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L’ultimo viaggio di Ulisse termina in tragedia perché nato da “curiositas” e non da “virtus”

di Francesco Lamendola - 14/12/2011




Perché il viaggio di Ulisse, descritto da Dante nel XXVI canto dell’«Inferno», si conclude con la burrasca improvvisa che fa inabissare la sua nave con tutto l’equipaggio?
Se lo sono chiesto innumerevoli generazioni di dantisti, senza essere giunte ad una conclusione condivisa; proviamo ora a domandarcelo anche noi.
Per prima cosa, bisogna chiedersi se la pena per la quale Ulisse è condannato alle pene infernali abbia qualcosa a che fare con quell’ultimo viaggio; se, cioè, il “folle volo” nel “mondo sanza gente”, al di là delle Colonne d’Ercole, sia la causa della punizione divina.
A tutta prima, verrebbe da pensarlo, sia per il rilievo che tale episodio - assente in Omero - assume nel racconto di Ulisse medesimo a Virgilio (e a Dante) mentre le sue frodi - narrate nei poemi omerici - sono ricordate molto velocemente; sia perché la tempesta marina che lo fa affondare si leva proprio per volontà di Dio («come altrui piacque»).
Se, dunque, il viaggio di Ulisse è stato fermato da un decreto divino, che ha provocato la morte di lui e dei suoi compagni, viene naturale pensare che ciò sia legato alla condizione di Ulisse come anima dannata dell’Inferno.
Qui, però, sorgono tutta una serie di difficoltà.
Infatti, Ulisse è punito, insieme a Diomede, nell’ottava bolgia dell’ottava cerchio, fra le anime dei consiglieri di frode: e Virgilio afferma esplicitamente che i due eroi greci sono condannati a bruciare entro la fiamma per le frodi da essi perpetrate, specialmente quella del cavallo di legno con cui Troia venne espugnata a tradimento.
E poi, come e perché l’ultimo viaggio di Ulisse, che Dante elabora da alcuni racconti di poemi post-omerici, ma, in sostanza, creandolo di bel nuovo col suo genio poetico, avrebbe costituito un peccato riconducibile alla frode?
Dunque, Ulisse è punito non per il suo “folle volo”, ma per essere stato consigliere fraudolento; altrimenti Dante sarebbe caduto nella incongruenza di farlo punire dalla giustizia divina non per aver disubbidito a un divieto celeste, ma per un’altra colpa, evidentemente più lieve rispetto a questa, posto che fosse tale.
Ma si può sostenere ragionevolmente che il viaggio di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole costituisse la violazione di un decreto divino?
La proibizione di spingersi nell’Oceano sconosciuto non era, infatti, del Dio cristiano, ma degli dei pagani: Ercole aveva posto i segni di un limite soprannaturale «acciò che l’uom più oltre non si metta» (verso 109) a nome di Zeus, non di Cristo.
Inoltre, verso il 1291 due navigatori genovesi, Ugolino e Vadino Vivaldi, si erano spinti oltre lo Stretto di Gibilterra e si erano perduti nell’eroico tentativo di esplorare le coste dell’Africa sconosciuta, al di là del parallelo delle isole Canarie; ed è molto probabile che Dante ne avesse avuta notizia, tanto che molti commentatori pensano si sia ispirato al loro generoso viaggio e alla sua misteriosa e tragica fine per costruire l’episodio di Ulisse.
Al tempo di Dante, comunque, l’Oceano occidentale non era più un limite invalicabile; una piccola ma coraggiosa monarchia nazionale, quella portoghese, stava incominciando a proiettare su di esso i suoi commerci e le sue fortune: è ben difficile, quindi, per non dire impossibile, immaginare che il Poeta trovasse disdicevoli in sé tali viaggi o, comunque, che li reputasse contrari a un decreto divino.
Per superare la difficoltà, quegli studiosi che ritengono esistere una connessione tra il peccato di frode e l’ultimo viaggio di Ulisse, hanno immaginato che la frode consista nella “orazion picciola” che l’eroe greco rivolge ai suoi anziani compagni dopo aver superato le Colonne d’Ercole, incitandoli a proseguire audacemente la navigazione nell’ignoto.
Si tratta della terzina più famosa, probabilmente, di tutta la «Divina Commedia» (versi 118-120): «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza»; e ci si vorrebbe far credere che essa non sia che un mostruoso inganno di Ulisse ai danni dei suoi ignari compagni, strumentalizzati cinicamente da un uomo che sapeva di condurli alla rovina, in violazione di un decreto divino!
