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Dallo sviluppo sostenibile alla decrescita

di Paolo Scroccaro - 02/11/2011

DALLO SVILUPPO SOSTENIBILE ALLA DECRESCITA
     VERSO UN NUOVO PARADIGMA DELLA
            PROSPERITA’ SENZA CRESCITA
 
             
   
“La crescita diventa antieconomica quando gli incrementi della produzione costano,
in termini di risorse e benessere, più del valore dei beni prodotti… Una popolazione in
crescita antieconomica arriva al limite di futilità, il punto in cui l’aumento dei consumi
non aggiunge alcuna utilità… una crescita antieconomica produce più rapidamente
mali che beni, e ci rende più poveri invece che più ricchi. Una volta superata la
dimensione ottimale, la crescita diventa ottusa nel breve periodo e insostenibile nel
lungo”
(Herman Daly, L’economia in un mondo pieno, in Le Scienze n. 447, novembre
2005).
“La crescita, invece di rimanere un concetto economico, si è trasformata a poco a poco
in un pilastro ideologico fondamentale per l’equilibrio sociale e politico delle società
industrializzate…La crescita economica è passata dallo stadio di strumento a quello di
fine, e ciò implica che è quindi superfluo interrogarsi sulla direzione da prendere”
(Orio Giarini – Henry Loubergé, 1978).
  “L’idea di una crescita infinita della produzione e del consumo senza cura della
riproduzione delle loro basi materiali è un delirio di onnipotenza, una malattia mentale
che gli uomini hanno contratto solo di recente… Occorre dunque riprendere e tornare
a coltivare l’idea di una economia non come freccia che corre verso un vuoto infinito,
ma come circolo che ritorna su se stesso, attività che si prende cura delle fonti stesse
della ricchezza”
(Piero Bevilacqua, Miseria dello sviluppo, Laterza, 2008, pag. 196)
     “Durante la sessione conclusiva [della Settimana Verde europea, giugno 2010], il
professor Tim Jackson, autore di Prosperity without Grouth?, ha parlato di
un’alternativa e ha spiegato che la decrescita, o “décroissance” dovrà guidare le
decisioni future”
(L’Ambiente per gli Europei – Supplemento Settimana Verde 2010. Trimestrale a cura
della Direzione Generale Ambiente della Commissione Europea).      
Quale sviluppo? Che cosa occorre sviluppare?
Nei materiali del Movimento Federalista Europeo, dedicati alle questioni ambientali,
si auspica uno sviluppo che, a differenza di quello in vigore, non dovrebbe essere 2
unilaterale, cioè solo economico, ma integrale (vedi presentazione di Lucio Perosin),
quindi in grado di contemperare vari altri fattori. Qualcuno propone di chiamarlo
“sviluppo armonico”, altra espressione in sintonia con la precedente:  infatti si intende
ipotizzare uno sviluppo che non genera squilibri, e quindi capace appunto di
armonizzare istanze diverse.. Non possiamo che essere d’accordo su una concezione
“mite” e polimorfa dello “sviluppo”, non eretto ad ideologia economicistica
aggressiva e totalizzante: tra l’altro, ciò corrisponde (non nel linguaggio, ma nella
sostanza) ad una posizione culturale che è parte essenziale della nostra tradizione
occidentale (vedi Platone ed altri filosofi greci)… e siccome ho notato che anche voi
vi ponete un problema molto serio: quello della ripresa e della riattualizzazione delle
tradizioni, quanto sopra può costituire un’ottima esemplificazione. L’autorevole
Platone ed altri tra i filosofi greci temevano che le energie economiche potessero
espandersi a dismisura, squilibrando la polis e generando contraccolpi pericolosi: è
quello che è avvenuto in Occidente, nella misura in cui il vecchio ideale dell’armonia
e della compostezza è stato soppiantato in nome di una visione unilaterale e
“sviluppista”, i cui primi riferimenti moderni furono autori come F. Bacone e R.
