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Costruito a blocchi alternati, L'arte francese della guerra si avvale di un narratore e di un ex combattente. L'uno ha bisogno dell'altro, perch´ l'azione di per s´ è un linguaggio senza parole, e però ogni racconto ha bisogno di un'azione che lo rappresenti. Il primo è giovane, infelice, insicuro: è figlio della «Prima Repubblica di Sinistra», quella che «si occupava di tutto; si occupava di tutti». Aveva un bell'appartamento, una bella moglie, un buon lavoro, «tre volti di un unico reale, tre aspetti della stessa vittoria: il bottino della guerra sociale. Siamo ancora dei cavalieri sciiti. Il lavoro è la guerra, il mestiere l'esercizio della violenza, la casa un fortino e la donna una preda portata via di traverso la sella di un cavallo. Siamo cavalieri sciiti, la vita è una conquista: non descrivo una visione del mondo, enuncio una verità calcolata. Guardate quando tutto sprofonda, guardate in quale ordine sprofonda. Quando l'uomo perde il suo lavoro e non lo ritrova, gli si porta via la casa, e la sua donna lo lascia». Questa guerra sociale lui l'ha perduta, o meglio, a un certo punto ha smesso di combatterla e ora si lascia vivere.
L'ex combattente è vecchio, ha partecipato alla resistenza e poi è stato in Indocina e in Algeria, è un reduce della «guerra dei vent'anni, la guerra mal cominciata e mal finita, una guerra balbuziente che forse dura ancora. La guerra era costante, si infiltrava in tutti i nostri atti, ma nessuno lo sa. L'inizio è nebbioso: il '40 o il '42, si può discutere, ma la fine è netta: '62, non un anno di più. E subito si è fatto finta che non fosse successo nulla. Il silenzio dopo la guerra è sempre la guerra. Non si può dimenticare ciò che ci si sforza di dimenticare».
Victorien Salagnon, questo è il suo nome, sa dalla lettura dell'Iliade «che l'eroe può non essere buono», non gli si chiede di essere buono, e da quella dell'Odissea ha appreso la storia di «un uomo che cerca di tornare a casa, ma non trova la strada. E mentre erra a tentoni nel mondo, in patria tutto è preda delle ambizioni sordide, del calcolo avido, del saccheggio. Quando alla fine torna, fa pulizia grazie all'atletismo della guerra. Sbarazza, pulisce, mette ordine». È un guerriero, Salagnon, e sa che «la guerra è semplice. La forma più semplice della realtà». Ma sa anche che «la forza non si dà mai torto: quando fallisce si crede sempre che con un po' più di forza si sarebbe riusciti. La forza non capisce mai nulla e quelli che l'hanno usata contemplano il loro fallimento con malinconia, sognano di ricominciare». Ufficiale paracadutista, Salagnon in guerra ha anche continuato a disegnare e questo lo ha aiutato: vedere è ricordare, non trasformarsi in semplice strumento di morte.
L'arte francese della guerra racconta di una nazione che «ha un modo molto dolce di agonizzare e un modo brutale di essere salvata».Ma, dice ancora Jenni, la natura della Francia è anche la sua lingua «è lei il sangue che si trasmette e che ci nutre. Ci nuotiamo dentro e qualcuno dentro ci ha cacato. Non osiamo più aprire la bocca per paura di inghiottire qualche stronzo verbale. Tacciamo. Non viviamo più. La lingua è un movimento puro, come il sangue. Quando si immobilizza, come il sangue, coagula. Si muore soffocati, si muore di ostruzione, di un silenzio chiassoso abitato di gorgoglii e di furori repressi. La Francia è questo modo di morire». Jenni racconta la militarizzazione più o meno mascherata di un Paese nel nome dell'ordine sociale minacciato e insieme l'ipocrisia di una nazione, retorica nella sua triade puramente verbale di libertà-eguaglianza-fraternità, pronta a scaricare sui militari il peso di guerre volute dai politici e incapace però di trovare politicamente un'alternativa all'uso della forza. Senza onore n´ gloria.