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L’ideologia del progresso vuole la felicità per tutti, ma disprezza il singolo e la sua sofferenza

di Francesco Lamendola - 28/10/2011





Una volta, molti anni fa, ho tentato di svolgere un minimo di ragionamento con un medico del distretto sanitario presso il quale tutti i genitori dovevano portare i loro bambini piccoli per sottoporli ad una vaccinazione obbligatoria contro l’epatite: perché, a quell’epoca, il mostro da combattere fino all’ultimo respiro (e fino al prossimo contrordine) era l’epatite.
Gli dissi, più o meno, che le autorità sanitarie, alla luce di precedenti, tragici errori, dovrebbero andarci piano con le vaccinazioni obbligatorie; e, davanti alla solita obiezione di tipo statistico, gli chiesi cosa avrebbe pensato se quel bambino su mille, la cui salute poteva subire delle gravi conseguenze proprio a causa della vaccinazione, fosse stato suo figlio.
La replica fu ancora più rozza di quel che ero pronto ad aspettarmi: fu di genere economico. La comunità, mi disse, spende molto denaro per curare un bambino o un ragazzo che si ammalano di epatite; dunque, il rischio legato a possibili reazioni allergiche di pochi soggetti, con conseguenze anche assai gravi, è comunque ragionevole, rispetto al risultato: quello di far risparmiare ai contribuenti una bella somma di denaro.
Questo è solo uno dei cento, dei mille o diecimila esempi che si potrebbero fare, sul terreno pratico e concreto, per illustrare l’estrema tracotanza di tutte le ideologie del Progresso illimitato, illuministe o neolilluministe o comunque le si voglia chiamare: in nome del bene “superiore” dell’umanità, esse sono pronte a sacrificare i diritti del singolo individuo, a calpestare la sua speranza di felicità, perfino a calcolare statisticamente che alcuni innocenti dovranno essere sacrificati nell’interesse generale (che poi è quanto si fa, alla luce del sole, ai danni di milioni di esseri viventi non umani, utilizzati senza scrupolo come cavie da laboratorio).
Le ideologie del Progresso vogliono portare la felicità al genere umano, ma si infastidiscono davanti alla meschina, egoistica domanda di felicità del singolo; tutte assorte nel loro sogno di palingenesi universale, nel loro progetto di instaurare il Paradiso in terra, considerano regressivo e reazionario qualunque dissenso motivato  dai bisogni e dai diritti del singolo, che appaiono loro come un intollerabile intralcio sulla strada del bene comune.
In una delle più tipiche ideologie del Progresso, il marxismo-leninismo, gli zelanti ed “umanitari” apostoli del paradiso in terra avevano già calcolato quanti milioni di borghesi e di contadini  benestanti sarebbe stato necessario eliminare per la felicità dei restanti abitanti dell’Unione Sovietica: prezzo che a loro, evidentemente, pareva del tutto ragionevole, tanto più che non avrebbe dovuto essere pagato da loro, ma da altri, dal “nemico” di classe.
In Cina, durante la Grande Rivoluzione Culturale, le guardie rosse, per “rieducare” gli incorreggibili elementi individualisti e dalla mentalità piccolo-borghese, hanno provocato alcuni milioni di morti: degni eredi di quei giacobini che nel 1793, davanti alla controrivoluzione della Vandea, che non gradiva la loro ricetta per la felicità universale, non avevano esitato a condurre una guerra di sterminio contro i contadini di quella regione.
Le ideologie del Progresso - siano esse di tipo politico, economico, scientifico, tecnologico o di qualunque altro genere - si ammantano sempre di belle parole e proclamano con la massima energia la loro assoluta dedizione al progetto di realizzare la felicità universale; però non sanno che farsene dell’uomo concreto, che soffre, che spera, che lotta per costruire la sua felicità privata; né si limitano ad ignorarlo: lo considerano come il primo e più pericoloso avversario da abbattere sulla via del mondo nuovo.
