Il capitalismo oggi: dalla proprietà al conflitto strategico*
di Gianfranco La Grassa - 29/06/2006
[…] Il mio intento principale, come in altri lavori precedenti, sarà la decostruzione della teoria marxista nelle sue diverse varianti; tuttavia con la sostituzione del concetto di conflitto strategico a quello di proprietà (dei mezzi di produzione), indicherò per sommi capi le linee direttrici della possibile ricostruzione di una teoria critica della formazione sociale a modo di produzione capitalistico; una teoria che pagherebbe comunque il dovuto tributo al marxismo da cui deriverebbe, ampliando però decisamente la portata conoscitiva di quest’ultimo e ponendo in luce, senza ulteriori indugi, i suoi lati ormai deboli e irrimediabilmente decrepiti.
Una delle decisive questioni affrontate è quella che pongo da oltre un decennio ormai, relativamente alla stadialità o ricorsività attribuita allo sviluppo del capitalismo. La prima tesi ha improntato tutte le correnti del marxismo, sia «orto» che «eterodosse». L’imperialismo come ultima fase del capitalismo (Lenin), il capitalismo di Stato come ultimo gradino di questa formazione sociale oltre il quale vi è solo la possibilità (e necessità) di passare al socialismo (Engels, Kautsky e Lenin), il capitalismo «maturo» o lo Stato come ultimo baluardo del potere capitalistico (le tesi prevalenti tra gli anni ’60 e ’80 del novecento), le più recenti tesi – di gran lunga peggiori di tutte le precedenti – che sostengono l’esaurimento delle funzioni degli Stati nazionali e un diffuso scontro generalizzato tra capitale (tradizionale) e masse o moltitudini prive di qualsiasi struttura relazionale interna. Da più di un secolo vengono sempre supposti ultimi stadi capitalistici con una crescente perdita di consistenza teorica; oggi, siamo infine giunti al chiacchiericcio confuso e pasticcione dei pensatori tesi soltanto ad avvolgere in una spessa cortina fumogena ogni interpretazione critica del capitalismo, in modo da impedirle di ricominciare a pensare le strategie di un reale scontro tra dominanti e dominati, tra decisori e non decisori, che miri alla fuoriuscita da una società capace di produrre in misura crescente morte e miseria, devastazioni fisiche e morali, imbarbarimento e abbrutimento, apatia e violenza, ottundimento del sentire e dell’intelligenza.
Assieme alla studiosa e amica Maria Turchetto, almeno a partire dal 1980, ho criticato a fondo le tesi della stadialità per sostenere invece quelle di una ricorsività ciclica dello sviluppo capitalistico. Tuttavia, anche le ricorsività debbono essere qualificate per non cadere nella tentazione di fare della storia capitalistica una serie di ripetizioni del già presentatosi, senza autentici sviluppi e modificazioni interne. Come sostenuto da tempo dall’altro studioso e amico, con cui ho lavorato negli ultimi anni, Costanzo Preve, siamo oggi (e già da tempo) in presenza di un capitalismo non borghese; cioè di un capitalismo senza borghesia e senza proletariato, senza cioè le due classi fondamentali e decisive il cui scontro definitivo era pensato dal marxismo classico come quello che avrebbe condotto alla rivoluzione e alla transizione verso il socialismo e comunismo.
È ovvio che se si continua a parlare di formazione sociale a modo di produzione capitalistico, è necessario individuare in quest’ultima alcune costanti che ne connotino la natura; e di tali costanti vi sono modulazioni che si presentano appunto con andamento ricorsivo. Ciononostante, è indubbio che le forme di realizzazione delle stesse sono storicamente sempre mutevoli. Tali forme rappresentano dunque fasi di sviluppo della formazione sociale in oggetto; e tuttavia, non vi è un’ultima (o suprema) fase che indichi l’impossibilità di un suo ulteriore sviluppo, un suo urtare contro una barriera ormai invalicabile, per cui si debba pensare alla necessaria trasformazione e transizione ad una nuova società, e per di più sicuramente di tipo socialista e poi comunista. Le forme di realizzazione delle varie fasi indicano, per quanto possiamo finora comprendere, epoche storiche di passaggio interne allo sviluppo del modo di produzione capitalistico; e queste fasi presentano, accanto a novità certo rilevanti, anche l’alternanza (ricorsività) di date strutture di rapporti sociali, di determinati blocchi sociali, con particolare riferimento a quelli da me indicati come dominanti (o decisori).
