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Cuori nel deserto o deserto nei cuori?

di Francesco Lamendola - 09/11/2011





Molte persone si lamentano del fatto che la loro vita è simile ad un arrancare nel deserto, il deserto dell’affettività e dei sentimenti: sottintendendo, con ciò, che la causa di tale situazione risiede negli altri, nel loro inaridimento, nella loro avarizia del cuore.
E realmente, guardando alla realtà dei fatti, l’impressione è proprio quella di una desertificazione diffusa della sfera sentimentale, anzi, della stessa sensibilità; di un atteggiamento complessivamente edonista e materialista, incurante dei bisogni profondi dell’anima, a cominciare da quello dei rapporti umani e da quello, non meno importante, della bellezza, come se ci si fosse un po’ tutti ormai abituati a viverre in un mondo emotivamente freddo ed esteticamente brutto.
Quanto alla diagnosi, però, del fenomeno; quanto al fatto, cioè, che tutto questo avvenga da parte degli altri e che quanti se ne dolgono siano proprio gli unici che, incompresi e solitari, avrebbero dei tesori di sentimento da offrire e da condividere, ebbene ci sia concesso dubitare della sua giustezza e, in particolare, rilevarne l’estrema ingenuità.
Se i ritmi e le priorità della società di massa hanno prodotto un fenomeno come quello che abbiamo descritto, e la cosa ci sembra talmente palese da non abbisognare di alcuna dimostrazione, allora bisogna essere disposti a riconoscere che il male si è diffuso ovunque, sia fuori di noi, sia dentro di noi: del resto, quando mai la testimonianza di chi è parte in causa in una disputa può essere accolta ciecamente, come se fosse la verità certa e assoluta, senza bisogno di altri riscontri?
Noi siamo parte in causa; ciascuno di noi è parte di questo processo di massificazione, di omologazione e, dunque, anche di inaridimento interiore; e, anche se è verissimo che alcune persone, più sensibili di altre, ne soffrono maggiormente, è tuttavia altrettanto vero che “più sensibile” non significa, di per sé, “più consapevole”: una persona, infatti, può essere molto sensibile, ma non avere alcuna consapevolezza dei meccanismi che producono l’inaridimento del cuore e, pertanto, soggiacere alle stesse dinamiche distruttive delle altre persone.
La sensibilità, in quanto a se stessa, non è una garanzia di maggiore saggezza o di più lucido spirito critico; la sensibilità può rappresentare una marcia in più per comprendere se stessi e gli altri, ma può anche rappresentare una pesante palla al piede, un fattore di ritardo e di difficoltà, un peso morto che rende la vita più faticosa, senza illuminarla di alcuna luce benefica.
Perché la sensibilità sia un elemento di forza e non di debolezza, è necessario che sia posta al servizio dell’intelligenza e della volontà, altrimenti essa deraglia continuamente verso terreni sterili e improduttivi, affonda nel fango dell’autocompatimento, nelle sabbie mobili del vittimismo o nelle nebbie pericolosissime dell’irresponsabilità e dell’ingenuità autodistruttiva; pertanto occorre lavorare su di essa e non lasciarsene condurre a rimorchio.
L’errore più grave che possa fare una persona dotata di una ricca sensibilità è quello di permettere a quest’ultima di correre qua e là a briglia sciolta, senza freno e senza misura, senza porle degli obiettivi, senza stabilire delle regole, insomma permettendole di diventare una padrona capricciosa e tirannica, invece di essere una servitrice amorevole e fedele.
D’altra parte, non bisogna fare lo sbaglio di confondere la sensibilità con la profondità dei sentimenti e con la vera sovrabbondanza della capacità affettiva: una persona molto sensibile può anche essere superficiale, egoista, immatura, capace di fare del male agli altri ed a se stessa, per debolezza del discernimento e inconsistenza del codice etico.
Ciò di cui avvertiamo un po’ tutti il bisogno è di incontrare delle persone “calde”, ossia suscettibili di sentire ed amare in profondità, ma anche di convogliare quel di più di vita sentimentale, che esse possiedono, in forme costruttive e rispettose del mistero dell’anima, così della propria, come dell’altrui; non di persone genericamente sensibili, ma capricciose, viziate, lamentose, egoiche e assolutamente incostanti e imprevedibili.