Cartesio. E proprio per questo noi oggi siamo qui riuniti: per riflettere su questo
andamento unilaterale dello sviluppo, che non ci piace e ci inquieta.
Dallo sviluppo alla decrescita
Tutti noi vorremmo uno “sviluppo armonico”, ma il problema per l’idea di sviluppo
consiste in questo: di fatto, e soprattutto negli ultimi decenni, per “sviluppo” quasi
tutti hanno inteso principalmente la crescita economica, la crescita del PIL, ritenendo
l’economia la struttura basilare su cui poi sviluppare tutto il resto… ma l’espansione
della base economica e tecnologica, che è stata straordinaria, non ha affatto garantito
lo sviluppo di tutto il resto, ed anzi quest’ultimo è stato penalizzato dagli effetti
collaterali della crescita economica, che oggi si configurano come la principale
emergenza del nostro tempo. Equiparando lo sviluppo alla crescita economica,
peraltro inseparabile dai suoi contraccolpi ambientali, anche il termine “sviluppo” ha
finito per assumere una connotazione negativa, specie negli ultimissimi anni; quando
si parla di “sviluppare un’area”, non è solo Konrad Lorenz
1
a preoccuparsi: ormai il
pensiero di molti corre alle grandi opere, al business per pochi affaristi, ai bulldozer,
al cemento che avanza e soffoca quel poco di natura che ci è rimasto, facendo
aumentare, parallelamente al PIL, anche l’inquinamento e le malattie.
Allora più di qualcuno ha cominciato a dire: “sviluppo” è un termine inflazionato, che
significa prima di tutto crescita economica e business, sviluppismo è l’ideologia
trasversale degli affaristi di qualsiasi colore politico, delle multinazionali e dei politici
asserviti; invece di cercare di addolcirlo in qualche modo (sviluppo umano, sostenibile
ecc.), prendiamone le distanze anche sul piano del linguaggio: in questo contesto si è
cominciato a parlare di décroissance (decrescita), già nei primi anni ’70 (vedi rivista
La nef, 1973), all’inizio con scarso successo, ma, più recentemente, con crescente
favore, specie ai giorni nostri… a questo proposito vi segnalo che proprio a Venezia,
nel settembre 2012, si terrà un grande evento, e cioè il III CONVEGNO
INTERNAZIONALE SULLA DECRESCITA.
                                                            
1
Nel saggio Il declino dell’uomo, K. Lorenz scriveva che l’espressione “sviluppare un’area” ormai
significa spianare, cementificare e poi vendere al miglior offerente.3
La società dell’eccesso ed i suoi squilibri
L’ ascesa della decrescita non è dovuta all’attivismo dei suoi membri, ma al fatto che
nel frattempo si sono moltiplicati gli studi indipendenti che hanno denunciato “I limiti
dello sviluppo”(ricordando il famoso rapporto del 1972, voluto dal Club di Roma)
2
e i
contraccolpi dovuti alla crescita economica ed al consumismo: citerò alcuni studi  che
non provengono dagli ambienti della decrescita.
Qualche dato per riflettere ci viene suggerito da Christian Saint-Etienne (un
economista che ha lavorato per il F.M.I.) : dall’antichità fino al 1600, il tenore di vita
medio individuale è rimasto quasi invariato. Ma dal 1700 al 1900, è stato moltiplicato
per 20!
3
Aggiungete a questo dato il fatto che nel frattempo il numero degli individui
umani è anch’esso cresciuto a dismisura: verso il 1750, eravamo circa 700 milioni, a
fine 1900, già 6 miliardi! Verso il 2050, si prevede una popolazione di 10 miliardi.
Questo comporta che, in un solo giorno, la popolazione mondiale consumerà quello
che nel 1700 si consumava in un anno (così commenta André Comte-Sponville).
Secondo altre fonti, dal 1750 ad oggi la popolazione mondiale ha consumato più
natura (più beni e servizi ecosistemici) rispetto a tutti gli umani messi assieme che
hanno popolato il pianeta nei secoli precedenti ( vedi Dave Tilford/Sierra Club,
Hawken e Lovins
4
).
