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La sociologia tra politica e scienza

di Carlo Gambescia - 26/06/2006

 

 

Il problema

 

La società può essere studiata scientificamente? Il sociologo è un osservatore neutrale dei fenomeni sociali? La società, come puro oggetto di studio, può  influire, attraverso sue articolazioni, sulle scelte metodologiche dello studioso? E più in particolare, quale ruolo vi gioca la politica?

È di tutta  evidenza che si tratta di questioni, sulle quali non solo i sociologi, ma le persone di cultura e di scienza, si confrontano da parecchi secoli. O comunque, almeno  fin da quando il sapere, all’inizio dell’età moderna, smise di essere un prolungamento della teologia. Ovviamente, per quello che concerne la sociologia, il dibattito, risale alle famose riflessioni di Max Weber sulle differenze tra  lavoro politico e intellettuale.

Il grande sociologo tedesco intuì, probabilmente per primo, la tragica condizione dell’intellettuale novecentesco, stretto  tra  iperpolitica e scientismo, tra grandi principi e responsabilità di ruolo. 

A suo avviso l’intellettuale, e in particolare lo scienziato sociale, quando indaga, deve rinunciare ai suoi valori personali. O comunque, dovrebbe essere disposto a mutare quelle ipotesi «culturali» che in corso d’opera dovessero dimostrarsi non congruenti con i risultati della ricerca. In certo senso, per lo studioso tedesco se il vero politico crea e vive per la politica, l’intellettuale, quello autentico o puro per  idee e scelte, finisce sempre per subirla.

Per Weber la politica è un’istituzione, che come tutte le istituzioni, crea in chi vi entra in contatto, una duplice condizione: ad esempio il sociologo, in quanto accademico, sa di dipendere dalla politica, ma al tempo stesso, per ragioni di obiettività scientifica, avverte il dovere di tenersi a debita distanza da essa. Una  situazione tragica, fondata su un conflitto, di difficile soluzione, tra essere (la politica) e dover essere (la scienza).

Ora, se il problema è questo, risulta altrettanto difficile, rispondere in modo netto (con un sì o un no) alle domande formulate all’inizio.

In ogni caso, resta comunque  interessante abbozzare un tentativo di  risposta. 

 

La sociologia è una scienza?

 

Se per scienza intendiamo il perseguimento della Verità, quella con la lettera maiuscola, la Verità che salva dei cristiani, o quella altrettanto salvifica teorizzata da certi scienziati moderni, la sociologia non è una scienza, dal momento che al massimo può occuparsi di «costanti»: comportamenti sociali che possono ripetersi nel tempo, con un discreto margine di probabilità. La sociologia  non può impedire che si ripetano, ma può aiutare a capire perché ricorrono, e in certo senso, può aiutare a ridurne portata e pericolosità. In questo senso, se proprio è necessario definirla scienza, la sociologia potrebbe essere definita la «scienza delle costanti sociali». Di qui perciò anche la necessità di impiegare  una serie di strumenti (modelli, ipotesi, concetti operativi, tecniche di indagine sociale) per esplorare «scientificamente» l’universo sociale.

Ad esempio il conflitto (come del resto la cooperazione) è una «costante sociale» presente  in tutte le società, moderne e premoderne. Ora la sociologia può insegnarci molto sulle sue cause, effetti e ambienti di riproduzione, e quindi aiutarci a capire, se non come evitare i conflitti, almeno come sublimarli, e renderli meno distruttivi. Benché, e questo è bene chiarirlo subito, la storia sociale abbia mostrato che non sempre è facile per gli uomini assumere un atteggiamento non conflittuale o completamente pacifico. Spesso, e paradossalmente, anche la stessa «cooperazione» risulta purtroppo  funzionale al conflitto con un nemico «esterno».  Ovviamente, sia per la cooperazione che per il conflitto si tratta  di costanti, o forme sociologiche (sulle quali per ragioni di spazio, anche perché non sono le uniche, non possiamo soffermarci ulteriormente), che sul piano storico assumono, visto che ricorrono ciclicamente, contenuti culturali differenti. Per dirla con una metafora: nello stesso calice (la forma), sono versati vini diversi (i contenuti). E questo spiega la grande ricchezza  e originalità della storia umana, mai  clone di se stessa.  

 

Il sociologo è un osservatore neutrale dei fenomeni sociali?

 

Lo sarebbe nella misura in cui riuscisse a tenersi a debita distanza dalla politica. Cosa molto difficile, soprattutto se per politica intendiamo non solo la politica come professione in senso stretto ma la politica come spirito del tempo: quell’insieme «politico», di valori e istituzioni  culturali, sociali, religiosi, economici e perfino artistici, che segna il tempo in cui il sociologo vive e lavora.