La società moderna, essendo basata sulla tecnologia e sulle macchine, è, di sua natura, una società estremamente “fredda”: una società in cui anche per udire una voce amica occorre rivolgersi ad una macchina, un telefono; mentre i rapporti personali sono sempre più ridotti ai minimi termini dalla fretta e da quello stesso eccesso di tecnica che, in teoria, dovrebbe renderci la vita più comoda e quindi - così immagina la imperante filosofia neoilluminista - più “felice”.
In questo clima freddo ed asettico, dominato dalla velocità e dall’agitazione (basta indugiare appena un secondo o due quando il semaforo dà via libera, per farne la prova), la rete delle relazioni umane è andata progressivamente sbriciolandosi e ciascuno si è adattato a pensare solo per se stesso, illudendosi che il comportarsi da consumatore zelante e accumulando sempre più oggetti avrebbe compensato, esorcizzato o, addirittura, colmato il vuoto affettivo sempre più grande che si apre intorno alla solitudine dei singoli.
Perfino il parlare si è adattato a questa situazione artificiale, tanto è vero che moltissime persone, ormai, sembrano divenute incapaci di sostenere una vera conversazione con il prossimo, ivi compresi i membri della propria famiglia o, comunque, coloro che vivono a più stretto contatto quotidiano; certo, si parla ancora, ma si parla letteralmente di nulla, così, per abitudine: non si tratta più di un autentico conversare, cioè di un autentico scambio e di una autentica condivisione del proprio mondo interiore, ma di un semplice “flatus vocis”.
Peggio ancora, è subentrato un diffuso atteggiamento di diffidenza e di sospetto nei confronti delle parole impegnative e dei discorsi non banali, quasi che celassero un inganno nascosto, una trappola ben dissimulata; e ciò è particolarmente evidente nella conversazione fra due persone che, pure, magari desiderano approfondire la propria conoscenza, ma che resterebbero bloccate, imbarazzate e quasi contrariate da una piena sincerità, da un parlare troppo diretto.
La parola d’ordine sembra essere diventata: “cautela”; sembra quasi che vi sia un oscuro personaggio acquattato nell’ombra, pronto a ritorcere contro di noi le parole imprudentemente pronunciate con accento sincero e con assenza di precauzioni; e la stessa diffidenza, il medesimo sospetto li riserviamo alla nostra stessa anima, facendoci sordi alla sua voce più intima, alle sue richieste più autentiche, preferendo ad esse l’insulso chiacchiericcio del nostro piccolo ego che pretende di essere sempre al centro di ogni cosa.
Dunque, per superare la condizione di isolamento e di progressivo inaridimento affettivo della società in cui viviamo, la prima cosa da fare è quella di fare silenzio in noi stessi e riscoprire la facoltà dell’ascolto: perché solo ascoltando si impara e solo obbligando al silenzio il proprio piccolo ego si incomincia a sentire la voce autentica che sale dalle profondità dell’anima e ci chiede di essere accolta e tenuta nella debita considerazione.
Ora, solo quando si incomincia a riconoscere la propria voce interiore, o meglio, la voce del proprio maestro interiore, che è come dire la voce della chiamata, si diviene capaci di gettare un ponte verso gli altri e si trasformare le parole da vuoto chiacchiericcio in una autentica corrispondenza d’anime, in un autentico scambio di verità profonde e in una autentica condivisione dei rispettivi bagagli esistenziali.
Senza di ciò, le anime non comunicano, ma, tutt’al più, credono di farlo; e non comunicano per il semplice fatto che non hanno imparato ad aprire la porta per far entrare l’aria fresca, ma eternamente, ossessivamente girano intorno al proprio piccolo ego, subiscono le sue imposizioni e i suoi ricatti, si lasciano confondere dalle sue continue, inutili richieste di beni superflui e di dominio sulle cose e sulle persone o, il che è lo stesso, dalle sue inutili paure.
La causa fondamentale della desertificazione del paesaggio sociale è da ricercarsi nella dimenticanza della propria dimensione più autentica, nell’ignoranza dei suoi veri bisogni, nella incapacità di interrogarla onestamente e costruttivamente; è cosa fin troppo comoda scaricare indefinitamente ogni colpa sul mondo esterno, sulla cattiva volontà del prossimo, sulla spietata durezza dei rapporti economici ovunque imperante.
