Chi comanda in Italia? Un secolo fa Vilfredo Pareto avrebbe risposto, nel suo appuntito lessico liberista, le “plutocrazie” (“demagogiche”, se di sinistra). Ortiche velenose cresciute all’ombra di un protezionismo imposto dalla politica… Pareto però ignorava che nell’Italia del primo Novecento il “decollo” economico era appena iniziato. E le “plutocrazie”, certo contavano, ma la politica, in senso alto, contava ancora di più. Quale politica? Quella impersonata da Giolitti, e da una preparata classe di ministri, funzionari, ingegneri, professori. Un ceto politico-amministrativo che giocava un ruolo fondamentale, decidendo di tariffe, ferrovie, cantieri navali e imprese coloniali. Lo scopo era favorire la crescita, attraverso un giusto dosaggio di protezionismo e moderato liberismo. Non aveva il pedigree della classe dirigente dell’Inghilterra Vittoriana, ma assolveva, e spesso bene, il suo dovere.
E oggi? E’ difficile dire. Anche dopo aver letto l’interessante libro di Giancarlo Galli, Poteri deboli. La nuova mappa del capitalismo nell’Italia in declino (Mondatori, Milano 2006, pp. 296, euro 18,00). L’autore, noto giornalista e scrittore, è ben addentro alle cose economiche. Scrive con misura. Ma non fa sconti a nessuno, lui, cattolico, neppure alla finanza bianca. E malgrado il sottotitolo non è un catastrofista. Ma guarda con realismo al futuro economico dell’Italia. E se proprio di declino si deve parlare, per Galli si tratta di declino morale.
Ma perché è difficile rispondere? Probabilmente perché, come per le Torri Gemelle, dove prima c’erano i poteri forti di un’economia a capitalismo familiare, i due kamikaze della globalizzazione borsistica e dell’ arrembante economia cinese, hanno lasciato solo macerie. Tra le quali si aggirano, frastornati e impolverati, i superstiti che si contendono furiosamente mezza bottiglietta d’acqua. Ma lasciamo la parola a Galli. “L’impressionante vuoto di potere accomuna infatti i cosiddetti Poteri forti dell’economia (stracarichi di debiti) al ceto politico retorico, bizantinamente rissoso, in verticale perdita di credibilità. Sindacati padronali e dei vari lavoratori sono a loro volta divenuti corporazioni egoiste e autoreferenziali. Financo la gloriosa Banca d’Italia è sotto tiro, al pari delle banche che avrebbero dovuto controllare meglio, per impedire quelle disinvolture finanziarie (bond argentini, Cirio, Parmalat), che hanno tosato umiliandolo, il risparmio di milioni di italiani”(…). La carta stampata controllata non da editori puri, ma da ‘signori’ che portano i nomi di Fiat, De Benedetti, Caltagirone, assicuratori e banchieri. Nemmeno riusciamo a stupirci che il più diffuso quotidiano economico, “Il sole-24 Ore” sia di proprietà delle Confindustria” .
Fin qui Galli. Se però torniamo indietro di cento anni, scopriamo un fatto: che la differenza, tra ieri e oggi, è nella qualità della classe dirigente. Infatti il ceto politico e amministrativo formatosi a inizio secolo con Giolitti, o comunque in quel clima (alto senso dello Stato), e poi captato dal fascismo (ad esempio Beneduce, messo a capo del Iri, aveva formazione nittiana), si è poi andato esaurendo per ragioni anagrafiche, dopo un’ultima fiammata nel primo decennio del secondo dopoguerra. Periodo che coincide con l’avvio del secondo decollo economico italiano. Dopo di che, dalla fine degli anni Cinquanta a Tangentopoli, il vuoto… Nessuno si è più preoccupato di sostituire la vecchia con una nuova classe politica e amministrativa, dotandola soprattutto dello stesso senso della funzione pubblica.
Perciò alle origini della crisi attuale c’è l’assenza di un ceto politico e dirigente. Senza il quale non sarà possibile affrontare, come si dice, le sfide della globalizzazione. Si tratta di un elemento che anche Galli coglie, ma che non mette in relazione con quella che è la storia delle classi dirigenti pubbliche nel Novecento. E dove il quindicennio giolittiano gioca un ruolo formativo importantissimo. Come lo gioca in senso negativo il trentennio che va dal centrosinistra a Tangentopoli. Anni in cui partitocrazia e clientelismo hanno offuscato se non cancellato del tutto, anche nei dirigenti più motivati, ogni senso dello Stato.