Il nodo cruciale della mia elaborazione, da ormai alcuni anni, sta nella sostituzione – quale concetto centrale, attorno a cui ritessere la trama relazionale costituente il modo sociale di produzione capitalistico – del conflitto tra strategie (interdominanti) alla proprietà (privata) capitalistica dei mezzi di produzione. Le strategie di conflitto – sempre presenti in ogni epoca della società umana, ma penetrate all’interno della sfera economica di quest’ultima nella transizione al capitalismo – sono decisive per quanto concerne la dinamica e il mutamento delle diverse formazioni sociali. In quelle precapitalistiche, dinamica e mutamento legati al conflitto riguardavano specificamente le sfere «sovrastutturali» (politica e ideologia-cultura); anche il lento progresso tecnologico dei processi produttivi era, per molte vie, influenzato dal conflitto «sovrastrutturale». Nella formazione sociale capitalista, il conflitto penetra nella «base», nella sfera economico-produttiva, spezza e frammenta incessantemente quest’ultima, generalizzando le forme di merce e di valore – dunque l’uso della moneta – e dando nel contempo forte impulso allo sviluppo delle forze produttive tramite accelerato progresso tecnico-scientifico.
Secondo l’impostazione del problema da me scelta, in ogni forma di società il conflitto più acuto e permanente è quello che si svolge tra classi (e frazioni di classi) dominanti; per meglio combatterlo, esse si appropriano del plusprodotto dei dominati, che è dunque mezzo fondamentale per la conduzione dello stesso. Nelle società precapitalistiche, il lento progresso delle forze produttive può creare strozzature al conflitto interdominanti, che esaurisce talvolta dette forze e indebolisce l’intera struttura sociale. Ciò diventa praticamente impossibile nella società a modo di produzione capitalistico, dove al contrario tale struttura si lacera e disorganizza in presenza di un eccesso delle potenzialità produttive, che non si è in grado di sviluppare in modo coordinato a causa appunto del conflitto, tra agenti dominanti, pienamente introiettato nella sfera economica. Tuttavia, tale disorganizzazione non implica crolli o permanente putrescenza del capitalismo; essa provoca soltanto congiunture di crisi, il cui aspetto più appariscente, ma spesso ingannatore, si manifesta nel sistema economico, mentre le sue determinanti più profonde si situano a livello della struttura relazionale tra differenti frazioni dominanti, la cui specifica configurazione si è formata nel corso del conflitto durante la fase che sfocia appunto nella congiuntura di crisi. E, all’esaurirsi di quest’ultima, se non si verificano sconvolgimenti rivoluzionari, emerge una nuova configurazione della suddetta struttura relazionale interdominanti, dei rapporti di forza tra le differenti frazioni degli stessi, entro la quale si riavvia lo sviluppo delle forze produttive, diversamente caratterizzato in termini di nuovi settori produttivi trainanti, nati da importanti innovazioni che sono parte integrante delle strategie di lotta per la supremazia scatenatasi – a tutto campo, dunque anche nella politica e nella cultura – durante la congiuntura di crisi in oggetto.