Di tale opinione erano il Padoan, il Montano, il Cooper e lo Stanford; ma, se a noi sembra che si tratti di un’interpretazione discutibile e, molto probabilmente, sbagliata, non ne consegue che sia vera quella diametralmente opposta, cara ai romantici e ripresa dal Nardi, dal Pietrobono e, in parte, dal Croce, ossia che Dante abbia voluto rappresentare in Ulisse un ribelle prometeico, quasi un Lucifero che insorge contro Dio e ne sfida i divieti.
Resta, e ci sembra preferibile, la lettura mediana fra questi due estremi: Ulisse non è punito per aver peccato di frode sino all’ultimo, cioè sino alla «orazion picciola», ma nemmeno quale novello Prometeo che vuol rubare il fuoco agli dei, bensì come un pagano che si avventura nell’ignoto per un magnanimo desiderio di conoscenza, disgiunto però, né poteva essere altrimenti, dal senso del limite e del doveroso timor di Dio.
In quanto pagano, perciò, egli si fa trascinare da una virtù tutta terrena e immanente, che, in questo caso, coincide con la “curiositas”, ossia con un ardore di conoscenza che si inorgoglisce di se stesso e non riconosce limiti all’umana iniziativa; cosa ben diversa dalla virtù cristiana, che consiste sempre nella coincidenza fra la libertà umana e il rispetto della volontà divina.
La discrepanza fra il concetto pagano e quello cristiano di virtù è simboleggiato dalla montagna del Purgatorio, in vista della quale, dopo ben cinque mesi di arditissima navigazione, la nave di Ulisse è condannata a fare naufragio: nessun vivente può accostarsi ad essa senza un preciso decreto divino (come avviene nel caso di Dante), per cui Ulisse, essendo giunto davanti ad essa, non può che perire miseramente.
La sua colpa non è quella di aver violato una legge che ignorava; altrimenti si metterebbe il Dio cristiano, che è Dio di giustizia e di misericordia, al livello degli ingiusti dei pagani, ad esempio di Zeus che punisce con la morte quanti profanano, e sia pure inconsapevolmente, boschi ed aree a lui consacrate, oppure Artemide che fa sbranare dai suoi stessi cani l’ignaro Atteone, che l’ha sorpresa mentre si bagna nelle acque di un fiume. La colpa di Ulisse non è, dunque, veramente una colpa, ma una conseguenza dell’audacia del suo viaggio, che lo ha portato a scorgere ciò che nessun mortale ha il diritto di vedere.
D’altra parte, se si riflette che il Purgatorio rappresenta il luogo della penitenza e dell’espiazione, ossia il luogo in cui le anime si mondano da ogni umana superbia e pretesa di autosufficienza, appare chiaro come la tempesta divina che travolge la nave di Ulisse non sia solo lo strumento della punizione di un fallo inconsapevole da parte di Ulisse, ma un segno di contraddizione rispetto a un modo di essere tipico dell’uomo antico - proprio, perciò, non solo di Ulisse, ma di tutti i pagani - e cioè una concezione superba della “virtù”, sempre sul punto di degenerare nella “hybris”, nella dismisura.
Se così non fosse, perché mai Dante, quasi al principio di questo canto, avrebbe ricordato a se stesso la necessità di non lasciarsi trascinare da un ingegno presuntuoso, ma di farsi sempre guidare dalla virtù, sì da non pervertire il dono dell’intelligenza ricevuto da Dio (versi 21-24): «e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio, / perché non corra che virtù nol guidi; / sì che, se stella bona o miglior cosa / m’ha dato ‘l ben, ch’io stesso nol m’invidi»?
E si vede bene come Dante, qui, abbia toccato una questione delicatissima, una questione centrale nel mistero della condizione umana: ossia il cattivo uso che l‘uomo, creatura privilegiata nell’universo, perché dotata di ragione e libertà, può fare di quest’ultima; cattivo uso che non sempre e non solo nasce da avidità, da egoismo, da cattiveria, ma talvolta, al contrario, da impulsi magnanimi, come lo sono la sete di conoscenza e il desiderio di allargare l’orizzonte del sapere umano.
Come avviene che l’uomo riesca, talvolta, a trasformare il bene in male, usando imprudentemente il dono prezioso della sua libertà: questo è il tremendo mistero che lascia Dante attonito e quasi sbigottito.
Ma allora, come spiegare il fatto che Dante chiami “folle volo” la navigazione di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole; anzi, che sia lo stesso eroe greco ad adoperare questa espressione, parlando di se stesso e dei suoi compagni d’avventura?
