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Il nodo del debito pubblico interno

di Aldo Giannuli - 09/11/2011

Fonte: aldogiannuli


Per quanto alcuni paesi siano particolarmente esposti verso fondi sovrani stranieri o soggetti assimilabili (è il caso degli Usa nei confronti di Cina, Emirati Arabi, Giappone ecc.), la parte più consistente del debito è regolarmente posseduta da soggetti interni: banche, enti locali, fondi pensione, università, aziende, fondi comuni, singoli risparmiatori.
Un puro e semplice azzeramento avrebbe effetti negativi prevalenti su quelli positivi ed, in qualche caso effetti devastanti: si pensi solo al caso dei fondi pensione.
Per i paesi dell’area Euro, si pone un problema  di non poco conto che richiede qualche spiegazione. Classicamente, il debito pubblico si divide in due categorie:
1- il debito estero composto da quello verso altri stati e dai titoli denominati in moneta diversa dalla propria

2- il debito domestico composto dai titoli emessi in moneta propria e posseduto da singoli risparmiatori, anche non del proprio paese.

Nel caso dei titoli in valuta propria lo Stato ha sempre la possibilità di manovrare la moneta (ad esempio con la svalutazione) per ridimensionare il debito, cosa che evidentemente non può fare con i titoli denominati in valuta estera.
Si discute sulla collocazione dei titoli di debito in moneta nazionale posseduti da soggetti istituzionali stranieri (banche, assicurazioni, fondi pensione, hedge fund ecc); da un punto di vista giuridico andrebbero considerati come debito domestico, ma, dal punto di vista del concreto apprezzamento dei titoli sul mercato internazionale, le cose cambiano: lo Stato può sempre imporre (in forme più o meno costrittive) a suoi soggetti istituzionali interni di acquistare una certa quantità di suoi bond, mentre, evidentemente, non può farlo con i soggetti istituzionali stranieri. E se il singolo risparmiatore straniero ha poche armi per difendersi, i soggetti istituzionali, con il loro comportamento possono influire pesantemente sui mercati finanziari, reagendo ad una eventuale svalutazione o altra forma di ripudio, più o meno dissimulato, del debito.

I problemi si pongono in modo più complicato nel caso dei paesi dell’eurozona, i cui titoli sono denominati, appunto in euro, per cui diventa difficile stabilire se essi sono emessi in moneta nazionale (in quanto moneta corrente in ciascun paese) o estera, proprio perchè moneta comune a più stati e, dunque, non manipolabile. Per questo aspetto, è come se tutto il debito di questi stati fosse debito estero.

Ed è a partire da questa considerazioni che occorre discutere del come alleggerire il debito pubblico in riferimento alla dimensione domestica.
Uno dei problemi più delicati dell’eventuale azzeramento del debito pubblico (sollevato anche da uno dei frequentatori di questo blog) riguarda la porzione di titoli posseduta da piccoli risparmiatori interni.  Va da sè che non è socialmente accettabile una misura che penalizzi la vecchietta che ha messo da parte un po’ di risparmi o l’operaio che ha investito la sua liquidazione magari per comperare la casa al figlio che deve sposarsi o per avere risorse disponibili in caso di una malattia particolare o per simili evenienze. Nella maggior parte dei casi si tratta di risparmiatori che non hanno depositi superiori ai 50-60.000 euro e che, comunque, non vanno molto al di là di questa cifra.

Il secondo problema è rappresentato da quegli enti che hanno compiti sociali (come, appunto, i fondi pensione, gli enti locali, le università ecc.). La prima misura sarebbe quella di “discriminare” questi soggetti dagli altri, riconoscendo loro forme di garanzia sociale che mettano al sicuro in tutto o in gran parte il loro piccolo capitale. Questo porrebbe delicati problemi di ordine costituzionale. Ad esempio si potrebbe dare una garanzia di copertura sino ad una certa cifra (ad esempio 100.000 euro) ed aprire un negoziato con i creditori per la parte eccedente, ma questo risolverebbe il problema dei piccoli risparmiatori, non quello dei soggetti istituzionali, fra i quali sarebbe molto difficile discriminare quelli con compiti sociali dagli altri. Ad esempio, una cassa rurale o artigiana che gestisce il credito delle rispettive categorie, ha compiti sociali o no? E una banca popolare? La discussione potrebbe andare assai per le lunghe e sarebbe prevedibile uno sterminato contenzioso giudiziario.