È piuttosto ovvio che, pure nel capitalismo, il plusprodotto dei dominati, in forma ormai generale di valore, è mezzo cruciale nello scontro tra frazioni dominanti. Tuttavia, la forma di quest’ultimo surdetermina ogni altro tipo di lotta, ivi compresa quella tra dominanti e dominati che, con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico lungo la via di una sua crescente «maturità», viene vieppiù incanalata lungo direttrici di tipo «distributivo», in grado di scuotere, non certo di trasformare, l’assetto fondamentale della riproduzione dei rapporti capitalistici. I prodotti di plusvalore – la cui articolazione interna, da una parte, si frammenta sempre più finemente a causa del frazionarsi della produzione complessiva in sempre più numerosi e nuovi settori la cui connessione avviene nel luogo deputato, il mercato, della competizione tra imprese capitalistiche; e, dall’altra, si verticalizza all’interno dell’organizzazione d’impresa proprio per le esigenze di tale competizione – non si scontrano affatto sempre più direttamente e acutamente con i dominanti, man mano che la società capitalistica si sviluppa, fino a rovesciarne il potere. Avviene anzi esattamente il contrario: il conflitto fra dominanti e non dominanti, per quanto si acutizzi nelle congiunture di crisi, non è trasformativi in senso anticapitalistico; lasciato a se stesso, provoca semmai i tipici mutamenti di fase, da cui emergono modificazioni dell’assetto produttivo, politico e sociale, nonché nuove strutture relazionali tra gli agenti capitalistici dominanti, quelli che dirigono le strategie di conflitto nelle sfere economica, politica, culturale, della società.
Questo tipo di impostazione teorica, da me scelto anche in base alla presa d’atto della conclusione fallimentare di oltre un secolo di movimento comunista, vieta di pensare ad una qualsiasi fase di sviluppo del capitalismo come fosse l’ultima o suprema; sono ormai troppe quelle così definite a partire dall’imperialismo secondo Lenin. Coloro che vogliono continuare in questo sciocco gioco sono semplicemente gente di Chiesa; e tuttavia non si limitano sobriamente a predicare un consolatorio al di là, che risponde a profonde pulsioni individuali umane, ma pretendono di annunciare una sorta di «Regno di Dio in Terra», che è quanto di più aberrante, ipocrita e socialmente (e politicamente) devastante si possa immaginare. Chi si ostina in queste predi(ca)zioni, dovrebbe essere (metaforicamente) messo al rogo.
Nessun ultimo stadio capitalistico, dunque; solo congiunture di crisi, provocate fondamentalmente dallo scontro di strategie tra dominanti, congiunture in cui coloro che si pongono, per profonde ragioni morali, con i dominati hanno, a loro volta, l’obbligo di precise scelte strategiche: sia in teoria, sia nell’analisi della particolare fase storica in cui ci si muove, sia nella creazione di organizzazioni adeguate, sia nella politica che queste debbono attuare onde perseguire obiettivi di trasformazione comunque anticapitalistica, senza darla affrettatamente per ormai acquisita – quand’anche riescano in quella che viene solitamente definita presa del potere – nel qual caso si ricostituirebbe la struttura di una nuova forma di dominio.
L’impostazione teorica da me seguita ha ulteriori conseguenze a mio avviso realistiche e utili. La contraddizione capitale-lavoro non può più essere pensata quale fulcro di una trasformazione che conduca oltre il modo di produzione capitalistico; la lotta, che tale contraddizione può alimentare, è comunque interna ai processi di riproduzione dei rapporti sociali capitalistici, ne favorisce lo sviluppo. Se detta lotta è o meno in grado di fungere da innesco di una loro trasformazione reale, o invece semplicemente di una transizione da una fase all’altra dello sviluppo capitalistico, dipende dai movimenti, dai reciproci rapporti di forza, dalla scelta degli obiettivi e dalla politica perseguita a tal fine, riguardanti quelli che ho indicato come gruppi strategici della trasformazione anticapitalistica e gruppi strategici (capitalistici) tesi soltanto al cambiamento della frazione dei dominanti al potere; gruppi in acceso scontro fra loro nella congiuntura di crisi qualora si dia, non necessariamente, il caso che essi siano emersi da un processo di formazione e organizzazione durante il periodo storico precedente la congiuntura in questione.
