L’armonioso fine
di Miro Renzaglia - 29/06/2006
Sandro Giovannini è nato a Pesaro nel 1947. Poeta, saggista, critico, nel 1979 ha fondato il Movimento Poesia Tradizione Vertex. Nel 1985 ha fondato la Heliopolis Edizioni. Nel 1997 ha fondato la rivista Letteratura-Tradizione. È autore di Atemporale, E.C.D.P., 1985.
Sandro Giovannini, L’armonioso fine, Società Editrice Barbarossa, 2005 - € 20,00
Che un fine possa essere armonioso; che si possa, cioè, arrivare ad una méta che armonizzi, in-fine, le mille e cento e una spinta, spesso in reciproca contraddizione, che agitano il nostro attrevarsamento, terreno e ideale, intellettuale e metafisico è cosa che chiunque si augurerebbe per sé o per le persone a lui più care. E questo è un conto. Un altro conto è riuscire a realizzarlo effettivamente. Sandro Giovannini ci prova. Non dico che lo realizzi - gli farei torto - ma sicuramente i suoi sforzi intellettuali vanno tutti in quella direzione armonica. E armonizzatrice. 35 saggi, che coprono l’arco di una riflessione quasi trentennale, sono lì a testimoniarlo nella raccolta che li comprende: “L’armonioso fine”, appunto.
Dicevo che farei torto a Sandro Giovannini se affermassi che nel libro sono contenuti i formulari esatti e matematici per addivenire al suo auspicio in titolo. Lo conosco troppo bene per non essere avveduto del fatto che il primo a coglionarmi sarebbe proprio lui: “Ma come - mi direbbe - ci conosciamo da vent’anni e tu mi vai a spacciare per un millantatore di verità acquisite? Quante volte ti devo dire che la verità è nella ricerca e che nella ricerca è l’unica verità?”. Siccome - appunto - lo conosco troppo bene, mi guarderò altrettanto bene dal cadere in errore. E perciò affermo: Sandro Giovannini va preso esattamente per quello che è: un viandante che, in mezzo del cammin di sua vita (non solo intellettuale), riavvolge con una puntigliosità, non in molti altri casi rintracciabile, il filo di Arianna che lo ha condotto a essere quello che è: un’anima in cerca. Un’anima che non si è mai stancata e - ne sono certo - non si stancherà mai di cercare.
35 saggi divisi in tre sezioni: la prima (assai teoretica): Patria e stile; la seconda (fluttuante fra cognito e incognito metateorico): Icone della nostra tebaide; la terza L’infinito nell’amore, fra stilo e stilo, dove il discorso “alto” scende alle esperienze del nostro (oltre che del suo) essere in atto. Il tutto intrecciato in un cavo dai molti nodi. Il primo dei quali - detto in via spicciola - è quel poundiano concetto di maschera-personae delle quali l’autore si serve per tirare fuori il suo essere-in-sé Non (solo in carne e sangue e non solo in sé). Voglio dire: da Berto a Gadda, da Benn a Elidae, da Cioran a Noica, da Pound a Mishima, dalla Youecenar a Jünger, da Bataille a Cristina Campo, da Brasillach a Derrida, da Jean Cau e Evita Peron, da Noica a Namaziano a Drieu La Rochelle, l’Autore non esegue ritratti ma incarna in essere ed intelletto gli assunti di quegli immortali per rappresentarsi in atto e in suo. Inserirsi in un “filo-logico che un po’ all’indicibile allude” (come ebbe a esternare, immodestamente, il sottoscritto) significa collocarsi in quella tradizione di pensiero che disdegna l’originalità a tutti i costi, così invisa a Maestro Pound, ma che nemmeno ripiega su se stessa. Anzi: sa bene portarsi oltre, senza attendere e nemmeno auspicare messianiche tabulae rase. E Giovannini lo fa con un’intuizione di cui non si può non ascrivergliene il merito.