Al di là dei dettagli numerici, per forza approssimativi e discutibili, un fatto è fuori
discussione: gli ultimi secoli, e specialmente gli ultimi 50-60 anni (gli anni della
“grande accelerazione”) sono anni terribili per la Terra, ed è evidente che non si può
continuare così, e che dunque occorre cambiare direzione.
La rivincita della Decrescita, oggi, in un mondo “troppo pieno”
Alcuni ottimi studi scientifici hanno sintetizzato questi grandi cambiamenti epocali
utilizzando l’elegante immagine del “mondo vuoto” e del  “mondo pieno” (Robert
Costanza, Herman Daly…): con questa indovinata espressione metaforica si vuole
rappresentare da una parte il mondo preindustriale (scarsi gli insediamenti umani e la
pressione demografica, modesto lo spazio occupato dalla tecnologia, istituzioni meno
complesse…); dall’altra il mondo dopo la rivoluzione industriale: un mutamento
vertiginoso, ben riscontrabile ai nostri giorni (6 miliardi e ½ di umani, insediamenti
                                                            
2
“Dal 1972 diviene evidente che l’attività produttiva guidata dall’uomo è in conflitto con la
persistenza dei cicli naturali e rappresenta un assalto alla struttura che sostiene la vita sul pianeta”:
così Sandro Pignatti e Bruno Trezza in Assalto al pianeta (Bollati Boringhieri, 2000, pag. 17), un saggio
brillante e documentato, che ha ricevuto il Premio Mazzotti per l’ecologia.
3
John R. Mc Neill ci informa che nello stesso arco di tempo la produttività è aumentata molto di più:
“Tra il 1750 e il 1990, la produttività del lavoro industriale è cresciuta di 200 volte, tanto che, in una
settimana, l’operaio odierno produce più di quanto non producesse in quattro anni un suo collega del
XVIII secolo” (Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX secolo, Einaudi, 2002, pag.
401).
4
Vedi in particolare P. Hawken, A. Lovins, L. Hunter Lovins, Capitalismo naturale, Edizioni Ambiente,
2001.4
diffusi, megalopoli, cementificazione, la natura calpestata dal mondo artificiale della
tecnica, istituzioni di una complessità ingestibile, il pianeta soffocato dai rifiuti e da
miliardi e miliardi di oggetti funzionali ai capricci di un’umanità degenerata…). In
questo nuovo contesto, sono ancora appetibili le ideologie sviluppiste della crescita,
sorte nel “mondo vuoto”?
La Crescita, nel “mondo pieno”, fa male…
Alcuni dicono di no, e sostengono che lee idee-forza della modernità, incentrate sulla
crescita, hanno comunque fatto il loro tempo: continuare a seguirle oggi, anche solo
per inerzia, avrebbe il sapore dell’irresponsabilità e dell’analfabetismo culturale.  Chi
lo dice? Non occorre scomodare  Latouche o altri sostenitori della Decrescita, è
sufficiente citare in modo cursorio alcuni studi particolarmente attenti alle tendenze di
fondo del nostro tempo.
- Joseph Tainter, Il collasso delle società complesse (1988): oltre una certa soglia, la
complessità non aiuta a risolvere i problemi e diventa inutilmente dispendiosa;
aumentano estraneità e sfiducia, che segnalano la fragilità del sistema e il possibile
collasso
5
.
- Robert Costanza (e collaboratori): i fanatici del PIL, ragionando in modo
antropocentrico, suppongono che solo o principalmente l’attivismo umano
produca valori economici. Le ricerche pionieristiche di Robert Costanza e
collaboratori, risalenti al 1997, benché provvisorie e  parziali, dimostrarono  che in
un anno gli ecosistemi forniscono servizi il cui valore, calcolato molto per difetto,
è comunque quasi il doppio del PIL mondiale (vedi Nature, 15 maggio 1997). Si
trattava di importi significativi, ma destinati ad essere incrementati: gli
aggiornamenti successivi hanno moltiplicato di molto il valore dei servizi
ecosistemici. Ciò significa che anche dal punto di vista strettamente economico la
natura è molto più importante dell’attivismo umano, sia pur potenziato dalla
tecnoscienza; a ciò si aggiunga il fatto che  la crescita erode progressivamente il
capitale naturale costituito dagli ecosistemi, minacciando quindi la rete della
vita….E’ stata aperta così una nuova via di ricerca, molto promettente, che ha
contribuito a mettere in discussione le vecchie certezze delle ideologie sviluppiste.