Certo, c’è sempre la possibilità, evidenziata  da Weber, di poter dichiarare i valori politici in cui si crede: di mettere onestamente le carte in tavole. Ma è sufficiente per essere  considerati neutrali? L’«onestà scientifica», comunque importantissima, è una cosa, la «neutralità» è un’altra.

Torniamo all’esempio del conflitto: nell’esaminare le lotte operaie all’interno della Fiat alla fine degli anni Sessanta, un sociologo che chiameremo onesto sosterrà che quelle lotte erano frutto di un malessere operaio, causato dallo sfruttamento capitalistico. Una situazione, che per la sensibilità politica e umana di un sociologo onesto era ed è profondamente ingiusta, tanto da suggerire senza mezzi termini la fuoriuscita dal capitalismo, del resto anche all’epoca  molto in voga. Per contro, un altro sociologo che chiameremo neutrale, apparentemente privo di «sensibilità» politica e umana, asserirà che le stesse lotte erano per un verso una risposta  allo  sfruttamento, ma per l’altro anche frutto di un necessario e sano conflitto redistributivo, che avrebbe favorito lo sviluppo dell’attività sindacale e di una legislazione ad hoc, entrambe apportatrici di  benessere e progresso per tutti.

Sul piano storico non spetta a noi giudicare, ma che il capitalismo celebri e fin dove è possibile privilegi il conflitto,  può piacere o meno, ma resta purtroppo un dato di fatto. Che sfugge al sociologo onesto, ma non a quello che si sforza di essere neutrale. Il primo non spiega come funziona il capitalismo, perché lo condanna moralmente, mentre il secondo che non lo condanna, riesce a individuarne nella retorica del conflitto il «motore» principale, anche in termini di effetti sociali di ricaduta, non sempre negativi. Il che ci fa capire come in realtà, al di là della  retorica politica, il capitalismo, come ogni sistema sociale passato, presente e futuro, sia un mix di conflitto e cooperazione (due costanti sociali). Che poi l’atteggiamento di neutralità, di fatto favorisca oggettivamente l’auto-conservazione della società capitalistica, una sistema moralmente ingiusto anche per chi scrive,  è un elemento che comprova la difficoltà per il sociologo di essere anche suo malgrado un osservatore «neutrale» dei fenomeni sociali. 

 

Qual è il ruolo della società?

 

È un ruolo sicuramente importante. E si manifesta attraverso l’azione dei processi di socializzazione e condizionamento sociale diretto e indiretto. Stabilire se le origini del condizionamento siano materiali ed economiche (la classe di appartenenza) o ideali e culturali (l’ambiente da cui si proviene)  condurrebbe troppo lontano: diamo perciò scontato solo il «fatto» del condizionamento. Al quale poi ogni uomo, e nel caso in discussione ogni sociologo, si adegua o risponde in modo del tutto personale: in alcuni studiosi il condizionamento sociale si trasforma in accettazione entusiastica dei valori dominanti, in altri invece si trasforma in un blando orientamento conformista, in altri ancora in rifiuto netto. In genere più diminuisce il ruolo della criticità, legato a variabili come la formazione culturale, più cresce l’adesione o il rifiuto pregiudiziale dei valori dominanti.

Torniamo all’esempio del conflitto. Se in una società, ad esempio come quella capitalistica, il conflitto economico viene celebrato come fattore di progresso, i sociologi si divideranno tra coloro che si uniscono ai «celebranti» e coloro che invece preferiscono restare fuori dal «coro». I dissenzienti saranno comunque sempre in minoranza, dal momento che i processi di legittimazione sociale, e in questo caso  «accademica», richiedono l’adesione manifesta a quella che è la  verità o lo spirito del tempo, ben riassunta dall’idea che il conflitto capitalistico sia apportatore di benessere economico e progresso per tutti. Di conseguenza, il sociologo onesto sarà estromesso, mentre quello neutrale verrà cooptato. Ed è qui inutile discutere di buona o cattiva fede dei  singoli, visto che si tratta di meccanismi sociali di selezione delle élite scientifiche (e sociali): una «macchina» o filtro che privilegia  l’affidabilità sistemica «manifesta» dei singoli studiosi.

 

Qual è il ruolo della politica?

 

È un ruolo determinante. La politica può essere intesa come organizzazione del consenso, ma anche come conflitto e scontro, o come entrambe le attività: c’è il momento del conflitto a cui segue quello della cooperazione, che successivamente lascia spazio  a nuovi conflitti, e così via.   

