida e appassionante.

Nella boxe i due ritrovavano quelle pulsioni che informavano la loro stessa vita, non quella di scrittori ma quella di uomini alle prese con i propri istinti e con i propri fantasmi.

Nella boxe viene messa a nudo quella che, scarnificata da tutti gli altri orpelli, è l’essenza stessa della vita: la lotta. Lotta in cui si può vincere o perdere ma che ti mette di fronte, sempre e comunque, un avversario (che devi abbattere), che ti costringe a una determinazione faticosa che prosciugherà, presto o tardi, la tua volontà di sopravvivere e che ti spalancherà le porte prima del declino, poi della fine. Declino e fine che possono essere repentini e manifesti, oppure lenti e impercettibili ma che conducono sempre all’ultima fermata di tutto: la morte, che nella boxe può essere semplicemente rappresentata dalla sconfitta che spalanca le porte all’oblio e l’ingresso in un mondo opaco di mera sopravvivenza malinconica (a tal proposito mi viene in mente il Morgan Freeman di Million dollar baby) o di scivolamento verso quello stesso mondo, spesso delinquenziale, da cui ci si era elevati proprio grazie ai pugni.

Non a caso gli autori che parlano di boxe sono sostenuti sovente da uno spirito vitale e vivo, che si fonda però sulla consapevolezza dell’ineluttabilità della sconfitta e della morte che ne vena gli animi e la scrittura anche quando non parlano di boxe. Il Vecchio e il mare di Hemingway ne è ispirato esempio.

Ed è proprio da questo sentimento di sconfitta che segna un’intera vita che prende il via il romanzo Birra e cazzotti di Brendan O’Carroll che è stato pubblicato da Neri Pozza e che, pur non essendo un libro sulla boxe, impernia tutto il suo scorrere su quei sentimenti che la boxe incarna.

Quattordici anni prima dello svolgersi dei fatti, nel 1982, Jack “Sparrow” McCabe, il miglior talento pugilistico d’Irlanda e idolo di Snuggstown, un turbolento e violento sobborgo di Dublino, si gioca il titolo europeo dei pesi leggeri in una calda sera in cui tutti i suoi concittadini sono attaccati alla radio per seguire l’incontro che a Madrid assegnerà la corona.

Sparrow, dopo otto serrate riprese, sul punteggio alla pari, ha la sua grande possibilità di vincere. Il suo avversario, un arcigno e determinato spagnolo, è alle corde, colpito duramente: “Il piccolo irlandese combatte alla grande, un sinistro, un destro, e spinge lo spagnolo alle corde. Vedo il sangue scendere dal taglio sopra l’occhio di Sparrow, ma lui non si ferma! Il campione irlandese assesta un altro decisivo colpo al corpo. Di sicuro siamo alla fine. Lo spagnolo abbassa la guardia…”.

Manca un solo colpo per mettere fine all’incontro che lo incoronerà campione. Quel colpo, nessuno saprà perché, non arriverà. La campanella del gong salva lo spagnolo che rifiata e riesce negli ultimi round a vincere incontro e titolo e a gettare Sparrow in un cono d’ombra che lo avvolgerà per i successivi quattordici anni.

Quella sconfitta, quell’ultimo pugno non dato, segna la vita del giovane pugile irlandese che incomincia a scivolare su un piano inclinato che lo porterà a diventare una patetica controfigura dell’atleta scintillante che fu.

Quattordici anni dopo, tutti a Snuggstown si ricordano di quell’evento, a partire dalla moglie che allora era accanto a un puglie giovane e sicuro di sé e che oggi si ritrova sposata a un uomo molto diverso, un uomo sconfitto non solo sul ring.

Se ne ricorda anche Simon Semplice il gangster che ormai impera nel piccolo sobborgo e che lo ingaggia come autista proprio in virtù dei suoi successi trascorsi.

La storia sembra assumere il binario tristemente noto di tanti casi umani che la boxe ha raccontato. Una via fatta di rimorsi, di lavoretti borderline, di commistioni con la criminalità, di un declino fisico, mentale e morale che trasforma quegli atleti in larve.

Sparrow, alla deriva, si accontenta di guidare la macchina del boss e di non vedere gli imbrogli, i pestaggi, le illegalità del suo capo. Lui deve guadagnarsi la pagnotta e piega la testa fingendo di non vedere.

Fingerà fino a quando, assistendo a un omicidio e tentando di mettersi in mezzo, decide che la misura è colma e che non può più sopportare.

Dopo quattordici anni passati a testa bassa, inseguito dal fantasma di quel colpo mai sferrato, dal fallimento di quel maledetto incontro, Sparrow capisce che c’è ancora qualcosa per cui vale la pena di battersi e che è giunto il momento, seppur metaforicamente, di salire ancora una volta sul ring.

È qui che la sua tempra di combattente affiora nuovamente ed è da questa tempra che nascerà quel colpo decisivo che non aveva avuto la forza di trovare anni prima sul ring.

Consapevole di stare giocando una partita assai più rischiosa di un incontro di boxe, non si tirerà indietro.

E in un memorabile anomalo incontro, che non può permettersi di perdere, riuscirà questa volta a sferrarlo, mettendo fine alla vita criminale del suo datore di lavoro.

Con un solo pugno recupererà la stima in se stesso, l’amore di sua moglie, il tempo perduto a masticar amaro sulla sua sconfitta.

Un minuto prima della mezzanotte del nuovo anno si presenterà alla porta di casa con un pezzo di carbone, come la tradizione vuole, arrivando così in tempo all’appuntamento con il figlio, unico rimasto nella sua ingenuità infantile, a credere ancora in suo padre e nella sua leggenda.

Romanzo suburbano dalla trazione iniziale lenta, sonnacchiosa e introspettiva, utile, come in una lunga introduzione, a creare quell’umore che darà il via, nei capitoli finali, a una sarabanda sempre più veloce e coinvolgente. A un susseguirsi trafelato di turbinose azioni che rischiano a ogni istante di avvitarsi su se stesse e a ritorcersi contro il protagonista che da vero atleta avrà fiato, cuore e volontà per non farsi sopraffare.

Romanzo ingenuo e positivo, ironico e scanzonato, che narra, col lieto fine terminale, una storia più romanzesca che reale. Che racconta ciò che la vita molto raramente riserva, ma che permette di affermare, al di là di tutte le sconfitte che siamo chiamati a sopportare, che c’è sempre dentro di noi la possibilità di cavare quel briciolo di forza che ci permette di opporci, di ribellarci, di rialzarci dopo un pesante ko e tentare di sferrare un ultimo, sacrosanto cazzotto al nostro avversario e veder di fronte a noi nuove porte spalancate verso possibilità che fino ad allora ritenevamo precluse.

Un invito a farci carico delle nostre sconfitte e delle nostre responsabilità che sono sempre individuali.

Un invito a vivere nonostante tutto, consapevoli che, nella vita reale, quell’ultimo pugno salvifico, ci darà vigore non per sempre ma fino alla prossima ineluttabile sconfitta.