- Herman Daly, Quando la crescita fa male (in Le Scienze, novembre 2005):
volendo, noi possiamo incrementare ulteriormente la produzione, ma questi
incrementi costano, in termini di risorse e benessere, più del valore dei beni
prodotti. L’ulteriore crescita del PIL non fa aumentare il benessere, ma lo blocca o
lo riduce. Nei paesi più sviluppati, ormai la crescita è diventata complessivamente
antieconomica (vedi USA) o ha comunque raggiunto la soglia di criticità.
                                                            
5
Riprendendo Tainter (e in parte Immanuel Wallerstein) Mauro Bonaiuti osserva che “oltre una certa
soglia, i benefici della complessità presentano incrementi decrescenti. Pertanto, superata una certa
soglia di complessità, queste megamacchine (eserciti, burocrazie, corporazioni) cominciano a
presentare costi che superano i benefici. Concentrati a superare i problemi che queste stesse strutture
generano, coloro che le governano possono essere spinti a ignorare i segnali che preannunciano una
crisi di sistema” (Decrescita o collasso: appunti per un’analisi sistemica della crisi, in AAVV, Biodiversità
e beni comuni, volume a cura di Carlo Modonesi e Gianni Tamino, Jaca Book, 2009, pag. 224).5
La Commissione Europea ed il superamento del PIL
L’economia degli ecosistemi e della biodiversità” (2008): è uno studio voluto dalla
Commissione Europea (Stavros Dimas, all’epoca Commissario per l’Ambiente) ed
affidato ad un nutrito gruppo di esperti di levatura internazionale, coordinati da Pavan
Sukhdev. Lo studio recepisce molte idee simili a quelle sopra richiamate, e ne ricava
testualmente che la bussola del PIL (cioè della Crescita) è “vecchia e difettosa”,
quanto meno perché non considera in modo adeguato gli effetti collaterali della
crescita, per esempio la perdita di biodiversità, il degrado degli ecosistemi, le
catastrofi climatiche ed ambientali, il peggioramento delle condizioni di vita delle
popolazioni legate ad economie di sussistenza e quindi direttamente a contatto con gli
ecosistemi…Registrato in modo definitivo lo scollamento tra PIL e benessere, lo
studio si propone  di individuare strategie alternative “che possono sostituire la
vecchia e difettosa bussola economica della società con una nuova” (pag. 55)…6
Ma non basta: più recentemente ancora, la rivista ufficiale della Direzione Generale
Ambiente della Commissione Europea, si è spinta a promuovere il recente saggio di
Tim Jackson, il cui titolo è particolarmente significativo: Prosperità senza crescita.
La rivista inoltre ha espressamente segnalato le simpatie dell’autore per la decrescita,
considerata una scelta di buon senso e di moderazione.
Prosperità senza crescita: verso un nuovo paradigma
A seguito degli studi e delle considerazioni critiche che abbiamo sopra richiamato, e
di molto altro ancora, negli ambienti più attenti è maturata la consapevolezza che la
Crescita è ormai antiecologica ed antieconomica ad un tempo, improponibile nel
“mondo pieno”. Di qui anche la ricerca di nuovi stili di vita, incentrati sulla
sostenibilità, sui comportamenti virtuosi, sul risparmio energetico, sul riciclaggio,
sull’agricoltura biologica, sulle energie alternative….Tutto questo va benissimo, ma
non basta assolutamente, ed è sbagliato alimentare facili entusiasmi ed aspettative
sproporzionate. Ce lo insegna il paradosso di Jevons, l’effetto-rimbalzo, tornato di
grande attualità.