D’altra parte, le ideologie del Progresso hanno fallito, e il loro fallimento è sotto gli occhi di tutti, nel loro dichiarato obiettivo di portare agli uomini benessere e felicità: esempio unico nella storia di una filosofia che sia stata smentita dai fatti ma che sopravviva brillantemente a se stessa (che sopravviva, si badi, non che rinasca dopo una temporanea eclissi) in virtù del fatto che i suoi sostenitori professionali, intellettuali, economisti, politici e scienziati, continuano a dichiararla inossidabile e vincente, a dispetto di ogni evidenza e di ogni ragionevolezza.
Una variante e quasi un compromesso fra chi la dichiara perfettamente in salute e la minoranza inascoltata che la proclama morta e defunta, sono rappresentati da quei progressisti che ritengono di poter salvare l’essenza della ideologia cui si sono votati, rigettandone però una parte che giudicano spuria: quella che essi definiscono “borghese”.
L’illuminismo, dicono, ad esempio i filosofi della Scuola di Francoforte, ha fallito in quanto ideologia borghese; ma in quanto ideologia umanistica, l’illuminismo ha un retroterra culturale molto più ampio, una storia molto più antica, una prospettiva molto più attuale e una carica positiva molto più efficace; per essi, dunque, basta rifiutare, come un ramo secco, l’illuminismo borghese e rimettersi con più energia a lottare per la realizzazione dell’illuminismo “vero”, quello umanistico, una specie di versione aggiornata della “philosophia perennis” degli antichi.
Si tratta, come è evidente, dell’ultimo, disperato espediente per evitare di fare i conti con la storia, per risparmiarsi la dolorosa fatica di riconoscere che l’illuminismo, in quanto tale, è una ideologia fallimentare ed effettivamente fallita; e poiché si tratta di una ideologia alla quale ha creduto, in una versione o nell’altra, la stragrande maggioranza degli intellettuali negli ultimi tre o quattro secoli, si capisce facilmente come riesca umiliante dover proclamare la sua bancarotta.
Un buon esempio di quanto andiamo dicendo si trova nel saggio del germanista, musicologo e giurista Hans Mayer (nato a Colonia nel 1907  e morto a Tubinga nel 2001), discepolo di Adorno e Horkheimer, «I diversi» (titolo originale: «Aussensseiter», Suhrkamp Verlag, Frankurter am Main, 1975; traduzione italiana di Ludovico Bianchi, Milano, Garzanti, 1977, pp.  5-6):

«… l’illuminismo borghese è fallito. Per contestare questa affermazione non basta pensare ai postulati egualitari. L’uguaglianza formale davanti alla legge non deve essere confusa con l’uguaglianza materiale delle prospettive di vita, anzi, si presta egregiamente a impedirla, come dimostra la storia della società borghese. Dialettica dell’illuminismo ovunque: nel contrasto fra la libertà e le libertà, fra uguaglianza materiale e formale, nel tentativo di dare concretezza politica e giuridica alle elevate emozioni della “fraternità”. E quindi gli eredi di Gracco-Babeuf nel secolo XIX evitano la terminologia generosa della fraternità, e la sostituiscono con la più precisa espressione della “giustizia”. Solo che tali esperienze non confutano l’illuminismo borghese, ma lo confermano: si possono correggere difetti, estorcere soluzioni rifiutate, strappare alla borghesia i suoi postulati per realizzarli  tramite nuovi portatori sociali, con validità assoluta e nella lotta contro i protagonisti borghesi di un tempo. Così svincolato dalle sue origini borghesi e storiche, l’illuminismo diventa allora sinonimo di una rivoluzione permanente.
Fallimento di un illuminismo borghese non equivale necessariamente a bancarotta del pensiero illuministico-umanistico. Le contraddizioni della realtà sociale confermano la necessità di un’illuminazione razionale.  Nel suo libro su “Diritto naturale  e dignità umana” (“Naturrecht und Menschliche Würde”) Ernst Bloch ha analizzato il nesso interno che esiste fra il giusnaturalismo borghese del secolo XVIII e il socialismo utopistico e antiborghese del XIX. Bloch si rifiuta di separare nettamente l’una dall’atra “le due forme di pensiero utopico che propongono una migliore vita sociale”. Poiché “si intrecciano fra loro, le teorie della felicità non intendono realizzare un paradiso terrestre per animali immaturi, le teorie della dignità non si ispirano all’ideale di asceti sprezzanti con la sensibilità di una colonna”. La permanenza è accentuata con molta energia: “Forza della certezza: non c’è dignità umana senza fine dell’indigenza, ma non c’è neanche una felicità adeguata  all’uomo senza la fine della sudditanza vecchia e nuova”.