Un’intuizione, dicevo. E preciso: trattasi del concetto di dépense che è, al tempo stesso il nodo primo del filo riavvolto e il nervo padre del discorso che si spiega e che va rintracciato, come messa a punto esplicativa, nel saggio “Su il limite dell’utile di Bataille”. Dépense è lo spreco, lo spendersi senza utile tornaconto, il disutile che svincola il concetto di sé dalle noie mortali del servire e del dipendere.
E mi spiego. Se qualcuno chiedesse: “A cosa serve la poesia? A cosa serve la filosofia?”, L’unica risposta che sarebbe lecito dare è una sola e identica per entrambe le domande: a niente. Non servire a niente è la più alta manifestazione di libertà concepibile. Che riguardi la poesia, la filosofia o l’uomo stesso fa poca differenza. Ma, qui, bisogna intendersi. E non nego che, pur essendo convinto che, a quelle domande, io e Sandro Giovannini esprimeremmo la stessa identica risposta (“a niente”, appunto) , forse ci troveremmo in disaccordo sui contenuti e sui limiti da dare a quel “niente”. Io, per niente, intendo proprio l’annullamento di ogni pretesa: faccio quel che faccio e che posso, e non me ne frega niente dell’armonioso fine. Lui, invece, eleverebbe, come fa nel titolo, l’armonia a fine del non servire, dell’essere inutile. O del disutile, se volete. Probabilmente ha ragione lui. Lo dico sinceramente. E, in fondo a guardare bene, le differenze di prospettiva non sono, fra noi, così inconciliabili. Volendo il niente, il niente alla fine ci comprenderà, se ci comprenderà, in un’armonia che eliderà qualsiasi dissonanza; qualsiasi (vera o presunta) distonia. Nichilismo di entrambi? Ma sì, forse. Ma chi è che diceva che per superare il nichilismo bisogna lasciare che ci attraversi l’anima? Nietzsche, forse?
Poi, c’è l’aspetto non secondario dello stile della scrittura. Chi pensa che per scrivere un saggio ci sia solo bisogno di avere le idee chiare, forse ignora che il chiaro pensiero deve essere sostenuto da un’adeguata forma di espressione. Da uno stile, quindi. E qui corre l’obbligo sapere che i poeti sono veramente dei maniaci. Loro spendono (dépense) notti e notti su di un verso per stabilire se l’inserimento, l’elisione o lo spostamento di una virgola amplifichi o riduca la portata del detto. Chi si logora il cervello in equilibrismi del genere, poi, ineluttabilmente, non si libera della sua paranoia nemmeno quando deve scrivere un biglietto di auguri natalizi. Figuratevi se si mette a scrivere un saggio. Sandro Giovannini, poeta, non sfugge a questa regola, sfido chiunque, a molte dell 300 pagine del libro, a rinvenire un paragrafo, ma che dico? Una frase buttata lì per caso o do non feconda bellezza. Se si è poeti lo si è in qualsiasi circostanza e, spesso, anche al di là della parola scritta. Come diceva Benn: “Lo stile è superiore alla verità: reca in sé la prova dell’esistenza”. Uno stile di vita non è qualcosa d’altro dallo stile di scrittura (o da altra apllicazione umana). Lo stile è uno. E ognuno si forgia il suo da sé, se ce la fa. Giovannini ce la fa.
A me non piacciono i piatti unici. E ovviamente, tanto meno i fast-food. Ecco, se non avete vogliadi sedervi in una tavola apparecchiata in “Grande Stile” e fornita di ogni ben di dio (intellettualmente inteso), potete pure evitare di recarvi alla mensa del L’Armonioso Fine: a voi un Mc Donald’s del sentito dire basta e avanza. Ma se non vi accontentate del mordi e fuggi, sappiate che lì, nel libro di Giovannini, avrete da assaggiare svariate pietanze. E che vi servirà molto tempo per giungere alla torta nuziale, dove la scrittura, nobile di pensiero, promette di non tradire.