Breve nota sul risparmio energetico e sull’ecoefficienza: queste misure sono
importanti ma non risolutive, ed anzi compatibili con il sistema, per via dell’effettorimbalzo (vedi paradosso di Jevons). L’economista Jevons già nel XIX secolo aveva
scoperto che il miglioramento dell’efficienza nei processi industriali non comporta
complessivamente una riduzione dei prelievi (di energia, di materia), ma un
aumento… Semplificando con esempi attuali: se l’automobile è ecoefficiente e
consuma meno, si tenderà ad utilizzarla molto più di prima, a percorrere più
chilometri di prima ( effetto rimbalzo)…  Una ricerca recente (2009) documenta
                                                            
6
La Commissione Europea, con una Comunicazione rivolta al Parlamento Europeo intitolata Non solo
PIL. Misurare il progresso in un mondo in cambiamento (20-8-2009), prevede di introdurre entro il
2013 anche un indice di contabilità ambientale, che dovrebbe affiancare il vecchio indice di contabilità
economica. In questo modo l’importanza del PIL verrebbe finalmente ridimensionata (anche se politici
e amministratori non sembrano avere consapevolezza di questi cambiamenti in corso, e continuano
con la vecchia retorica della crescita del PIL: d’altronde anche nelle istituzioni europee vi sono
tendenze contrastanti al riguardo).6
l’attualità del paradosso di Jevons (The Myth of Resource Efficiency, di J. Polimeni,
Kozo Mayumi, Mario Giampietro, Blake Alcott)
7
.
Un nuovo paradigma: perché è necessario, da dove scaturisce, come si elabora
Il paradosso di Jevons insegna dunque che non si danno soluzioni meramente
tecnologiche, e che occorre pertanto uscire dalla mentalità sviluppista-consumista
predominante, per ottenere risultati decisivi in termini di sostenibilità; occorre quindi
un nuovo paradigma di civiltà, in grado di esercitare un’egemonia culturale (rispetto a
quello precedente) e di promuovere un nuovo orizzonte di senso in cui i cittadini
responsabili possano identificarsi: siamo solo agli inizi, c’è un lavoro enorme da
svolgere, e per andare avanti occorre imparare a pensare in grande, senza limitarsi a
obiettivi spiccioli e settoriali! Le tappe da percorrere sono ancora molte: esse non
vanno pensate in modo lineare (non sono disposte una di seguito all’altra) ma si
articolano in modo diverso, come fattori che si interconnettono, rinforzandosi a
vicenda in funzione di una nuova visione del mondo e di un nuovo paradigma di
civiltà.
Aspetti rilevanti per un nuovo immaginario sociale
- Una nuova etica: il punto di vista sviluppista-consumista è necessariamente
connesso ad un’etica antropocentrica, quindi limitata, che ne guida e giustifica i
comportamenti; l’etica kantiana, per esempio, è antiquata perché è intimamente
connessa ad una mentalità che trascura il mondo non-umano o lo considera solo
strumentalmente (cioè come mezzo in funzione dell’uomo), esattamente come
pretende il modello  dominante. Oggi invece abbiamo bisogno di un’etica diversa,
rispettosa degli ecosistemi e di tutti gli esseri (anche non-umani, anche nonviventi): un’etica cosmocentrica rivolta alla compassione cosmica, incentrata sulla
sobrietà, sulla moderazione (la prima virtù cardinale secondo gli antichi, vedi
Platone).
- Una nuova scienza: abbiamo visto che la vecchia mentalità è connessa ad una
scienza prepotente (vedi F. Bacone e Cartesio) funzionale al sezionamento e alla
manipolazione degli enti, che non si prende cura degli effetti collaterali, di ciò che
succede tutto intorno (dei contraccolpi del suo operato)
8
; noi invece abbiamo
bisogno di una scienza non settoriale, aperta e prudente (vedi principio di
precauzione), attenta alle interconnessioni ad ampio raggio con il mondo che ci
                                                            
7
Vedi anche l’articolo di Cédric Gossart, Alla scoperta dell’effetto rebound. Quando le tecnologie verdi
spingono a maggiori consumi (in Le Monde Diplomatique).
