La guerra in Iraq viaggia in internet
di Sabina Morandi - 30/06/2006
I blog militari statunitensi raccontano in tempo reale i conflitti, ma anche le paure dei familiari che aspettano a casa. Un esercito di soldati reporter che colma il vuoto pneumatico creato dalla censura dei media ufficiali «Oh Dio, fa che non sia mio marito…» Chiunque abbia un minimo di familiarità con l’inglese scritto può tentare l’esperimento: basta ciccare su www.milblogging.com per ritrovarsi su di un altro pianeta popolato unicamente da militari ed esteso quasi quanto l’intero globo. Benvenuti nella comunità sterminata dei blog militari statunitensi, ovvero quelle pagine internet “leggere”, semplici da confezionare, adatte per ospitare dei veri e propri diari ma anche dei forum di discussione, delle cronache in presa diretta, la foto del pupo o qualche dritta per i veterani che non vogliono venire triturati dalla burocrazia dell’Us Army. Il carattere privato di queste pagine, che possono venire aggiornate con un computer portatile da qualunque luogo del pianeta, le rende un’occasione irripetibile per “spiare” la vita quotidiana dei soldati al fronte e quella delle famiglie che aspettano il loro ritorno a casa o che abitano nelle enclave protette che gli americani hanno disseminato in tutto il mondo. Da Guantanamo all’Australia La prima cosa che colpisce è l’estensione. Non si tratta soltanto di un concetto geografico anche se, per riempire i 1.100 blogs di Milblogging. com, si collegano soldati di stanza in 23 paesi diversi, dall’Afghanistan alla Thailandia passando, naturalmente, per la madre patria. Un migliaio di blog che registrano più di sei milioni di contatti al mese (dati comScore Media Metrix del dicembre scorso) ma che, secondo i progetti di Military. com, la più grande associazione di militari e veterani, dovrebbe riuscire a collegare in tempo reale una popolazione di 30 milioni di persone fra personale in servizio, riservisti, veterani e famiglie. Dopo aver prestato servizio in Afghanistan un certo J. P. Borda ha pensato bene di creare uno snodo, Milblogging. com appunto, con lo scopo di collegare e articolare in una forma più giornalistica i diari elettronici artigianali dei soldati al fronte. Un’idea geniale che ha subito colmato il vuoto pneumatico creato dalla censura dei media ufficiali incapaci di soddisfare il disperato bisogno di notizie dei parenti restati a casa. Così, mentre le bare di ritorno dal fronte venivano nascoste alle telecamere e i giornalisti embedded vedevano solo ciò che dovevano vedere, le notizie di prima mano dei diari elettronici hanno cominciato a essere saccheggiate dai media ufficiali (Newsweek, Washington Post e Bbc, solo per citare i più noti) e da altri blog popolari come Instapundit. com o Blackfive. net. L’irruzione del soldato-giornalista sulla scena mediatica viene celebrata dai fan della “blogosfera” militare come un passaggio che «costringerà a ridefinire la copertura giornalistica della guerra» in quanto l’unico in grado di offrire «resoconti non filtrati e di prima mano direttamente dal fronte». Se si riesce a superare lo shock provocato dal primo contatto con il pianeta di cui sopra - popolato esclusivamente di giornalisti-soldato, medici-soldato, insegnanti-soldato, calciatori-soldato e via dicendo… - non si può che concordare sul fatto che le uniche immagini non taroccate provenienti dalle zone del conflitto sono state confezionate dai militari, dalle infami foto di Abu Ghraib ai filmati raccolti da tre riservisti in The War Tapes, documentario premiato al Tribeca Film Festival e appena uscito negli States. Ma che paese è quello in cui perfino l’esercito riesce a dare lezioni di libertà d’informazione? Del resto è noto che gli alti gradi sono stati contrari all’avventura irachena fin dall’inizio e l’amministrazione ha dovuto sudare non poco per superare le giuste critiche sui modi, la strategia, la tattica e perfino le ragioni stesse dell’intervento. Forse, in questo secolo, la guerra è una cosa troppo seria per farla fare ai politici. Una moglie liberal e altre storie «E’ un giorno triste: un membro della guardia nazionale è stato ucciso in Iraq. Non era uno che conoscevo né era della nostra unità ma era, come si dice, uno di noi. Un ragazzo di 22 anni, che spreco… E poi ho avuto quell’orribile sensazione quando ho letto il titolo… Oh Dio, fa che non sia mio marito… e quando ho visto che non era lui, il sollievo che ho provato mi ha fatto sentire così in colpa…». La Proud Liberal Army Wife (letteralmente orgogliosa moglie liberal di un soldato) che ha impostato queste parole nel pomeriggio del 16 giugno scorso utilizza internet per descrivere la vita quotidiana di una «donna con un punto di vista liberale che sta aspettando il ritorno del marito dal fronte» con ironia e realismo. «Potete immaginarlo: fra le mogli dei militari sono una mosca bianca», confida a un certo punto, ma i commenti che sono stati impostati di seguito - un’altra delle caratteristiche che rendono i blog irresistibili - non insistono più di tanto su questo aspetto, anche se fioccano gli appelli patriottici che siamo abituati a vedere collegati con la propaganda di guerra. Furibonde discussioni seguono invece la lettera di un militare che imposta dall’Iraq per solidarizzare con alcuni commilitoni che si sono rifiutati di eseguire certi ordini: «Ho