A dire il vero, Galli, mostra di non nutrire stima neppure nella classe dirigente privata, soprattutto in quella, che ha dato il peggio di sé anche prima di Tangentopoli… Ed è pure consapevole che questo vuoto non poteva essere colmato, da quella generazione di economisti, studiosi e imprenditori, di tradizione azionista, che Galli comunque rispetta, formatisi, durante e dopo il fascismo, intorno a Raffaele Mattioli e poi Mediobanca di Cuccia. Pochi, elitari e troppo diversi per forma mentis (protestantesimo versus cattolicesimo), da una classe politica dedita soprattutto a lottizzare e compiacere un capitalismo familiare, preoccupato non di crescere, ma solo di conservare titoli, azioni e denaro. Per trasmetterle agli eredi, a cominciare dalla Fiat.
In questo vuoto, Galli, colloca quella specie di guerra per bande, fra politici dimezzati e gretti plutocrati, oggi in atto: tra Roma e Milano, tra finanzia laica, finanza bianca e rossa, tra post-comunisti, post-liberali, post-tutto. In un contesto dove nessuno sembra curarsi dell’Italia in quanto tale. Ma in cui sono tutti pronti a perseguire interessi economici, finanziari e politici particolari. I poteri sono deboli perché divisi, ma non per questo meno rapaci.
Il lato “cronachistico” del libro, è ricco di istruttivi aneddoti sui protagonisti dell’economia e della politica. Si ricostruisce, con grande efficacia, l’ ascesa e caduta della Fiat, di Calisto Tanzi, del Governatore Fazio. Ma anche le difficoltà oggettive incontrate da tutti i governi postTangentopoli per combattere il vero nemico dell’Italia: “ ‘Il Centro, ovvero la mitizzata area del compromesso, del non decisionismo, che né Tangentopoli né un embrione di bipartitismo sono riusciti a sconfiggere” .
Ma il vero punto della questione non è che i politici in futuro debbano tornare a fare i politici, i banchieri i banchieri, gli industriali gli industriali, come sostiene Galli. Il quale crede forse troppo nel ruolo taumaturgico di un specie surplus etico, capace di motivare politici, banchieri, eccetera. Certo, la consapevolezza del proprio ruolo sociale, è importante. Così come non può essere trascurato l’apporto dell’ etica delle professioni. Ma quel che andrebbe fatto, e subito, è avviare un processo formativo: occorre far crescere un nuovo ceto dirigente di funzionari, professori, tecnici, motivati e capaci di ridare dignità alla politica e all’amministrazione. E il discorso, non riguarda solo l’università e la ricerca. Ma la necessità di affrontare finalmente il tema delle grandi scuole di formazione quadri. Istituzioni, si pensi allo storico modello francese, che richiedono risorse, tempi lunghi, impegno da parte di docenti e studenti. Ma dalle quali nell’arco di una generazione, può venire fuori la futura classe dirigente e amministrativa.
Un ceto ben dotato di senso dello Stato, capace di mettere fine, in nome dell’ interesse superiore, alla guerra per bande, così ben ricostruita e criticata nel libro di Giancarlo Galli, con una verve e una finezza, degne di Pareto. Ma purtroppo anche di ben altre “plutocrazie”…
E oggi? E’ difficile dire. Anche dopo aver letto l’interessante libro di Giancarlo Galli, Poteri deboli. La nuova mappa del capitalismo nell’Italia in declino (Mondatori, Milano 2006, pp. 296, euro 18,00). L’autore, noto giornalista e scrittore, è ben addentro alle cose economiche. Scrive con misura. Ma non fa sconti a nessuno, lui, cattolico, neppure alla finanza bianca. E malgrado il sottotitolo non è un catastrofista. Ma guarda con realismo al futuro economico dell’Italia. E se proprio di declino si deve parlare, per Galli si tratta di declino morale.
Ma perché è difficile rispondere? Probabilmente perché, come per le Torri Gemelle, dove prima c’erano i poteri forti di un’economia a capitalismo familiare, i due kamikaze della globalizzazione borsistica e dell’ arrembante economia cinese, hanno lasciato solo macerie. Tra le quali si aggirano, frastornati e impolverati, i superstiti che si contendono furiosamente mezza bottiglietta d’acqua. Ma lasciamo la parola a Galli. “L’impressionante vuoto di potere accomuna infatti i cosiddetti Poteri forti dell’economia (stracarichi di debiti) al ceto politico retorico, bizantinamente rissoso, in verticale perdita di credibilità. Sindacati padronali e dei vari lavoratori sono a loro volta divenuti corporazioni egoiste e autoreferenziali. Financo la gloriosa Banca d’Italia è sotto tiro, al pari delle banche che avrebbero dovuto controllare meglio, per impedire quelle disinvolture finanziarie (bond argentini, Cirio, Parmalat), che hanno tosato umiliandolo, il risparmio di milioni di italiani”(…). La carta stampata controllata non da editori puri, ma da ‘signori’ che portano i nomi di Fiat, De Benedetti, Caltagirone, assicuratori e banchieri. Nemmeno riusciamo a stupirci che il più diffuso quotidiano economico, “Il sole-24 Ore” sia di proprietà delle Confindustria” .
