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Nessun Impero senza imperialismo

di Rita Di Leo - 23/06/2006

 
Gli Usa devono dichiararsi apertamente padroni del mondo oppure prepararsi al declino. I paradossi del potere americano e le ricette «imperialiste» dello storico inglese Niall Ferguson in «Colossus»

Da tempo lo storico inglese Niall Ferguson si dà un gran da fare per convincere quanti più intellettuali e politici americani a riconoscersi orgogliosamente «imperialisti». In Colossus (Mondadori, pp. 401, E 20), spiega che gli Stati uniti devono apertamente dichiararsi padroni del mondo oppure prepararsi al declino. Il gran cruccio dell'autore è infatti la neghittosità americana. La responsabilità di essere dominus porta con sé doveri che il popolo non si assume; quanto alle élite l'ipocrisia regna sovrana. Solo limitate frange di neoconservatori sono disposti a dichiararsi pubblicamente a favore di un impero Usa, mentre non è così per gli intellettuali e politici liberal e nemmeno per i repubblicani.
Ferguson argomenta per lungo e per largo quanto fuorviante siano l'ideologia politica tradizionale e quanto alto il costo dell'ipocrisia protestante dell'élite. E' arrivato il momento per gli Usa di assumersi «il fardello dell'uomo bianco» secondo la famosa espressione di Kipling e fare il proprio dovere nei confronti del mondo come in passato fecero gli inglesi e prima di loro Roma. Con il suo cuore inglese lo storico fa un grande elogio «dell'imperialismo liberale» contrapposto all'esecrabile vulgata sul colonialismo britannico. Dagli anni 50 dell'800 agli anni 30 del '900 gli inglesi concessero ai loro domini un governo liberale, il libero commercio, la libertà d'espatrio ed erano incoraggiati gli investimenti nelle industrie e nelle infrastrutture. La sua conclusione è che un impero liberale è più efficace di uno stato-nazione dispotico. Tutto sta a saper fare bene gli imperialisti. E qui cominciano i rimproveri agli americani: il primo è la scarsa bellicosità del soldato Usa («va in prima linea controvoglia»). Nel confronto con quella inglese spicca la pochezza della casta militare americana la quale non si è mai potuta identificare in un British rule semplicemente perché non v'era un equivalente made in Usa. Ma ormai è dal 1989 che l'America è il dominus e deve farlo.

Il secondo rimprovero di Ferguson è la tendenza della leadership «a perdere interesse se un impegno all'estero si potrae nel tempo». Emblematiche sono le promesse di Bush, strombazzate ai quattro venti nel momento stesso in cui dava il via alla sua guerra preventiva, e cioè che non appena possibile i soldati Usa sarebbero andati via dall'Iraq. Promesse sciagurate. Lo storico inglese fa presente che i suoi antenati, soldati, amministratori, tecnici, missionari, partivano per le colonie decisi a rimanervi per la vita, a radicarvisi, a integrarsi e soprattutto a integrare gli indigeni nel modello inglese. C'era un flusso di capitali che dalla City di Londra arrivava nelle colonie per business vantaggiosi di cui ai locali sarebbero rimaste briciole consistenti. Al contrario gli investimenti americani in Iraq e Afghanistan sono andati al settore strategico-militare mentre luce, acqua e infrastrutture, colpiti dalle bombe, non sono stati ripristinate.
Ferguson boccia tanta negligenza e la mette in relazione con l'approccio «mordi e fuggi» della leadership, sorda e cieca verso le conseguenze delle sue stesse iniziative. In Iraq c'era un piano per la guerra e non uno per il dopo guerra. Gli inglesi «crearono» l'Iraq e gli diedero anche un re con le istruzioni necessarie e anche soldi e tecnici per amministrare lo stato.

Si innesta qui l'ultimo rimprovero: al contrario del suo paese che per secoli è stato il gran creditore del mondo finanziario, oggi la super potenza Usa è il gran debitore e il suo Tesoro dipende dalla convenienza della Cina e dell'Europa e del Giappone a lasciarvi i propri capitali. Data tale debolezza economica è impellente farsi legittimare come impero liberale, capace di buon governo. A tal scopo servono politiche imperiali. Soprattutto serve saperle pensare tali politiche e farle accettare all'establishment bianco protestante, ipocrita e isolazionista, e al popolo, un popolo frammentato nelle sue tante etnie, religioni, disuguaglianze sociali, distanze culturali, disinteresse per la politica, ignoranza del mondo non americano. A Ferguson tremano le vene e i polsi mentre scrive le sue esortazioni perché i suoi amici americani si rendano conto della gravità del momento e ragionino da imperialisti.
Colossus è stato scritto nel 2003 sull'abbrivio della guerra preventiva, nei tre anni occorsi a Mondadori per decidere di offrirlo al pubblico italiano, l'iniziativa «imperiale» degli Usa di Bush si è dimostrata un rischioso fallimento. Più del Vietnam perché all'epoca il bipolarismo salvò paradossalmente la faccia all'America. Perché allora fu possibile attribuire la sconfitta non solo alle migliori capacità belliche dei vietnamiti ma anche alla lunga mano russa e cinese. Il colosso oggi è solo. Il rischio è la perdita di credibilità, dell'auctoritas che viene da una egemonia riconosciuta perché meritata. In tre anni di errori in Afghanistan e in Iraq è cresciuta la paura per la violenza cieca del colosso, mentre si è andata esaurendo il rispetto per il grande paese, emblema dell'avanguardia nella scienza, nella tecnologia, nella cultura. Come se il logo di Guantanamo e Abu Ghraib avessero sostuito quello del Massachusetts Institute of Technology.
Dagli ispanici dell'America latina agli arabi, agli indiani, ai cinesi, ai coreani, agli indonesiani e così continuando, popoli e governi non sembrano disponibili a tornare all'800 imperiale e ancor meno a farlo con gli Usa di Bush. Un recentissimo sondaggio del Pew Research Center ha rivelato una ulteriore caduta d'immagine della super potenza, spicca tra i paesi la Turchia dove solo il 12% dà un giudizio positivo del paese che secondo Ferguson dovrebbe farsi legittimare come impero.

A noi europei lo storico inglese appare fuori tempo insieme ai suoi estimatori americani neoconservatori. I suoi errori di analisi somigliano ai loro programmi politici, naufragati in tempi ben più brevi dell'immaginabile. Eppure basta scorrere i titoli dei libri di politica estera, pubblicati in America negli ultimi anni, leggere le recensioni, commettere l'errore di comprarne qualcuno con Amazon per scoprire quanto la «necessità» di un impero americano si vada diffondendo tra chi studia, pensa e parla a chi comanda. Per esempio in The American Era (Cambridge University Press, 2005) Robert J. Lieber dimostra in 7 capitoli che l'impero è già una realtà giacché soldati e basi vecchie e nuove Usa sono ormai diffuse ai quattro lati del mondo. Quello che manca è una strategia politica della presenza militare. Manca una cultura imperiale da rendere indiscutibile agli altri, agli europei come agli indios, agli afghani, ai cinesi e così via. Manca una figura politica tale da legittimare agli occhi del debole mondo il ruolo di dominus protettore degli Stati Uniti. La semplice verità è che nelle relazioni internazionali l'approccio imperiale Usa ispira diffidenza. Dopo l'Ottocento e il Novecento europei l'impero è un ritorno al passato. E vive fuori dal presente chi è tornato a descriverlo e a suggerirlo ai politici di Washington.