Si tratta di uno sdoppiamento fra il Dante uomo e il Dante teologo, come molti vorrebbero, anche a proposito di altri episodi della «Divina Commedia», a cominciare da quello, altrettanto famoso, di Paolo e Francesca, nel quinto canto dell’«Inferno»?
Il fatto è che siffatti sdoppiamenti sono cosa troppo moderna: lasciamo che sia Petrarca a dire, di se stesso (nell’epistola in cui descrive l’ascensione al Monte Ventoso) «quel doppio uomo che è in me»; Dante no, Dante è troppo calato nella cultura e nella prospettiva medievale, il suo “io” non è lacerato e diviso, è un “io” integro e compatto.
Arrivati a questo punto ascoltiamo le sagge riflessioni di un insigne commentatore di Dante, Manfredi Porena, per ricapitolare quanto sinora detto (commento alla «Divina Commedia», Zanichelli, Bologna, 1970, vol. 1, p. 242-244):

«Negli scrittori antichi medievali da lui conosciuti, che avevano parlato di Ulisse, Dante poteva aver trovato molti elementi di suggestione alla creazione poetica del gran viaggio finale dell’eroe. All’infuori della tradizione omerici, si parlava qua e là di suoi viaggi avventurosi, perfino di là dalle Colonne d’Ercole, e anche di morte misteriosa lontano dalla patria. E Ulisse vi era spesso lodato come esempio di amore al sapere. Notevolissimo a tale riguardo  e il più prossimo allo spirito della concezione dantesca, un passo di Cicerone (“De finibus”, V, 18), il quale osserva come nell’episodio dell’”Odissea”, in cui le Sirene cercano di sviare Ulisse dal suo ritorno in patria, esse gli promettono la scienza, poiché comprendono che a un uomo desideroso di sapere, la scienza possa essere più cara della patria.  Dante compone, svolge esalta tutti questi elementi, immaginando che Ulisse rinunzi forse per sempre al ritorno in patria  per un viaggio destinato al semplice fine di conoscere il mondo, in cui il disinteresse assoluto da tutto ciò che non sia conoscenza pura, culmina nell’episodio finale: la esplorazione del “mondo sanza gente”. E take episodio riceve il suo più intenso significato dal fatto che una esplorazione che sarebbe arditissima se intrapresa nel fior degli anni e delle forze,  sia voluta da una ciurma di vecchi stanchi e tardi, prossimi al finir della vita, che Ulisse, vecchio e tardo anche lui, è riuscito ad infiammare con l’ardore delle parole. Nelle quali ci pare di sentir vibrare tutta l’anima  di Dante. La sentenza che Virgilio ha pronunciato poco prima: “l’animo che vince ogni attaglia se col suo grave corpo non s’accascia” non poteva trovare nella creazione  del poeta alunno un’espressione più viva.
Senonchè, questo amore incondizionato al sapere che supera  ogni richiamo di affetto umano, ogni riguardo o monito divino (simboleggiato nel “Non plus ultra”!) è davvero approvato da Dante? Egli fa chiamare da Ulisse stesso la sua corsa verso l’ignoto, “folle volo”; e, che è più, egli stesso, in un episodio del Paradiso, contemplando la Terra e l’Oceano dal cielo stellato, dice di aver veduto di là  da Gade (Cadice, ossia le Colonne d’Ercole) il “varco folle” d’Ulisse. Dunque quel sublime ardire fu, per altri rispetti, una follia? E a buon conto, il viaggio d’Ulisse termina con un naufragio voluto da Dio: “come altrui piacque”.
