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Ci sarà mai redenzione per le «donne dannate» di Baudelaire, divise fra desiderio e rimorso?

di Francesco Lamendola - 02/11/2011




Pochi scrittori hanno saputo cogliere con così intensa drammaticità la condizione ambivalente della creatura umana davanti al peccato: di attrazione e desiderio, ma anche di rimorso e senso di colpa; e poi, in una sorta di allucinante gioco degli specchi, ancora di quel particolare godimento che scaturisce proprio dalla volontà di autopunizione, e così via all’infinito, in una spirale senza pace e senza fine.
Questa dialettica, questo alternarsi di amore e morte, di brama carnale e intimo turbamento, è particolarmente evidente in due poesie dei «Fleurs du Mal» (il cui titolo originale e non poco “scandaloso”, ricordiamolo, era appunto «Les Lesbiennes»), entrambe intitolate «Femmes damnées» e la prima delle quali, condannata in tribunale nel 1857 e, pertanto, scorporata dalla raccolta, porta il sottotitolo «Delphine et Hippolyte»; ad esse si può aggiungere, per affinità tematica, «Lesbos» (essa pure condannata).
«Delphine et Hippolyte», giova ricordarlo, ha ispirato anche un famosissimo quadro di Gustave Courbet, intitolato appunto «Femmes damnées» (noto anche come «Il sonno», «Le dormienti» o «La pigrizia e la lussuria»), che venne rifiutato al «Salon» parigino del 1864 ed  esposto poi a Bruxelles; opera in cui specialmente la figura di Delphine è stata giudicata uno dei più bei nudi femminili nella storia della pittura, non solo moderna.
In questo gruppo di composizioni di Baudelaire il dissidio delle protagoniste, guardate dall’autore con pietà e con viva partecipazione umana, ruota intorno ad un conflitto insormontabile fra le ragioni dell’amore e quelle della morale, per cui la riflessione va molto oltre il tema specifico degli amori lesbici e dell’omosessualità femminile, per investire una condizione tipicamente umana: il dissidio fra l’aspirazione generosa alla Purezza (intesa in senso meramente estetico), alla Bellezza, all’Assoluto e la inesorabile distinzione del Bene e del Male, che introduce il senso del peccato e della colpa.
Vi è qualcosa di grandiosamente tragico in queste eroine dell’amore “puro”, nel senso di assoluto, e nella totale, incondizionata abnegazione, se così la possiamo chiamare, con cui si gettano a corpo morto nelle profondità abissali dell’amore, quasi pagane sacerdotesse dell’Eros; nel loro protendersi verso un sogno di pienezza, di felicità, di trascendenza, se potessimo adoperare quest’ultima parola per indicare una dimensione “altra” che, però, risiede nella dimensione del finito, anzi, nei brividi voluttuosi della sensualità, dopo l’abbattimento dell’ultima frontiera e dopo la soppressione delle ultime esitazioni.
Il loro dramma consiste proprio in questo andare oltre il limite, in questo precipitarsi in un’estasi che non dà gioia, ma torbidi trasalimenti ed oscuri languori, popolati dagli spettri paurosi del rimorso; si direbbe che il Poeta, davanti ad esse, provi un sentimento di commozione molto simile a quello di Dante di fronte a Francesca, nel quinto canto dell’«Inferno»; le condanna dal punto di vista della morale, e tuttavia non può fare a meno di domandarsi, insieme a loro: che cosa hanno da spartire l’amore e la morale? Come osa la morale giudicare ciò che appartiene all’incondizionato, al regno della pura bellezza e che perciò, come direbbe Nietzsche, si pone di necessità al di là di ciò che l’umanità suole chiamare il Bene ed il Male?
Tuttavia, se la riflessione di Baudelaire si fermasse qui, potremmo dire che egli non si è spinto oltre un livello assai modesto di approfondimento; un livello che, come sarà poi per Joris Karl Huysmans, si ferma a mezza via tra la sazietà del piacere ed una nuova, più sottile e diabolica forma di piacere, che nasce appunto dal cercarlo con rimorso e cattiva coscienza, raddoppiandone così la potenza.
In Baudelaire, invece, c’è dell’altro: c’è, implicita o esplicita, la domanda se per queste donne dannate, straziate a sangue dal desiderio e dal senso di colpa, e, dunque, metafora di una condizione umana universale, esista una possibilità di effettiva redenzione.
Effettiva e non illusoria, né mescolata al piacere più acre, ma ancora più intenso, prodotto dalla volontà di espiare, castigando quel corpo eternamente bramoso di voluttà; ma castigandolo in modo da riportare su di esso tutta l’attenzione, tutta la sensibilità esasperata che, prima, erano rivolte alla esplicita ricerca della soddisfazione sensuale.
Ha scritto Massimo Colesanti (in: C. Baudelaire, «I fiori del male», traduzione di C. Rendina, Newton Compton, Roma, 1998, 2004, pp.274-75; 338-39):