Beninteso, questi ultimi fattori esistono e non sono certo ininfluenti; ma guai a scambiare la causa con l’effetto: essi sono l’effetto e non già la causa del nostro progressivo inaridimento, della nostra crescente desertificazione spirituale; è da essi che procede la desertificazione della società.
In altre parole, il deserto è dentro di noi, prima ancora che nella società; ed è nella società, perché si sta estendendo progressivamente dentro di noi.
Abbiamo lasciato che le sabbie avanzassero giorno per giorno e cancellassero i fiumi, riempissero i laghi, seppellissero le oasi e le città; siamo stati a guardare mentre tutto questo accadevo, oppure eravamo talmente distratti, talmente immersi in cose che ci sembravano più importanti, che non ce ne siamo neanche resi conto.
Avremmo dovuto accorgercene per tempo: erano le verdi praterie della nostra anima, quelle che sparivano, a poco a poco, sotto l’avanzare delle dune sabbiose; erano le chiare sorgenti e le fresche correnti della nostra umanità che s’inaridivano poco alla volta, lentamente ma inarrestabilmente, come davanti a un esercito invasore che penetra di soppiatto e rovescia silenziosamente le rocche più munite, atterra le fortezze, espugna i capisaldi.
E invece non ce ne siamo accorti, o non vi abbiamo attribuito importanza; erano altre le nostre priorità: il possesso delle cose, il prestigio sociale, il successo: e intanto la sabbia ha ricoperto tutto, un granello dopo l’altro, fino a soffocare e disseccare la nostra parte migliore.
Ora vorremmo cavarcela attribuendo ogni responsabilità agli altri, accusandoli di quella stessa distrazione, di quella stessa insensibilità che dovremmo rimproverare a noi, se volessimo essere almeno un poco equanimi.
Il rimedio, se non è già troppo tardi, non può essere che quello di praticare la strada opposta a quella sin qui percorsa: riportare l’acqua nel deserto, ripulire il letto dei fiumi, liberare il verde delle oasi, scavare dei pozzi, irrigare la sabbia e impiantarvi campi e  giardini fioriti, dedicandovi cure assidue, incessanti, come quelle che si prodigano ad un bambino piccolo, che non sa ancora provvedere a se stesso.
E poi, dopo aver duramente lavorato, senza risparmiare il sudore della fronte, non bisogna fondarsi sulle proprie forze puramente umane, ma confidare nell’aiuto e nel sostegno di una Forza più grande di noi, giudice imparziale delle nostre debolezze e delle nostre cadute, ma anche del nostro sincero anelito alla verità, alla bontà e alla bellezza.
Solo così potremo sperare di ritrovare il nostro cuore di carne, divenuto di pietra; solo così potremo riallacciare un vero dialogo con noi stessi e con gli altri, restituendo bellezza e significato alle relazioni umane, all’amicizia, all’amore.
Come dice stupendamente il profeta Isaia, in uno dei passi più ispirati del suo libro, che è esso stesso un capolavoro assoluto di poesia (35, 1-10):

«Si rallegrino il deserto e la terra arida
Esulti e fiorisca la steppa.
Come fiore di narciso fiorisca;
sì, canti con gioia e con giubilo.
Le è data la gloria del Libano,
lo splendore del Carmelo e di Saròn.
Essi vedranno la gloria del Signore,
la magnificenza del nostro Dio.
Irrobustite le mani fiacche,
rendete salde le ginocchia vacillanti.
Dite agli smarriti di cuore:
“Coraggio! Non temete;
ecco il vostro Dio,
giunge la vendetta,
la ricompensa divina.
Egli viene a salvarvi.
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
E si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo,
griderà di gioia la lingua del muto,
perché scaturiranno le acque nel deserto,
scorreranno torrenti nella steppa.
La terra bruciata diventerà una palude,
il suolo riarso si muterà in sorgenti d’acqua.
I luoghi dove si sdraiavano gli sciacalli
Diventeranno canneti e giuncaie.
Ci sarà una strada appianata
E la chiameranno Via santa;
nessun impuro la percorrerà
e gli stolti non vi si aggireranno.
Non ci sarà più il leone,
nessuna bestia feroce la percorrerà,
vi cammineranno i redenti.
Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore
E verranno in Sion con giubilo;
Felicità perenne splenderà sul loro capo;
gioia e felicità li seguiranno
e fuggiranno tristezza e pianto.»