Così pure non è per nulla decisiva, per definire i vari raggruppamenti («classi») caratterizzanti la formazione sociale capitalistica, e le varie fasi del suo divenire, la proprietà o meno dei mezzi di produzione, il potere di disporre degli stessi o invece soltanto della vendita della propria forza lavoro in qualità di merce. La proprietà, nel suo assetto giuridico, può essere privata o pubblica (in genere dello Stato), può essere concentrata in poche mani o al contrario diffusa e distribuita nel mentre il potere effettivo nell’attività produttiva spetta ad un management privo della stessa. Le forme e la strutturazione della proprietà e del potere manageriale dipendono dalle varie fasi (ricorsive) dello sviluppo capitalistico, in particolare dal suo carattere mono o policentrico in merito ai rapporti di forza formatisi nella lotta per la supremazia tra le varie frazioni dominanti delle sfere produttivo-finanziaria, politico-militare e ideologico-culturale. Non esiste una loro configurazione finale, l’ultimo stadio appunto, che segnali la crisi definitiva del capitalismo, il suo ormai ineluttabile declino e l’imminenza della transizione ad altra formazione sociale.
In mancanza di adeguate strategie trasformative, rivoluzionarie dell’assetto capitalistico – che possono essere realizzate solo se si sono formati e organizzati i loro portatori, e se questi ultimi colgono l’effettiva strutturazione dei rapporti sociali, e di potere, nella congiuntura di crisi e i suoi punti di massima debolezza – si verificano semplici transizioni interne alla formazione sociale capitalistica, transizioni provocate dallo sviluppo diseguale delle sue varie parti costitutive, che sono in genere rappresentate dai paesi capitalistici avanzati. A periodi storici di supremazia da parte di un centro, con relativo coordinamento tra queste varie parti, si alternano periodi in cui invece detta supremazia viene rimessa progressivamente in discussione, si entra in un’epoca di turbolenza, di lotte tra fazioni dominanti, che sfocia nella già indicata congiuntura di crisi. In quest’ultima si aprono possibilità, e solo possibilità, di azioni tese alla trasformazione rivoluzionaria del sistema dei rapporti capitalistici a vari livelli e sfere: economici, politici e culturali.
Nel periodo del relativo coordinamento da un centro, così come in quello in cui reinizia e progressivamente si acutizza lo scontro tra frazioni dominanti con l’entrata in un’epoca sempre più policentrica, ci si può azzardare a prevedere, in linea generale, l’affermarsi di una certa prevalenza dei gruppi strategici economico-imprenditoriali all’interno delle varie frazioni dominanti in lotta. Quando si entra in pieno nella congiuntura di crisi, viene solitamente in primo piano la lotta ideologico-culturale, e poi quella veramente decisiva tra diversi gruppi strategici politici (e militari). Non diminuisce l’importanza della competizione tra strategie imprenditoriali per le quote di mercato – strategie nel cui ambito sono cruciali le direzioni di investimento dei capitali «all’estero» – poiché sappiamo quanto sia rilevante, ai fini del conflitto interdominanti, l’acquisizione di sempre maggiori porzioni del plusvalore prodotto. Tuttavia, in ultima analisi e in definitiva, solo il prevalere della propria influenza politica, eventualmente coadiuvata dalla forza militare, in decisive aree mondiali, e il rafforzarsi della propria egemonia culturale in sempre più ampie sezioni della formazione sociale globale, sono in grado di assegnare la vittoria a questa o quella frazione di dominanti, ivi compresa la sua parte economico-imprenditoriale.
È nel conflitto interdominanti per il potere politico e per l’egemonia culturale che dovrebbe innanzitutto inserirsi l’azione di eventualmente costituitisi gruppi strategici della trasformazione capitalistica. Questi, nel caso di un iniziale successo, sarebbero poi obbligati a porsi senza esitazioni il problema della «scoperta» delle forme istituzionali e di organizzazione produttiva in grado di mettere progressivamente in moto quei processi di crescente cooperazione tra produttori (in senso lato) e di formazione del cosiddetto (da Marx) intelletto generale, processi che non sono affatto intrinseci allo sviluppo del modo di produzione capitalistico, così come pensò troppo ottimisticamente il marxismo.
