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Paul Cezanne: non voleva ritrarre la natura, ma farne parte

di Roberta Scorranese - 18/10/2011


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«Era un "contadino" della pittura. Un bracciante, nel senso più nobile del termine: perché era infaticabile, capace di camminare venti chilometri al giorno per andare a cercare quel punto preciso della Provenza dove la luce si fa architettura».
Così Philippe Cézanne, settantenne critico d'arte e bisnipote del maestro di Aix-en-Provence, descrive il grande artista. Lui vive a Megève, tra le alture della Savoia, ma trascorre molto tempo nel Midi, tra quelle armonie di rossi, verdi e azzurri che il suo bisnonno tradusse in colori e forme. Co-curatore della mostra milanese, monsieur Philippe si rivolge all'illustre parente chiamandolo rispettosamente "Cézanne", tralasciando appellativi familiari. Un po' per pudore vetero-sabaudo, un po' per un riguardo prima di tutto estetico. «Lo dico da esperto d'arte — continua —: Cézanne ha inciso nella storia per la sua capacità straordinaria di andare oltre il colore. Cercava una concretezza speciale, vivida. E cercava l'anima delle cose, andava a fondo». A costo di dimenticarsi di avere una vita comune, trascurando i bisogni elementari.
Della sua ostinata ricerca della solitudine molto si è detto, ma il discendente osserva: «Non era tanto una questione di cattivo carattere, sebbene sia passato alla storia come un burbero. Era una questione di rigore professionale. Per osservare bene un punto preciso del paesaggio doveva stare solo con l'idea di quel luogo. Era come entrare in comunione con la natura. Sennò come avrebbe fatto a lasciarci certi capolavori?» Farsi paesaggio, in breve, come scrisse Musil ne «L'uomo senza qualità». Quel mezzogiorno francese, che quando cala il maestrale lascia sbiadire i verdi nella luce plumbea e si trincera dietro i profumi. Lavanda, rosmarino, violetta. «Cézanne era appassionato di geologia — dice il bisnipote — e studiava a lungo la conformazione del terreno, la sua intima natura. Mi hanno raccontato che annotava le caratteristiche delle pietre, delle zolle». La "sua" montagna della Sainte Victoire, per esempio, un tabernacolo da proteggere, qualcosa da immortalare per restituirla intatta al futuro. Quando, quasi a fine Ottocento, gli prefigurarono la prospettiva di una ferrovia si infuriò. L'idea che un treno potesse attraversare le sue alture e deturpare quelle linee così faticosamente assimilate non gli andava giù. Così come ha fatto il più giovane Philippe qualche anno fa, in piena polemica per la realizzazione della linea ad alta velocità da Parigi al Midi.
«Non voglio essere scambiato per un oltranzista — precisa subito — però ho fatto presente che si potevano trovare altre soluzioni. Quella zona non era esclusiva prerogativa del mio bisnonno, ma vi hanno trovato ispirazione centinaia di artisti da tutto il mondo, che venivano nel Midi a dipingere perché incantati da quel paesaggio integro, quasi virginale». Van Gogh, tanto per fare un nome, che qui visse e dipinse prima di essere rinchiuso nella casa per malati di mente. O Picasso, naturalmente. Eppure, quando esplose la protesta contro la linea ad alta velocità, nel 2009, i cartelli dei "no Tav" si appellavano all'artista di Aix-en-Provence, con scritte del tipo «Cézanne aiuto, sono diventati tutti pazzi».
Chissà lui come avrebbe reagito. «Mio padre mi raccontava che dietro quella facciata molto fredda e distaccata c'era una notevole capacità di empatia con gli altri — conclude Philippe Cézanne —. Basti pensare che lui si divise sempre tra Parigi e altri luoghi per essere vicino alla famiglia. Eppure per tutta la vita si considerò sempre alla prova. Era come se non fosse mai soddisfatto, mai sazio». Ambiva ad assorbire la sua Provenza, voleva una comunione totale. Picasso intuì questo legame così forte e forse fu anche per questo che acquistò un castello vicino alla montagna di Sainte Victoire. Ma non la dipinse mai.