È opinione comune che anche qui come altrove, in Dante avvenga uno sdoppiamento. L’uomo ammira con tutto il cuore una prova così eroica del più alto amore alla scienza; il filosofo e il teologo condannano con la pura ragione colui che ha osato irrompere in quella parte del pianeta ove fu volontà di Dio che l’uomo non abitasse. Anch’io ho pensato un tempo così. Ma riflettendo meglio, mi domando se proprio davvero Dante filosofo e teologo condanni Ulisse. Se in questo fosse stato colpa di varcare le Colonne d’Ercole e l’entrare nel mondo inabitato, la punizione divina avrebbe dovuto coglierlo a quel varco. Invece, passati senza ostacoli quel varco, egli ha l’agio  di navigare per ben cinque mesi e di arrivare proprio nel bel mezzo di quel mondo senza gente, e di osservare i fatti astronomici e tutto il resto. L’esplorazione è del tutto compiuta e riuscita. Il vero è dunque questo:  che il “turbo” che affonda la nave non è punto il guardiano severo del mondo senza gente, ma la sentinella della montagna su cui Dio aveva collocato il Paradiso terrestre e avrebbe poi collocato il Purgatorio. Una volta immaginato che il regno della purgazione fosse in questo nostro globo terreno, era naturale che Dante dovesse farlo inaccessibile all’uomo vivo: e questa inaccessibilità da lui non annunziata in astratto, è invece dimostrata in atto dall’episodio di Ulisse.  Ma è un divieto divino non già pensato realmente dal teologo,  bensì immaginato da Dante poeta a servigio della sua finzione. Ulisse non è unto colpevole: che poteva sapere egli della montagna sacra?  In lui non c’ che ignoranza di qualche cosa che fatalmente condannava lui e i suoi compagni a non tornar più.  Solo in questo senso il loro volo era “folle”: folle per il senno di poi, non per il suo valore ideale.
Che se davvero il divieto di Ercole, come molti propendono a credere,  si debba ritenere che avesse per Dante, al pari di altre favole pagane, valore di verità eterna, e che quindi Ulisse, pur non sapendo nulla del Purgatorio, fosse vincolato da quel divieto, e ne espii con la sua fine la violazione, si viene a uno dei seguenti due corni d’un dilemma:  O che Ulisse espii quella sua colpa solo nel mondo di qua, con la sua morte, e non anche nel mondi di là, giacché quel peccato non rientra certo nelle colpe di “frode” per cui egli sta all’Inferno; e sarebbe caso unico d’un peccato non pentito e non punito nell’altra vita. Ovvero che nell’altra vita Ulisse sia condannato per le sue frodi perché queste furono i suoi peccati massimi; e si cade nell’assurdo di ritenere più lieve di quelle frodi  la violazione del comando divino di non varcare certi limiti: cioè un peccato del genere, nientemeno, di quello di Lucifero e di quello d’Adamo!
Concludendo, io credo che in Dante l’uomo e il filosofo si accordassero in una piena ammirazione per Ulisse; e potevano accordarsi senza scrupolo, perché un domma che escludesse la possibilità di viaggiare nell’Oceano la nostra fede non l’aveva pronunziato. Ed è solo il poeta che, in omaggio alla immaginazione di quel suo Purgatorio terrestre, ha dovuto far finire Ulisse e i compagni a quel modo. Ma questa stessa fine è qualcosa di così solenne, e poetico che aggiunge grandezza alla figura dell’eroe. Dopo tutto, qual morte più bella di quella che, dopo la riuscita d’un’impresa eroica, oltre la quale l’uomo non potrebbe che discendere, chiude, senza decadenza e senza lenti dolori, in pochi minuti, una vita sana e giovanilmente attiva fino all’ultimo momento, tra e due immensità dell’Oceano e del Cielo?»

Questo del Porena è un ragionamento che, nel complesso, ci sembra convincente; o, almeno, più convincente di quelli sopra ricordati.
E tuttavia, è innegabile che qualcosa non quadra ancora perfettamente; c’è qualcosa che disturba che non si lascia pienamente spiegare e che lascia il lettore e lo studioso di Dante con un senso di insoddisfazione, di incompletezza.
Si fa fatica ad ammettere che Dante abbia fatto finire il viaggio di Ulisse in quel modo, solo per tutelare l’inviolabilità dell’isola del Purgatorio; che abbia subordinato, cioè, le ragioni poetiche a una semplice esigenza estrinseca, legata alla struttura fisica della sua cosmologia.
Si fa anche fatica a considerare quel “folle volo” e quel “varco folle” come espressioni del tutto prive di un significato negativo in senso teologico e morale; se Ulisse era ignaro della proibizione, perché egli stesso chiama “folle” la sua ultima impresa?
Rimangono, dunque, alcuni nodi irrisolti, alcune perplessità; ma ne rimarrebbero ancora di più accettando la due interpretazioni a suo tempo ricordate, quella che vede nella «orazion picciola» un supremo peccato di frode, e quella che vede in Ulisse un byorniano Prometeo che si ribella ai divieti ingiusti e incomprensibili di un Dio meschinamente geloso dell’uomo.
Non tutto, ricordiamolo e teniamolo ben presente, si può comprendere sino in fondo, in questo poema gigantesco che è la «Divina Commedia», cui «han posto mano e cielo e terra»; occorre saper essere umili.
E continuare senza posa a cercare, a indagare, a interrogarsi.