8
Criticando la scienza riduzionista, S. Pignatti (docente di Ecologia) e B. Trezza (docente di Economia)
si esprimono in questi termini: “La nostra tesi è che la questione ambientale sia una conseguenza di
questa visione riduzionistica, che ha permesso di risolvere mille problemi di dettaglio, ma ha causato
un progressivo squilibrio dell’ambiente nel suo complesso. Secondo il paradigma sistemico i singoli
fenomeni, anziché venire isolati, debbono necessariamente esser considerati come parti di un tutto”
(Assalto al pianeta, Bollati Boringhieri, 2000, pag. 23).7
circonda (vedi i lavori di R. Costanza e collaboratori
9
), rispettosa dei cicli e dei
ritmi della natura  (una scienza olistica, ecosistemica, che pensa
“sistematicamente, in termini di relazioni, modelli e contesti”, come dice Fritjof
Capra
10
).
- Rendere più leggeri i consumi, a partire dall’alimentazione: il modello
alimentare oggi prevalente, incentrato sulla carne e quindi sugli allevamenti
industriali, è antiquato ed è uno dei principali fattori di impatto e di inquinamento
ambientale; inoltre esso comporta una crudele organizzazione pianificata della
sofferenza animale. Questo significa che l’attuale modello è insostenibile sia dal
punto di vista ecologico, sia da quello etico (vedi Impatto del consumo alimentare
sull’ambiente e Decrescita, di A. Fragano. Sta in Decrescita. Idee per una civiltà
post-sviluppista, di AAVV., Sismondi Editore). In aggiunta, la dieta carnea è
criticabile anche in un’ottica semplicemente salutistica (Veronesi, Berrino). Per
tutti questi motivi, essa era detestata e a volte espressamente proibita già nelle
principali scuole filosofiche dell’antichità occidentale (vedi Solone, Pitagora,
Empedocle, Platone, Teofrasto, Plutarco, Porfirio, Giuliano imperatore…). Oggi
abbiamo dei motivi supplementari per riconsiderare la saggezza degli antichi in
questo ambito. Il ritorno ad uno stile alimentare sobrio e non carnivoro, a basso
impatto ecologico, è alla portata di chiunque e subito, senza se e senza ma. Esso
può mettere in moto un circolo virtuoso nell’ambito dei consumi. Cosa
aspettiamo?
11
- Dall’ecologia superficiale all’ecologia profonda: l’ecologia superficiale,
praticata per decenni dal movimento ambientalista, è un’ecologia efficientistica e
riparativa: di solito essa punta sull’efficienza tecnologica, per ridurre l’impatto
ecologico; inoltre, essa rincorre di continuo i danni provocati dal sistema,
cercando di porvi rimedio, senza però mettere in discussione la logica sviluppista
di esso. Al massimo, essa può mitigarne alcuni effetti nocivi, lasciando inalterato
l’insieme: l’effetto-rimbalzo insegna che in questo modo non si esce dal
                                                            
9
Gli autori citati hanno intrapreso un programma di ricerca di grande respiro, rivolto allo studio
dell’interazione nelle varie epoche storiche tra mondo umano ed ecosistemi naturali,  giungendo a
risultati molto promettenti. Merita ricordare che secondo alcuni autori Platone sarebbe un precursore
in questo ambito di ricerca.
10
Vedi l’intervista a Fritjof Capra su: ecologia profonda, scienza sistemica ed ecoalfabetizzazione (in
AAVV: Decrescita. Idee per una civiltà post-sviluppista, Sismondi ed., 2009).