All’interno di questo contesto, e per tornare all’esempio del conflitto, oggi così celebrato all’interno del capitalismo, il sociologo onesto, curiosamente, si batterà per una politica che privilegi il conflitto come strumento di «liberazione» dei più umili dalle «catene» del capitalismo. In questo modo però si rischia di  recepire e trasformare l’ideologia politica del conflitto economico, propria del capitalismo, in ideologia del conflitto politico, propria del rivoluzionarismo: per creare, ecco il paradosso, con la discesa agli Inferi della rivoluzione, o comunque attraverso un processo confuso di cui non vengono stabilite, condizioni, regole, democraticità, una società composta di «Angeli» e priva di conflitti.

Il sociologo neutrale preferirà  «naturalmente» (come non dare ormai per scontati la nascita e il tramonto, ogni giorno, del sole capitalista?), una politica che valorizzi il consenso come strumento di pace sociale, da affiancare a quello conflittuale, che già distingue l’ambito economico: per restituire con il welfare quel che il capitalismo toglie col mercato. 

Detto in breve: il sociologo onesto  pur rifiutando il conflitto economico non rinuncia a quello politico, ma elude il problema del consenso, rinviandone la soluzione al «dopo», e rendendo così le cose ancora più difficili per la classe politica che dovrà gestire il post-capitalismo; il sociologo neutrale dà per scontato il carattere politico ed economico del conflitto sociologico ma, così  facendo, non si pone il problema del «dopo»: il capitalismo è giudicato come un orizzonte non oltrepassabile, il «migliore dei mondi possibili», segnato di fatto dal giusto trade off tra conflitto e cooperazione. Insomma, normalità (capitalistica) e neutralità scientifica finiscono per essere la stessa cosa. 

Di regola, una  volta venuta meno ogni velleità rivoluzionaria, i sociologi onesti sono intercettati dalle forze riformiste, mentre quelli neutrali dalle forze conservatrici. E «utilizzati», in entrambi i casi, come  spenti ideologi del consenso nel quadro di una sempre più ripetitiva e polverosa dialettica  tra Stato e Mercato.

 

Epilogo

 

Può essere un sociologo onesto e neutrale al tempo stesso? Può essere la sociologia una «scienza» al contempo  onesta e neutrale?

L’onestà è un valore morale, concerne l’interiorità: qualcosa che si trasmette ma che richiede  predisposizione. La neutralità scientifica è invece un elemento culturale, qualcosa che si apprende studiando e scoprendo i diversi atteggiamenti, costumi, tradizioni, usi degli esseri umani: è qualcosa di esteriore che si «aggiunge» al patrimonio culturale dell’uomo nel tempo. L’onestà non si può insegnare, spesso si trasmette con l’esempio ma, se manca ogni volontà interiore, può  tradursi nel puro e semplice conformismo verso la  norma unica e categorica. La neutralità si può apprendere e, come tutto quel che viene puramente appreso, rischia però di trasformarsi in conformismo relativista: nell’ indifferenza verso  norme plurali e mai categoriche. 

Tuttavia, per tornare all’esempio del conflitto, un sociologo dovrebbe essere così onesto da dichiararsi dalla parte dei deboli, e quindi critico del capitalismo, ma anche così neutrale, da accettare la grande verità che il conflitto (come la cooperazione) in quanto «costante sociale», sarà presente anche in una società diversa da quella capitalista. E pertanto capace di ragionare in termini, come dire, idealistici-realistici. Solo così  sarà possibile captare i valori del cambiamento, ancora tutti da scoprire, e trasporli all’interno di una società priva di istituzioni capitalistiche ma in grado di gestire conflitto e cooperazione senza umiliare i deboli e privilegiare i forti. 

Ma come favorire il cambiamento evitando le illusioni del «neutralismo» scientifico e ogni compromesso  con la «politica politicante»? O peggio le scorciatoie di un attivismo «onesto» ma fine a se stesso? Weber, come abbiamo visto all’inizio, non offre alcuna soluzione: si limita ad indicare la tragicità di una condizione intellettuale segnata da una  tremenda  lotta tra onestà e neutralità, tra politica e  scienza, tra essere e dover essere, tra forza dei principi  e senso di responsabilità  scientifica.

Scegliere o  trovare una specie di sintesi, come qui suggeriamo, non è  perciò  assolutamente facile. Anche perché si tratta di  un cammino  che va ben oltre il destino della sociologia.

Ma questa è un’altra storia.