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L’uomo e la donna si parlano ancora, ma non sono più capaci di ascoltarsi

di Francesco Lamendola - 21/10/2011





Per parlare, si parlano: non c’è nulla di più facile del parlare, anche se non si ha assolutamente niente da dire (e ben lo sanno, da sempre, legioni di pseudo-intellettuali, di sofisti a pagamento, di mercenari del foro e della penna).
Ma quanto a dirsi veramente qualcosa, questo è tutto un altro discorso; e quanto a sapersi ascoltare, non ci siamo proprio.
Ovunque, nella nostra società, l’arte dell’ascolto è in declino: i figli, per esempio, non ascoltano più i genitori, ma nemmeno questi ultimi, a dire il vero, li stanno ad ascoltare: gli uni e gli altri sono troppo presi da altro, cioè da se stessi, dal proprio ego. I figli sono presi dagli amici, dal computer, da telefonino; i padri e le madri sono presi dal bar, dalla palestra, dalla parrucchiera, dall’automobile.
Della scuola, meglio non parlare nemmeno: per essere sicuro che una cosa, anche la più semplice, sia entrata in testa a tutti i suoi alunni, un insegnate la deve ripetere almeno cento volte; e tuttavia può stare ben certo che tempo tre giorni, tre settimane o tre mesi, la maggior parte di essi l’avranno bell’e dimenticata: zero, tabula rasa.
Oltre che con l’altro, si è disimparata l‘arte di ascoltare nei confronti di se stessi, della natura, di Dio (parliamo anche e soprattutto dei credenti o di coloro che si definiscono tali).
Non si ascolta più se stessi: né il proprio corpo, che magari sta protestando e tuttavia viene ignorato, fino all’insorgere degli inevitabili fastidi, disturbi e malattie; né la propria mente, che si continua ad intossicare con un pessimo nutrimento, fino al punto di logorarla e di sfinirla; né, soprattutto, la propria anima.
Logico: in una cultura che non crede più all’anima, come si può pensare che qualcuno sia disposto a prestarle ascolto? Perciò, quando è ammalata, non la si cura affatto: si va dal medico, si va dallo psichiatra, si va perfino dagli avvoltoi delle sette, dai maghi e dalle fattucchiere: da tutti, insomma, tranne che dalla persona giusta: se stessi.
Quanto alla natura, perché si dovrebbe darsi la pena di ascoltarla? Che cosa c’è da ascoltare? Basta solo comandarle quel che vogliamo, imporle la nostra logica, manipolarla a piacimento: la natura non è un soggetto, è diventata un oggetto: l’oggetto del nostro dominio, della nostra avidità di possesso e di profitto.
Un cane, una mucca, un fiore, un albero, un bosco o una montagna, non c’interessano, se non nella misura in cui possiamo ottenere da essi un vantaggio materiale: una guardia a costo zero per la nostra villa, una bella bistecca da mangiare, un dono floreale da fare, del legname con cui fabbricare mobili, una divertente domenica sugli sci.
Che cosa avrà mai da dirci la natura, che la si debba ascoltare? La natura è fatta per il nostro vantaggio, e questo è tutto: non si tratta di ascoltarla, ma di usarla, sfruttarla, manipolarla; la si deve combattere e vincere per farle vedere chi è il più forte.
E quando avremo devastato la natura del nostro pianeta, ebbene, allora effettueremo una migrazione nello spazio e, grazie alle meraviglie della tecnologia, andremo a popolare un altro pianeta della Galassia, con caratteristiche simili alla Terra; per ripetere lo stesso gioco e spostarci poi alla ricerca di una nuova sede, la terza; e poi la quarta, la quinta e così via.
Quanto a Dio, che cosa vuol dire ascoltarlo? Noi gli pariamo, di solito per domandare qualcosa: non volgiamo che ci risponda, ci basta che ci accontenti; può anche farlo in silenzio, purché lo faccia.
Se non ci accontenta, vuol dire che non ci ha ascoltato: dunque è Lui che non ci ascolta, altro che storie; eppure eravamo stati chiarissimi nell’esporre i nostri desiderata. Forse è diventato un po’ sordo: può succedere, si sa come sono i vecchi; e Lui è vecchio di sicuro, ne ha viste tante, forse troppe, quasi quasi sarebbe ora di mandarlo in pensione e di trovarci un sostituto, posto che già non l’abbiamo fatto, con nostra piena soddisfazione.