La filosofia della speranza di Ernst Bloch, con i postulati fondamentali dell’andatura umanamente eretta e del cammino umano verso una patria dove non è mai stato nessuno ha proclamato quella permanenza dell’illuminismo oltre la borghesia in un modo più serio e spregiudicato di quanto fosse mai avvenuto prima. Del “principio speranza” ha sempre fatto parte il “programma cittadino (citoyen)”. Ma per “cittadino” doveva essere inteso l’uomo borghese che era rimasto fedele ai sogni della sua giovinezza, dunque alla rivoluzione borghese: dunque un giacobino permanente.
Ma il “Principio Speranza” (“Prinzip Hoffnung”) condivide con tutte le filosofie dell’ottimismo sociale (non solo con Rousseau) il disprezzo dell’uomo che soffre concretamente, a favore di un’umanità sofferente. Bloch parla efficacemente  di coloro che sono umiliati e offesi, ma si riferisce soltanto al comune destino, non al singolo  di cui l’agire e il soffrire non possono essere sussunti sotto nessuna legge generale. Accanto ai numerosi richiami a Platone, Rousseau o Hegel, e cioè a pensatori che rifiutano la loro simpatia a un individuo singolarmente  estraneo ed estraniato, nel “Prinzip Hoffnung” i tre avari richiami a Montaigne appaiono quasi sprezzanti. C’è una sola citazione dai “Saggi”: proprio là dove Bloch giunge in prossimità dell’isolato e atipico. Devono essere composte “tavole della solitudine”: accanto a quelle dell’amicizia, dell’individuo e della comunità.  Ma la soggettività irriducibile e isolata che doveva essere così importante per Montaigne, Bloch invece ben presto la spinge nuovamente da parte: la luce della speranza brilla bensì per i molti che stanno nelle tenebre, ma non per quello che ha cercato egli stesso l’oscurità. La filosofia di Bloch conosce l’Alta Coppia, ma non la strindbergiana “lotta tra i sessi”: come in tutti gli illuministi borghesi, anche qui la natura è equiparata al comportamento cosiddetto normale; la sua origine ebraica non assume mai, per Bloch, la funzione di un impulso per un nuovo modo di pensare. La considera al massimo come un aspetto accidentale della sua provenienza, come fanno anche Karl Marx e Lev Trockij. Il “Prinzip Hoffnung” riflette sulla musica celeste di Belmonte nell’ultimo atto del “Mercante di Venezia”, ma non su Shylock, e meno che mai sul suo mostruoso antagonista, sul mercante Antonio.
Tutto rientra nel principio: il rifiuto di considerare la soggettività isolata, eccezionale; l’impaziente imbarazzo davanti a solitudini che non sono condivise da un collettivo; infine la minima affinità di questo filosofo con la filosofia di Michel Montaigne. Poiché qui una filosofia umanitaria della nostalgia  umana trova le sue contraddizioni finora irrisolte…»

A parte il fatto che Hans Mayer sembra non accorgersi che la sua critica a Ernst Bloch può benissimo essere ritorta contro il suo stesso ragionamento, poiché anch’esso rientra nel solco di quell’illuminismo che vorrebbe svincolarsi dalle sue radici storiche per caratterizzarsi come “rivoluzione permanente”, ci sembra che, nella sua “pars destruens”, esso ben descriva la situazione del pensiero della tarda modernità.
Bloch, come è noto, ha voluto innervare il “principio di speranza”, in opposizione al ”principio dell’angoscia” di Heidegger, per vivificare il marxismo che, fattosi “scientifico” nell’illusione di avere più successo, aveva sacrificato ciò che lo stesso Marx aveva chiamato «il sogno di una cosa», la dimensione della speranza appunto, intesa non come negazione della ragione, ma, al contrario, come il centro essenziale e irrinunciabile dell’essere umano concreto, rispetto al quale la ragione svolge sempre un ruolo fondamentale (e qui Bloch fa gli esempi della musica e dell’arte, ove si raggiunge il massimo dell’intensità emozionale proprio attraverso l’uso matematicamente perfetto della ragione stessa).