Le teorie sono «giochi», le cui mosse mirano a renderle sempre più adeguate all’interpretazione della «realtà», così come essa è da noi, inizialmente e più immediatamente ma pur sempre idealmente, «accolta». Non mi sembra scandaloso che, in base agli impetuosi sviluppi del capitalismo nella sua prima fase storica, Marx fosse convinto della formazione del lavoratore collettivo cooperativo. Nemmeno è in fondo scandaloso che, tenuto conto della realtà sociale esistente nel paese (Germania) in cui sorsero le prime importanti organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio, Engels e poi Kautsky pensassero quest’ultimo quale classe, soggetto collettivo (e omogeneo), capace di innescare la trasformazione anticapitalistica. Non vi è dubbio, tuttavia, che il lavoratore collettivo poteva essere considerato una prefigurazione dell’organizzazione di una società costituita da eguali, fra loro non conflittuali, e tuttavia capace di sviluppare ancora le forze produttive; mentre tale convinzione si faceva assai più incerta e debole nel caso della sola classe operaia. In effetti, il marxismo della seconda, e anche terza, internazionale, pensava che, pur dopo l’eventuale presa del potere da parte del proletariato, i tecnici – in possesso dei saperi produttivi – sarebbero restati ancora a lungo legati alla, o almeno largamente influenzati dalla, vecchia classe dominante; per cui la loro collaborazione, almeno per un certo periodo storico, non doveva affatto essere data per scontata, ma invece sottoposta al rigoroso controllo degli organismi della dittatura proletaria e, se del caso, imposta.
Quando, già all’epoca della prima guerra mondiale, e ancor più decisamente dopo la seconda, il conflitto tra dominanti capitalistici e masse proletarie si fece decisamente più acuto e decisivo nella periferia (terzo mondo), fu impossibile continuare a ritenere le seconde – insediate nei paesi detti sottosviluppati o arretrati – una prefigurazione dell’organizzazione di quella società che per il marxismo sarebbe stata il necessario portato della rivoluzionaria trasformazione del capitalismo. Non a caso, molti marxisti pensarono che il conflitto di classe nella periferia rappresentasse un semplice detonatore, un innesco, della rivoluzione nel capitalismo avanzato; favorita tuttavia ancor più dal confronto, dalla «gara», tra i due campi (capitalistico e socialista). Altri ancora, più sobriamente e a mio avviso correttamente, si limitarono ad appoggiare le lotte periferiche in quanto movimento di decolonizzazione, di liberazione di quei paesi dalle più esasperate e violente forme di oppressione. Oggi, tuttavia, il fallimento è completo. Il conflitto capitale-lavoro non sposta di una virgola la sostanza del dominio capitalistico; il «socialismo» è definitivamente crollato e, salvo che dai ciechi, non può essere rimpianto da nessuno come fosse stato un’alternativa credibile al modo di produzione capitalistico. Nel fu terzo mondo, vi sono (pochi) paesi lanciati verso gli alti gradini dello sviluppo di tale modo di produzione, e altri (più numerosi) in cui torna addirittura il vecchio dominio di stampo coloniale.
Quel «gioco» che è la teoria – e mi riferisco ad una teoria che comunque pensi il capitalismo secondo modalità radicalmente critiche e non con intenzionalità trasformative – deve affrettarsi a compiere nuove «mosse». Ne ho compiuta una in questo libro: ho posto al centro della rete concettuale il conflitto tra strategie, detronizzando la proprietà (o potere di disporre) dei mezzi di produzione. Ho fatto vedere, a chi non si rifiuta di vedere, quali modifiche consistenti vengono così apportate all’impianto del vecchio marxismo. Si tratta però solo di un inizio. In questa direzione intendo muovermi per il futuro, fin che sarò in grado di farlo, onde modificare e ampliare ulteriormente il quadro della teoria critica, utilizzando inoltre quest’ultima nell’analisi dell’attuale articolazione complessiva del capitalismo mondiale.