giurato di proteggere e difendere la Costituzione da nemici esterni e interni. Ma nella formula del giuramento non c’era niente a proposito di obbedire agli ordini illegali del Presidente» scrive il militare. E più avanti insiste: «E’ responsabilità di un ufficiale valutare la legalità e la verità che c’è dietro ogni ordine. Molti tedeschi aderirono all’idea di superiorità razziale dei nazisti perché avevano paura di venire arrestati o giustiziati se disobbedivano, ma questo non li ha giustificati davanti al tribunale di Norimberga». Non deve essere facile, per l’ignoto milite, continuare a prestare servizio in una «guerra di occupazione», come lui stesso la definisce. Così compensa riempiendo il suo blog di link ai siti pacifisti, ripubblicando le recensioni di alcuni documentari di contro-informazione - come The Dark Side (la Metà oscura) dedicato alle manovre del vicepresidente Cheney - oppure partecipando alla campagna elettorale del prossimo autunno riportando le liste dei «veterani affidabili» candidati al Senato. Ma non bisogna credere che gli autori dei diari elettronici siano tutti pacifisti. Alcuni - altra lettera dall’Iraq - invitano a non dimenticare i compagni dispersi in azione «restando in Iraq e non scappando come conigli». Altri, come nel caso della commemorazione dedicata a Marcelino Ronald Corniel, 23 anni, morto il 31 dicembre scorso, esprimono orgoglio e fierezza marziali ma raramente si scagliano contro i “pacifisti disfattisti” come accadeva durante la guerra del Vietnam. Prevale, se mai, la pietà insieme al dolore reso un po’ più sopportabile dal senso d’appartenenza a una comunità che «farà il proprio dovere comunque la pensi» anche se, come la pensa, vuole farlo sentire forte e chiaro. I soldati, se mai, ce l’hanno con i politici che si vergognano dei loro morti tanto da spingere una Soldier’s Mom, mamma di ben quattro militari (tre ragazzi e una ragazza) impegnati nei vari corpi, a pubblicare per intero la lista dei nomi e dell’età dei 2.500 caduti statunitensi. Altri ancora inneggiano al cameratismo e all’onore e «all’esperienza della guerra, che può solo farti crescere» salvo poi confessare, una volta a casa, che «da quando sono tornato, ormai è quasi un anno, quando esco la sera nove volte su dieci finisce in rissa. Sono pieno d’odio. Forse dovrei starmene chiuso in casa». Presa diretta I blog dedicati a fornire consigli pratici sulla carriera, sulla pensione o sulla sgradevole abitudine del Department of Veteran Affairs di perdere i dati dei veterani da risarcire, sono i più utilizzati dal personale militare ma, indubbiamente, per noi alieni appena atterrati su questo pianeta popolato di divise l’interesse maggiore è suscitato dai racconti di prima mano. Perfetto antidoto alla propaganda di guerra, le parole dei giovani asserragliati nelle basi afghane o irachene non descrivono missioni umanitarie ma la follia di una guerra d’occupazione in una terra estranea e ostile. «Da parecchio volevo scrivere delle preghiere che si sentono dagli altoparlanti in tutta Kabul» scriveva un soldato il 27 maggio scorso «Stando dentro Camp Phoenix a volte puoi dimenticare quanto sia diverso il mondo oltre le mura, ma il suono delle preghiere te lo ricorda continuamente. Per me è un suono misterioso e un po’ triste ma quando, all’inizio della settimana, è stato sovrastato dagli spari, mi sono accorto quanto mi mancava. Fortunatamente non è successo niente, nessuno è rimasto ferito, e il canto del muezzin è ricominciato». Dall’Iraq, naturalmente, fioccano cronache di combattimenti serrati, di kamikaze che spuntano all’improvviso, di ventenni terrorizzati che ammettono «non so come ma la mia arma ha cominciato a sparare», e dell’atroce sollievo di quando «una bomba da 500 libbre ha finalmente polverizzato il palazzo dei cecchini». Non aspettatevi parole di rammarico per le vittime civili: i diari dal fronte sono duri, allucinati, scritti da ragazzini sull’orlo dell’esaurimento nervoso che, certamente, non saranno facili da recuperare alla vita civile. Gente addestrata per combattere una guerra convenzionale non per reprimere un’insurrezione, e psicologicamente impreparata a quanto si trova a vivere. Ecco forse spiegati questi fiumi di parole: come se mettere lo sfogo sulla carta virtuale di internet fosse un modo per rendere accettabile la follia, per comprendere più che per spiegare, per capire qualcosa che per definizione è incomprensibile rendendolo reale attraverso la descrizione minuziosa di ogni dettaglio come in questo testo, impostato nel febbraio scorso. «Pop. Pop Pop Pop. Brrrrrrppppp. Pop. Poppoppoppoppoppop. Boom! Boom! Pop Pop Poppopp. Brrrrrrrp Brrrrp Boom!! I fucili automatici trapassano la mattina di primavera facendo sollevare in massa gli uccelli di Kirkuk e mandando la mia compagnia al più alto livello di allerta. E’ metà mattina ma il termometro è già poco gentile. La mia squadra ha appena portato alcuni medici in un centro di addestramento e ora dobbiamo rientrare. Ma quale strada prendere? Non ci si capisce un cazzo. L’ufficiale si attacca alla radio e comincia a urlare. Non siamo qui per ammazzare i cattivi? Certo, certo, siamo tutti pronti a fare il nostro dovere.. Ma in questo momento, dio, ditemi solo quale cazzo di strada dobbiamo imboccare per portare il culo in salvo alla base!». Non è ora di portarli a casa? |