Fin qui Galli. Se però torniamo indietro di cento anni, scopriamo un fatto: che la differenza, tra ieri e oggi, è nella qualità della classe dirigente. Infatti il ceto politico e amministrativo formatosi a inizio secolo con Giolitti, o comunque in quel clima (alto senso dello Stato), e poi captato dal fascismo (ad esempio Beneduce, messo a capo del Iri, aveva formazione nittiana), si è poi andato esaurendo per ragioni anagrafiche, dopo un’ultima fiammata nel primo decennio del secondo dopoguerra. Periodo che coincide con l’avvio del secondo decollo economico italiano. Dopo di che, dalla fine degli anni Cinquanta a Tangentopoli, il vuoto… Nessuno si è più preoccupato di sostituire la vecchia con una nuova classe politica e amministrativa, dotandola soprattutto dello stesso senso della funzione pubblica.
Perciò alle origini della crisi attuale c’è l’assenza di un ceto politico e dirigente. Senza il quale non sarà possibile affrontare, come si dice, le sfide della globalizzazione. Si tratta di un elemento che anche Galli coglie, ma che non mette in relazione con quella che è la storia delle classi dirigenti pubbliche nel Novecento. E dove il quindicennio giolittiano gioca un ruolo formativo importantissimo. Come lo gioca in senso negativo il trentennio che va dal centrosinistra a Tangentopoli. Anni in cui partitocrazia e clientelismo hanno offuscato se non cancellato del tutto, anche nei dirigenti più motivati, ogni senso dello Stato.
A dire il vero, Galli, mostra di non nutrire stima neppure nella classe dirigente privata, soprattutto in quella, che ha dato il peggio di sé anche prima di Tangentopoli… Ed è pure consapevole che questo vuoto non poteva essere colmato, da quella generazione di economisti, studiosi e imprenditori, di tradizione azionista, che Galli comunque rispetta, formatisi, durante e dopo il fascismo, intorno a Raffaele Mattioli e poi Mediobanca di Cuccia. Pochi, elitari e troppo diversi per forma mentis (protestantesimo versus cattolicesimo), da una classe politica dedita soprattutto a lottizzare e compiacere un capitalismo familiare, preoccupato non di crescere, ma solo di conservare titoli, azioni e denaro. Per trasmetterle agli eredi, a cominciare dalla Fiat.
In questo vuoto, Galli, colloca quella specie di guerra per bande, fra politici dimezzati e gretti plutocrati, oggi in atto: tra Roma e Milano, tra finanzia laica, finanza bianca e rossa, tra post-comunisti, post-liberali, post-tutto. In un contesto dove nessuno sembra curarsi dell’Italia in quanto tale. Ma in cui sono tutti pronti a perseguire interessi economici, finanziari e politici particolari. I poteri sono deboli perché divisi, ma non per questo meno rapaci.
Il lato “cronachistico” del libro, è ricco di istruttivi aneddoti sui protagonisti dell’economia e della politica. Si ricostruisce, con grande efficacia, l’ ascesa e caduta della Fiat, di Calisto Tanzi, del Governatore Fazio. Ma anche le difficoltà oggettive incontrate da tutti i governi postTangentopoli per combattere il vero nemico dell’Italia: “ ‘Il Centro, ovvero la mitizzata area del compromesso, del non decisionismo, che né Tangentopoli né un embrione di bipartitismo sono riusciti a sconfiggere” .
Ma il vero punto della questione non è che i politici in futuro debbano tornare a fare i politici, i banchieri i banchieri, gli industriali gli industriali, come sostiene Galli. Il quale crede forse troppo nel ruolo taumaturgico di un specie surplus etico, capace di motivare politici, banchieri, eccetera. Certo, la consapevolezza del proprio ruolo sociale, è importante. Così come non può essere trascurato l’apporto dell’ etica delle professioni. Ma quel che andrebbe fatto, e subito, è avviare un processo formativo: occorre far crescere un nuovo ceto dirigente di funzionari, professori, tecnici, motivati e capaci di ridare dignità alla politica e all’amministrazione. E il discorso, non riguarda solo l’università e la ricerca. Ma la necessità di affrontare finalmente il tema delle grandi scuole di formazione quadri. Istituzioni, si pensi allo storico modello francese, che richiedono risorse, tempi lunghi, impegno da parte di docenti e studenti. Ma dalle quali nell’arco di una generazione, può venire fuori la futura classe dirigente e amministrativa.
Un ceto ben dotato di senso dello Stato, capace di mettere fine, in nome dell’ interesse superiore, alla guerra per bande, così ben ricostruita e criticata nel libro di Giancarlo Galli, con una verve e una finezza, degne di Pareto. Ma purtroppo anche di ben altre “plutocrazie”…