Certamente, la direzione teorica che sto seguendo non entra, a mio avviso, in urto irriducibile con il marxismo classico. In particolare, lascia sussistere l’uso che può essere fatto della teoria del valore (lavoro) al fine di spiegare il profitto capitalistico e, più in generale, la rilevanza del prelievo del plusprodotto per i dominanti di ogni formazione sociale divisa in classi; per cui il plusvalore è solo una delle forme storiche del plusprodotto, forma specifica della formazione sociale capitalistica, in cui emergono peculiari gruppi di dominanti, fra i quali si trovano quelli agenti nella sfera economico-produttiva, che non avevano speciale rilievo nelle società precapitalistiche.
Tuttavia, non si può analizzare più finemente la formazione sociale a modo di produzione capitalistico, le strutture dei rapporti tra i suoi vari raggruppamenti («classi» di ruoli e funzioni), le dinamiche del loro reciproco conflitto, la tematica della crisi (non riducibile soltanto al suo lato economico), ecc. servendosi esclusivamente della teoria del valore. Si può anche sostenere che essa è per l’essenziale «vera», ma non per questo acquista maggiore significatività ed espressività ai fini dell’analisi che più ci dovrebbe interessare. E anche il concetto, già più rilevante di modo di produzione (capitalistico nel caso in questione) deve essere opportunamente rielaborato per evitare ogni ri(con)duzione delle dinamiche sociali a quelle, così povere, d’ordine esclusivamente economico, che si crede di poter rilevare semplicemente a suon di grafici e tabellone, con vari dati trascelti ed elaborati, aggregati, disaggregati e riaggregati, cioè ampliamente manipolati per far loro dimostrare tutto ciò che si è già scelto di dimostrare.
[…]
Ho usato in fondo il rasoio di Occam, togliendo tutto il superfluo che una ormai inspiegabile (razionalmente) fede nel comunismo aveva aggiunto al marxismo, rendendolo una dottrina, certo sistematica, ma pesante, inservibile all’analisi sociale, impermeabile ad ogni lezione storica che ha decretato il completo fallimento di quella fede. Con questo libro si conclude una prima tappa del percorso iniziato negli anni ’90, dopo aver abbandonato quello seguito precedentemente – pur sempre nel tentativo di vivificare un marxismo ossificato dai «fedeli» – che aveva condotto all’impantanamento sostanziale della mia ricerca teorica. Come tutti, posso sbagliare clamorosamente, ma credo di intravedere tale impantanamento in molti altri, anche in alcuni con cui ho collaborato anni fa.
Sono quindi sempre più deciso ad abbandonare i «miei» vecchi lidi, pur se essi erano comunque lontani da ogni fideistica ortodossia. Si tratta di una scommessa; e continuerò intanto a farla. Finora, ho potuto constatare l’espansività dei concetti qui formulati, nonché una loro discreta capacità di «intervento» nell’interpretazione della fase attuale: a livello mondiale come nel più ristretto ambito del nostro paese. Questo mi sembra incoraggiante; in futuro, vedremo. Mai più, tuttavia, tornerò indietro: né al marxismo di un’epoca che mi appare antelucana, né alle teorizzazioni che, nella fase finale del movimento comunista, hanno comunque, e talvolta meritoriamente, compiuto l’estremo tentativo di salvataggio.
Di coloro, e sono i più, che di fatto hanno da tempo «cambiato casacca», non mi sono mai curato, né comincerò a farlo ora. Resta un certo gruppo di pensatori che hanno mantenuto un atteggiamento critico nei confronti dell’attuale società, pur cercando nuove strade; senz’altro li rispetto, ritengo che siano fondamentalmente mossi dal mio stesso intento, ma non «sento» (o non sento più) le loro concezioni come teoricamente significative ed espansive ai fini del tentativo di comprendere un «mondo» in tumultuoso sconvolgimento.
*introduzione del Prof. Gianfranco La Grassa al suo ultimo saggio (Il capitalismo oggi. Dalla proprietà al conflitto strategico. Per una nuova teoria del capitalismo, Petite Plaisance, Pistoia .