11
“L’aumento della popolazione e la crescente domanda di carne e altri prodotti di origine animale
come latte e uova hanno determinato l’espansione del settore dell’allevamento, principale
responsabile della perdita di biodiversità a livello mondiale… cambiare le nostre abitudini alimentari
potrebbe ridurre l’enorme impatto che il settore dell’allevamento esercita sulla biodiversità…
iniziative popolari come il meat free day, la giornata senza carne, possono favorire la riduzione del
consumo di carne e della produzione zootecnica e migliorare la sanità pubblica, riducendo al
contempo i danni sulla biodiversità” (L’Ambiente per gli Europei – Supplemento Settimana Verde 2010,
pag. 13).8
consumismo distruttivo. Occorre, come abbiamo già detto, un cambio di mentalità
anche in campo ecologico: la deep ecology corrisponde a questa esigenza, perché
richiede il superamento delle valutazioni antropocentriche-utilitaristiche e
riconosce il valore intrinseco di qualsiasi ente (vedi Guido Dalla Casa, Ecologia
profonda, Pangea ed.; ripubblicato in versione digitale ampliata da Arianna ed.).
- Decolonizzare l’immaginario, a partire dalla scuola: è indispensabile ripensare
radicalmente gli attuali curricoli scolastici, liberandoli dall’impostazione
sviluppista ed antiecologica, presente  nelle varie discipline. Non si tratta di
inserire una nuova disciplina – l’ecologia – nell’istruzione, ma di rivedere
l’impianto di base che la sorregge, intercettando per di più le gravi emergenze
attuali. Lo sfondo ideologico comune alle varie materie curricolari è tale per cui si
tende a presentare il modello culturale prevalente nel mondo moderno e
contemporaneo come risultato di un’evoluzione che ne assicura la superiorità su
tutti gli altri modelli preesistenti. Di conseguenza, nei libri di storia l’economia
della crescita illimitata figura come superamento delle formazioni socioeconomiche precedenti, ma considerazioni analoghe, mutatis mutandis, si possono
svolgere anche nei confronti delle altre discipline, interpretate in base a parametri
simili: di qui l’elogio unilaterale di ciò che è moderno e contemporaneo (modelli
scientifici, tecnologici, politici, giuridici, religiosi, etici…) e la svalutazione di
tutto il resto.  I docenti che insegnano così (la maggioranza)  continuano a
trasmettere contenuti noiosi e obsolescenti, che non corrispondono alle emergenze
ed ai compiti del nostro tempo. Anche qui occorre un cambio di rotta
12
, in grado di
aprire le istituzioni educative ad una prospettiva culturale pluralista e ad una
dignitosa riconsiderazione di modelli culturali di tipo diverso, spesso orientati in
senso ecologico e interculturale (e quindi meglio attrezzati per fronteggiare le
emergenze del presente, anche se risultano limitati da altri punti di vista).
Cominciamo perciò a valorizzare le esperienze didattiche dei docenti che tentano
di muoversi in questa direzione! [Vedi il sito www.filosofiatv.org , settore “Scuola
e Formazione”].
- Far uscire il martello economico dalla testa, per un diverso rapporto con il
territorio: se il nostro immaginario è occupato principalmente dal “martello
dell’economia”, per dirla con Latouche
13
, siamo portati a vedere tutti i problemi
come se fossero più che altro chiodi da piantare (problemi economici da risolvere,
in funzione della crescita). Allora si cercherà di valorizzare il territorio in un’ottica
economicistica, sacrificando tutto il resto.
                                                            
12
Un primo passo molto promettente era stato fatto con il documento ministeriale intitolato Alfabeti
Ecologici (2007), presentato anche a Treviso. Il documento era stato elaborato da un “Comitato di
saggi” costituito presso il Ministero dell’Ambiente, ma era rivolto alle scuole di ogni ordine e grado. Il
testo del documento, ed alcuni commenti, si possono trovare in www.filosofiatv.org (sezione
Ecofilosofia).