Una prima misura per “sgonfiare” il debito potrebbe essere la seguente: emettere una particolare serie di bond a lunga durata (eptennali,  decennali e ventennali) a basso tasso di interesse (l’1% secco) imponendone l’acquisto forzoso ad una serie di soggetti:

- contribuenti con più di 500.000 euro di reddito annuo, in una proporzione dal 3% al 7%  per i vari scaglioni di reddito
- deputati, consiglieri regionali, sindaci di capoluoghi, amministratori pubblici ecc. nella misura di 1/3 della propria indennità ed ex parlamentari e consiglieri regionali, in ragione di 1/5 della propria pensione.
Anche le consulenze di enti locali, tribunali, ministeri, enti economici pubblici ecc., potrebbero essere pagate per un decimo con questi titoli.
- manager industriali e bancari in ragione del 3-7% per i vari scaglioni di reddito
- possessori di patrimoni superiori ai 2 milioni di euro  nella misura dell’1%
- soggetti istituzionali interni in base ai titoli di stato posseduti che, alla  loro scadenza , sarebbero automaticamente rinnovati nei nuovi titoli in misura di 1/10 del totale.

Questa misura si rivelerebbe anche più efficace della patrimoniale, sia perchè questo permetterebbe di collocare per un periodo abbastanza lungo, una considerevole parte del debito pubblico realizzando un considerevole risparmio sugli interessi, sia perchè questo contribuirebbe a calmierare il mercato dei bond, con ulteriore risparmio sugli interessi. Ma, soprattutto, consentirebbe di gestire la crisi del debito allungando i tempi e puntando sul maggiore gettito fiscale dovuto alla crescita economica.

Anche per il contribuente ci sarebbe un vantaggio: la sua “perdita” sarebbe riferita solo al differenziale fra l’interesse percepito per questi titoli e quello che avrebbe percepito investendo in titoli più redditizi (poniamo un 3-4% per investimenti a rischio medio o medio-alto), mentre il capitale gli verrebbe restituito alla scadenza.
Insomma, noi preleviamo 1.000 euro dal signor X, che però, gli restituiremo fra 7-10-20 anni (potremmo anche frazionare il prestito forzoso con titoli a scadenze differenziate), nel frattempo gli rendiamo 10 euro di interessi all’anno (contro i 40-50 che gli avrebbero reso quegli euro investiti diversamente). Per il contribuente la perdita è di 30-40 ero all’anno, ma per lo stato c’è il risparmio rispetto agli interessi che diversamente dovrebbe corrispondere e, cosa più importante, c’è lo spostamento a lungo termine dei debiti a breve nella misura di 1000 euro, cioè 20 volte di più di quello che rappresenta il risparmio di interessi.

Accanto a questa misura iniziale, si potrebbe pensare ad una serie di forme di ripudio parziale del debito domestico offrendo un ventaglio di soluzioni come ad esempio:

a- distinguendo fra debiti “redimibili” (cioè rimborsabili in toto dallo Stato, con interessi più bassi), debiti “irredimibili” (cioè a “capitale perso” per i quali lo Stato paga solo gli interessi per un determinati numero di anni da determinarsi in base all’entità della cifra base ed in misura superiore agli altri) e “misti” (cioè parzialmente “redimibili” e per il resto “sterilizzati” salvo il pagamento dei relativi interessi)
b- rinegoziando  le condizioni del debito con i creditori più “importanti” (cioè che vantino crediti superiori ai 200.000 euro) trattando un allungamento delle scadenze e una riduzione degli interessi