«”Femmes damnées” … è fra le poesie più dilacerate de “I fiori del male” e quella in cui il gusto e il disgusto del piacere sono più interiorizzati., e come strettamente contemporanei e connessi. Una dualità quindi profondamente drammatica, nella coesistenza di desiderio e di rimorso, di grida di godimento e di lacrime. È molto probabilmente poesia giovanile, se avrebbe dovuto far parte, come tutto lascia pensare, della raccolta progettata “Les Lesbiennes”, insieme con l’altra poesia omonima, che ha ilo sottotitolo di “Delphine et Hippolyte”, molto più lunga e complessa, ma a questa abbastanza vicina, e almeno con “Lesbois”, da cui questa invece si allontana non poco. Ma certamente fu ripresa e modificata in seguito, fino ad avere questa forma definitiva, dall’impianto classico, suddivisa fra una prima parte (strofa I) introduttiva – uno sguardo d’insieme, con indubbie reminiscenze virgiliane -, una seconda parte, più particolareggiata, e come di enumerazione e di rassegna, ma in crescendo (strofe II-IV), e una terza tipica del procedimento baudelairiano, in cui il poeta esprime direttamente il suo sentimento di comprensione (le ultime due strofe). Baudelaire “sfrutta” certo una letteratura già molto ricca sugli amori saffici, sia in prosa (oltre a “La religieuse” di Diderot, ricordiamo “Fragoletta”, 1829, di Latouche; “Mademoiselle de Maupin”, 1834, di Gautier; la stessa “Fille aux yeux d’or” di Balzac, per cui vedi “Une martyre” dello stesso Baudelaire), sia in versi e a tatro (Banville, Houssaye, Piloxène Boyer), così come riflette costumi abbastanza diffusi nella sua epoca (anche se spesso deformati da pettegolezzi e calunnie, specie fra le attrici (e pensiamo alla “relazione” G. Sand-Marie Dorval), e sembra che la stessa Jeanne Duval [cioè l’amante di Baudelaire] non fosse esente da questa tendenza. Ma egli guarda le cose più dall’alto, da un punto di vista esistenziale. S’interessa questi amori non in modo morboso, ma umanamente. È di sicuro attratto da quel che di “innaturale” essi rappresentano, contro la fecondità, ma soprattutto dalla dannazione di queste donne (il titolo qui non è certo un’antifrasi), dal senso del peccato che le coinvolge, dall’aspirazione all’assoluto, all’infinito, che esse esprimono e conservano anche nella loro tormentata depravazione. […]
“Delphine et Hyppolite” […] nella prima edizione del 1857 precedeva immediatamente l‘altra poesia dallo stesso titolo e seguiva “Lesbos”, che serve da introduzione ad entrambe. Anche questa poesia avrebbe dovuto far parte sicuramente delle “Lesbiennes”. È forse meno bella, perché più diffusa e complessa, dell’altra omonima, e può dividersi in tre parti. Nella prima (strofe I-VI) il poeta presenta le due donne, in un ambiente languido voluttuoso, profumato, e in una contrapposizione simmetrica: Hippolyte, sognante, candida,ma stupefatta e turbata (vv. 1-12); Delphine, aggressiva, e come in agguato ancora del prossimo piacere (vv. 13-24). Una bellezza fragile ed una bellezza forte, una vittima e un “carnefice”,che, prima di affrontarsi ancora, si contemplano o si squadrano. Segue poi una lunga parte dialogata (strofe VII-XXI), e anch’essa simmetrica, con due interventi di Delphine, che tenta, che insinua, che spinge, e due di Hippolyte, che prima resiste, sempre più debolmente, in preda a timori, a sofferenze, a inquietudini, ma che si rende conto della spirale voluttuosa che la trascina verso la perdizione; e poi s’infiamma, decisa a lasciarsi annullare  nella vertigine di amore e di morte. Nella terza parte (strofe XXII-XXVI), il poeta riprende la parola, in tono un po’ diverso (tanto che si è pensato, in base anche ad un accenno di Poulet-Malassis) che Baudelaire l’abbia composta e aggiunta poco prima della pubblicazione, e proprio in vista di un probabile intervento giudiziario); e il discorso è analogo a quello dell’altra “Femmes damnées”, di commiserazione e di pietà, per queste lamentevoli vittime del peccato, ma anche del desiderio, della seta d’amore e d’infinito che ci assilla tutti nel nostro destino. Più che idee nuove rispetto a “Lesbos” e alla seconda “Femmes damnées”, c’è qui un’abbondanza di immagini, e di particolari e d situazioni erotiche, pur se espressi con molta delicatezza e discrezione, che certamente avranno “convinto” i giudici alla condanna.»