13
Vedi in particolare Serge Latouche, Decolonizzare l’immaginario, EMI, 2004.9
Alla luce di un paradigma diverso, non colonizzato dall’economicismo ed anzi
incentrato sulla sostenibilità e sul senso del limite, cambia di molto anche il
nostro rapporto con il territorio e la natura, che deve essere riorientato in modo
radicale. Alcuni esempi ed indicazioni:
- Le politiche territoriali non saranno per forza votate  alla crescita del PIL,
considerato un parametro inadeguato e ormai controproducente, per i motivi di cui
si è già detto.
- Qualsiasi attività economica deve essere valutata nei suoi aspetti positivi e
negativi, senza occultare o sottostimare le cosiddette “esternalità negative”, che
hanno favorito le iniziative antiecologiche.
- Le politiche territoriali devono privilegiare la protezione e la valorizzazione degli
ecosistemi e dei relativi servizi, in quanto costituiscono la base della rete della
vita. In questo quadro, la Commissione Europea raccomanda la protezione anche
delle aree quasi selvagge e incontaminate
14
, la cui riduzione è preoccupante.
- Occorre “produrre meglio, non di più” (Mario Giampietro), per impattare meno, a
partire dall’agricoltura industriale, che deve essere ridimensionata e sostituita con
un’agricoltura eco-compatibile
15
. Secondo vari autori, a partire dagli anni ’60 in
poi c’è un eccesso di cibo in Europa, per cui vengono concessi incentivi assurdi
alle aziende per non produrre
16
.
- Più in generale, devono essere aboliti tutti i sussidi antiecologici, per es. i sussidi
alle industrie  inquinanti e agli allevamenti (J. Stiglitz
17
), che oltre a favorire
                                                            
14
Vedi L’Ambiente per gli Europei n. 35 (2009).
15
Vedi Mario Giampietro, Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura in relazione ai limiti biofisici e socioeconomici (in AAVV, Biotecnocrazia, Jaca Book, 2007. Il volume è curato da C. Modonesi, G. Tamino e
I. Verga).
16
“… le maggiori agricolture industriali del pianeta – quella europea e quella americana – sono
eccedentarie sin dagli anni ’60. Per limitare le produzioni, il potere pubblico, cioè i cittadini europei e
statunitensi, pagano gli agricoltori perché si astengano, a rotazione, dal coltivare le loro terre” (Piero
Bevilacqua, Un sapere cooperante per il governo dell’agricoltura sostenibile, in AAVV, Biotecnocrazia,
Jaca Book, 2007, pag. 282. Il volume è curato da C. Modonesi, G. Tamino e I. Verga).
17
Vedi i dati riportati in Joseph Stiglitz, La globalizzazione che funziona, Einaudi, 2006. Secondo i
calcoli di Stiglitz (già economista-capo della Banca Mondiale per lo Sviluppo) “in media la mucca
europea riceve un sussidio di due dollari al giorno; più di metà della popolazione del mondo in via di
sviluppo vive con meno di questa cifra. A quanto pare conviene essere una mucca in Europa anziché
un povero in un paese in via di sviluppo” (pag. 90). Norman Myers ha fatto un inventario mondiale dei
“sussidi perversi”, pubblicati in un saggio che porta proprio questo titolo (in inglese).10
l’inquinamento e il degrado del territorio alterano fortemente i prezzi dei rispettivi
prodotti.
- Bisogna favorire la rivitalizzazione dei suoli, in declino in tutta Europa, a causa
delle pratiche agricole errate... in questo contesto, bisogna valorizzare forme
alternative di coltivazione biologica non intensiva, e lavorare  anche sull’ipotesi di
“coltivare senza arare” (vedi Claude Bourguignon, in L’ambiente per gli Europei,
supplemento speciale dedicato alla Settimana Verde 2010) .
- Occorre difendere con determinazione il paesaggio europeo dall’ulteriore
cementificazione e perdita di biodiversità; a questo fine, bisognerebbe cominciare
ad applicare seriamente quanto prevede la Convenzione Europea per il Paesaggio,
fino ad ora rimasta sulla carta e priva di effetti pratici, benché approvata dai vari
stati, Italia compresa.