Come osserva giustamente Remo Bodei, in Bloch non c’è il gusto, tipicamente illuminista, di rendere ogni cosa chiara ed evidente; c’è, al contrario, la consapevolezza dell’ombra, di quella zona inesplorata e, forse, inesplorabile, che giace in fondo ad ogni essere umano. D’altra parte, se non si vuol giocare con i nomi delle cose, tutto questo si chiama senso del limite e senso del mistero ed è espressione dell’anelito alla trascendenza, quella trascendenza che l’illuminismo nega radicalmente e il marxismo, erede dell’illuminismo, nega con altrettanta forza, in quanto vede in essa solo il fondo torbido e melmoso di antiche superstizioni che hanno contribuito a tenere schiava l’umanità nel corso della storia.
La critica che Mayer rivolge a Bloch è quella di non aver letto abbastanza Montaigne, ossia di non aver compreso la portata filosofica che rappresenta la scoperta dell’individuo concreto, dunque dell’individuo che è per me “altro”; di non aver compreso che l’unicità dell’individuo costituisce, di per se stessa, la più completa smentita della pretesa illuminista di fondare i suoi principî (noi precisiamo: l’idea di Progresso) su di una “norma” standardizzata.
È una critica pertinente, ma andrebbe rivolta a qualunque scuola marxista o neomarxista e non solo a certo marxismo scientifico e rigidamente dogmatico; non solo: che andrebbe rivolta a qualunque illuminismo e non solo all’illuminismo”borghese”, perché l’illuminismo celebra l’assolutizzazione della ragione scientifica e, nella sua prospettiva, è logico che gli individui vadano ridotti a singoli casi di una norma generale, “l’umanità” nel suo complesso.
È logico, dunque, che nell’illuminismo non vi siano né umana comprensione, né, tanto meno, amore e compassione per il singolo individuo, per la sua sofferenza, per il suo grido di dolore: a che scopo soffermarsi davanti al piagnucolio di Caio o di Sempronio, quando l’unica cosa veramente necessaria è dedicarsi, anima e corpo, a costruire il paese della felicità per TUTTI gli uomini, vale a dire per l’uomo in astratto?
Infatti, ciò che rende l’uomo un essere veramente umano, secondo l’illuminismo (e dunque anche secondo il marxismo), è la ragione: chi la possiede è umano, chi non la possiede o non la usa, non merita neppure di essere considerato tale. La ragione, infatti, è universale ed accomuna gli uomini, mentre il sentimento è individuale e li differenzia.
Peraltro, i tre casi “esemplari” che Mayer sceglie per illustrare l’importanza della diversità: la donna, l’ebreo e l’omosessuale, risentono in pieno del clima in cui il suo saggio fu scritto e appaiono, oggi, a dir poco discutibili: c’è molta, moltissima esagerazione nel volerli presentare come la pietra del paragone di tutte le ingiuste repressioni della “diversità” da parte di una ragione che bada unicamente alla “norma”. La sua accusa a Bloch, di non aver riflettuto abbastanza sulle sue stesse origini giudaiche, poi, sfiora quasi i vertici della psicopolizia freudiana: ciascuno sarà ben libero di attribuire l’importanza che crede al proprio albero genealogico.
Oppure si tratta di accettare, da parte dei “diversi”, il ruolo delle vittime di professione, facendosi così “norma” di un altro paradigma, un paradigma alternativo fin che si vuole, ma sostanzialmente speculare a quello che si voleva combattere?
Quando capiranno, tutti questi nipotini dell’illuminismo, che la critica alla “norma” può essere usata come un’arma a doppio taglio: per deprecare il sacrificio della singolarità, ma anche per costruire un nuovo assolutismo concettuale, semplicemente rovesciando i termini della questione e instaurando, così, un conformismo dell’anticonformismo?