La possibilità di una redenzione, dunque:.
Esiste oppure no, per queste infelici, per queste sventurate, che il poeta sembra guardare ora con accenti di condanna (non per nulla sono “dannate”), ora di profonda pietà, ora con una sorta di segreta ammirazione per la loro totale, “eroica” dedizione ad un ideale di amore e di bellezza assoluti, incuranti delle leggi morali, chiamiamole così, “ordinarie”?
In altre parole: è possibile una sorta di doppia morale: una per le persone che vivono in superficie le proprie passioni ed i propri sentimenti, l’altra per quelle che hanno il tremendo coraggio di spingersi sino in fondo; una per coloro che amano poco, ed una per quei coraggiosi che osano amare con tutta la propria anima, senza limite alcuno?
La risposta, sempre assumendo la prospettiva di Baudelaire, è quanto meno dubbia, se non esplicitamente ed irrevocabilmente negativa.
Il poeta francese non lascia molti margini di speranza a questo proposito; e ci sembra veramente riduttivo, e poco rispettoso della sua serietà e coerenza intellettuali, osservare che, forse, la parte finale di «Delphine et Hippolyte» è stata pensata, o magari aggiunta, proprio  per cautelarsi in vista dei un probabile processo per oltraggio al pudore.

«Descendez, discende, lamentables victimes,
Discendez le chemin de l’enfer éternel!
Plongez au plus profond du gouffre, où tous les crimes,
Flegellés par un vent qui ne vient pas du ciel

Boillonnent pêle-mêle  avec un bruit d’orage
Ombres folles, courez au but de vos désirs;
Jamais vous ne pourrez assouvir votre rage,
Et votre châtiment naîtra de vos palisirs.

Jamais un rayon frais n’éclaira vos caverns;
Par les fentes des murs des miasmes fiévreux
Filtrent en s’enflammant ainsi que des lanterns
Et pénètrent vos corps de leurs parfums affreux.

L’âpre stérilité de votrte jouissance
Altère votre soif et roidit votre peau,
Et le vent furibond de la concupiscence
Fait claquer votre chair ainsi qu’un vieux drapeau.

Loin des peoples vivants, errantes, condamnées,
À travers les deserts courez comme les loups;
Faites votre destin, âmes désordonnées,
Et fuyez l’infini que vous portez en vous!».

Eppure, proprio alla fine, un tenuissimo spiraglio sembra aprirsi, come uno squarcio fugace nel cielo tempestoso: le donne dannate fuggono l’infinito che giace dentro di loro: dunque, in esse vi è l’infinito e il loro peccato non è quello di averlo ignorato o di avergli voltato le spalle, ma di averlo cercato là dove non poteva essere, là dove soffiano solo dei venti che non vengono dal cielo, ma dall’inferno, perenne castigo delle anime criminali.
E questo, dunque, è il loro crimine: aver cercato l’infinito nel finito, l’assoluto nel relativo, l’eterno nel temporale; aver assolutizzato il corpo, averlo adorato, averlo idolatrato: il corpo delle proprie simili, dunque il corpo di una unione sterile, di un amore infecondo e innaturale.
Quella scintilla d’infinito, però, che è dentro di loro, potrebbe, chi lo sa?, risvegliare in loro un altro anelito, un’altra sete, un’altra febbre: quella, appunto, della redenzione.
Ma ne saranno capaci, loro, le pagane sacerdotesse dell’Eros, che si aggirano come lupe insaziabili nei deserti infuocati della concupiscenza?