Quel che ci occorre è un Dio moderno, al passo con questi tempi in continua evoluzione, dominati da un progresso incessante; un Dio tecnologico e avveniristico, così come, nel Settecento, i signori dei Lumi lo immaginavano come un matematico o, meglio ancora, un architetto: il Grande Architetto dell’universo.
A farla breve, nessuno ascolta più; ascoltare è roba d’altri tempi, roba da vecchi: e noi vogliamo essere giovani, giovani impazienti e pieni di aspettative; giovani convinti che il mondo sia stato fatto per loro e che vogliono essere ascoltati, altro che ascoltare.
Sarà per questa smania di essere ascoltati, in una società dove ciascuno parla e più nessuno ascolta, che si tende un po’ tutti ad alzare la voce, a gridare, a strombazzare con il clacson per avere strada, per passare avanti: peccato che lo facciano proprio tutti, col risultato che è come se non lo facesse nessuno, tanto è vero che nessuno si fa da parte e, anzi, tutti raddoppiano la pretesa di aver la precedenza, di aver diritto a uno status superiore.
Nessuna meraviglia, quindi, che anche nei rapporti fra l’uomo e la donna sia venuta meno la necessaria capacità di ascolto.
Una volta l’uomo e la donna si parlavano e si ascoltavano: magari poco, magari fino ad un certo punto; però si sapevano anche ascoltare l‘un l’altra, anche se poi si guardavano bene dal trarne le dovute conclusioni sul piano pratico.
Si scrivevano, addirittura. Dopo una incomprensione, dopo un litigio, prendevano talvolta carta e penna e si indirizzavano una bella letterina; poi la lasciavano sul tavolo della cucina, oppure sul guanciale del letto matrimoniale.
Sentivano, istintivamente, che certe cose non si possono dire a voce, anche se ci si vede tutti i giorni, anche se si vive sotto lo stesso tetto; che certe cose richiedono un altro stile, un altro tipo di attenzione, un’altra modalità di ascolto, appunto.
Ma c’è anche un’altra cosa che differenzia il recente passato dal presente: l’uomo e la donna, cioè, sentivano e sapevano di usare il linguaggio in modo differente, o, per meglio dire, di possedere due linguaggi differenti; ora non più.
Uno dei danni provocati dalla cultura femminista, e non dei meno gravi, è stato proprio quello di aver confuso tutto e di aver preteso di abolire le differenze, facendo passare l’idea che l’uomo e la donna, quando dicono una certa cosa in apparenza uguale, le attribuiscono esattamente lo stesso significato; invece non è così.
E questa differenza non vale solamente per le parole, ma anche per i gesti e perfino per gli sguardi: tutto, nel modo di esprimersi dell’uomo, è diverso dal modo di esprimersi della donna; e come sono diversi i segni del linguaggio, verbale e non verbale, così sono diversi, a volte diametralmente opposti, i significati profondi.
Quando l’uomo dice una cosa, fa un gesto, lancia uno sguardo, non solo lo fa in maniera diversa dalla donna, ma lo fa anche con intenzioni diverse, in una prospettiva diversa, partendo da un universo mentale, affettivo, culturale, radicalmente diversi: e prima l’uno e l’altra si renderanno conto di ciò, e tanto meglio sarà per entrambi.
Ne consegue che anche l’ascolto deve tener conto di questa differenza ontologica: la differenza di genere non è, come volevano le femministe, un semplice portato dell’educazione, che si può annullare con opportuni interventi correttivi; è un qualcosa che investe la dimensione essenziale dell’uomo e della donna, che ha a che fare con la loro parte più intima.
Una delle ragioni del mancato ascolto reciproco che caratterizza, oggi, i rapporti fra l’uomo e la donna, è proprio una conseguenza di questo fattore: dell’aver ignorato che si tratta di due linguaggi diversi e che, per comprenderli, occorre fare uno sforzo per entrare nell’universo mentale, affettivo e culturale l’uno dell’altra.
Ora, perfino se si è capaci di compiere un tale sforzo e se si è disposti a farlo, non è detto che si riesca a superare l’ostacolo, a oltrepassare la barriera; figuriamoci se non ci si prova nemmeno, se non se ne è neppure consapevoli.
Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi: frustrazione di entrambi; senso di impotenza e di irritazione; delusione e amarezza; sfiducia quasi totale dell’uno verso l’altra; volontà di vendicarsi alla prima occasione, al primo passo falso.
L’uomo e la donna stanno accumulando rancore e perfino una certa qual forma di disprezzo reciproco: non trovano più nell’altro un compagno o una compagna di vita, ma solo qualche fuggevole rapporto sessuale, qualche avventura di breve periodo; e, in fiondo, per molti di essi è proprio ciò che vogliono: qualcosa di più li spaventerebbe troppo.
Non c’è più alcuna fiducia reciproca; si teme che ogni sguardo, ogni gesto, ogni parola, possano essere ritorti contro di sé; quasi quasi si vorrebbe essere accompagnati dall’avvocato ogni volta che ci si deve confrontare, spiegare, aprire.
Aprire: già questo sembra troppo; come è possibile aprirsi a qualcuno che non aspetta altro che vederti indifeso, per sferrarti il colpo basso? La paura non è mai una buona consigliera; e l’uomo e la donna, oggi - duole dirlo - hanno una tremenda paura l’uno dell’altra.
Ecco perché le loro parole e i loro discorsi scivolano via senza lasciare traccia, come i disegni che i bambini fanno col dito sulla sabbia della spiaggia e che l’alta marea cancella in un baleno, senza che ne resti più alcuna traccia.
Scivolano via: e non c’è qualcuno che li ascolti, che vi rifletta, che ne faccia occasione di ripensamento del proprio agire, del proprio porsi nei confronti dell’altro. Nessun ascolto, nessuna riflessione, nessun ripensamento: solo un monotono ripetere le stesse dinamiche; un girare sempre attorno a se stessi, reiterando, magari, sempre gli stessi errori.
Ciascuno è come un disco rotto che ripete sempre la stessa canzone; ciascuno sa solo ribadire il proprio punto di vista, senza imparare niente, senza mai mettersi in discussione, senza essere sfiorato mai dal dubbio che, nella vita, si possa far qualcosa di meglio che restare sempre fermi, incentrati narcisisticamente sul proprio ombelico.
Eppure il bello della differenza di genere è proprio questo: la possibilità del confronto tra diversi e, quindi, dell’arricchimento reciproco, sia pure attraverso alti e bassi di comprensione e incomprensione, di tenerezza e rabbia, di dolcezza e  inasprimento. Due esseri diversi che s’incontrano, restano affascinati dalla loro diversità, e tuttavia accettano la sfida di gettare un ponte verso l’altro, di trovare un terreno comune per capirsi e, addirittura, per completarsi.
Perché l’uomo non è completo senza la donna e la donna non è completa senza l’uomo: manca loro qualcosa, qualcosa di cui sentono di avere un disperato bisogno. È per questo che si cercano, e non solo per accoppiarsi e fare all’amore; e chi non ha compreso questo, non ha compreso nulla della terribile serietà e dell’incomparabile splendore che si realizzano nell’incontro tra il maschile e il femminile.
Oggi se ne vorrebbe fare quasi a meno, lo si vorrebbe sostituire con qualche cosa d’altro: ma non c’è niente, assolutamente niente, almeno sul piano del finito, che possa superare la bellezza e l’importanza di un tale incontro, per quanto esso possa rivelarsi problematico e gravido di incomprensioni e sofferenze.
Ma oggi, appunto, non si vorrebbe più soffrire: si vorrebbe stare sempre bene, ma uno star bene artificiale, come quello delle bambole di plastica; non lo star bene delle persone vere, con un cuore di carne, con dei nervi e del sangue ed un cuore che batte, che batte più forte quando l’incanto dell’incontro con l’altro bussa alla porta, magari inaspettatamente.
Si vorrebbe la dolcezza della vita, ma senza i rischi che la rendono così preziosa e che ci insegnano ad attribuirle il suo giusto valore; si vorrebbe ricevere senza dover dare; si vorrebbe che l’altro si aprisse, senza correre il rischio di aprirci a nostra volta.
Troppo comodo; non è così che funziona.
L’incontro fra uomo e donna, l’incontro vero, profondo, capace di arricchire la vita, non è per i pavidi sempre in cerca di protezione, ma per i coraggiosi disposti a mettersi in gioco, senza trucco.