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La speranza

di Francesco Lamendola - 18/12/2011



Non si può vivere senza speranza, questo è un fatto.
O meglio: non si può vivere una vita vera, una vita autentica; si può solo lasciarsi vivere stancamente, già morti mentre ancora si vive: morti dentro.
Da questa semplice constatazione sembrerebbe scaturire la logica conseguenza che la speranza sia sempre e comunque un bene, perché quello che aiuta a vivere è un bene, mentre è un male quello che ostacola e rende difficoltosa la vita.
Ma è proprio così ed è sempre così?
Partiamo dalla conclusione: se sia vero che quanto aiuta la vita sia, di per sé, un bene. Poniamo il caso che, per vivere, sia necessario tradire un amico, venir meno al proprio onore e agli impegni presi, calunniare e denigrare il prossimo: anche in quel caso si tratterebbe di manifestazioni del bene?
Evidentemente no; e allora dobbiamo subito introdurre una importante precisazione: è bene ciò che aiuta la vita non in qualunque caso ed a qualsiasi prezzo, ma soltanto ciò che l’aiuta ad essere una vita pienamente umana, una vita degna, una vita buona.
Passiamo all’altra questione: se la speranza rappresenti sempre una forma di bene. Non potrebbe darsi che sperare, pur aiutando la vita, non sia di alcun aiuto a migliorarla e che, pertanto, si risolva in un bene ingannevole, in una illusione, in un vano miraggio?
Se io me ne sto seduto con le braccia conserte e mi limito a sperare, quando invece potrei agire per modificare le cose in meglio, si può ancora considerare come un fatto positivo quello di conservare la speranza, o è vero piuttosto il contrario?
Poniamo che gli esami medici segnalino l’insorgenza di un tumore nel mio organismo: è di maggiore aiuto alla vita il fatto di sperare che la malattia, alla fine, non riuscirà a prevalere sulla resistenza del mio organismo, oppure il sottopormi a delle cure ben precise?
La risposta sembrerebbe scontata; e tuttavia: esiste un confine preciso, netto, immediatamente riconoscibile, fra lo sperare deresponsabilizzante, illogico, assurdo, e lo sperare come fatto virtuoso dell’anima, come fiducia nella bontà della vita o, per il credente, come fiducia in Dio?
No, probabilmente quel confine non esiste; o, per dire meglio, si tratta di un confine mobile, continuamente variabile, che non può essere determinato dall’esterno, ma solo valutato dall’interno, caso per caso, situazione per situazione.
Esiste un momento, un momento ben preciso, ma che non può essere predeterminato, in cui ciascun essere umano sente che è arrivato il momento di non lottare più; che è giusto smettere di agitarsi e quel che si deve fare, invece, è semplicemente assecondare il movimento naturale delle cose, affidarsi al flusso dell’esistenza.
Il taoista dirà che è il tempo di seguire la corrente, il cristiano parlerà dell’abbandono alla Provvidenza divina, altre tradizioni culturali e religiose useranno un linguaggio ancora diverso; ma il concetto è sempre lo stesso: “wu wei”, “non agire”, lasciar fare alla Natura, o a Dio, rimettersi a Qualcosa o a Qualcuno che è più grande di noi e che ne sa più di noi.
Tuttavia risulterà estremamente difficile riconoscere quel momento, se si è trascorsa tutta la propria vita nell’attaccamento agli enti e nella febbre dell’azione compulsiva; come in tutte le cose, il modo in cui ci si confronta con le situazioni eccezionali è, in un certo senso, la risultante della filosofia di vita quotidiana che si è assunta: non si diventa eroi all’improvviso, né si imbastisce la saggezza in quattro e quattr’otto, ma ci si allena giorno per giorno, nelle situazioni abituali, a sviluppare la propria parte migliore, sapendo che prima o poi essa ci diverrà necessaria e dovremo dispiegarla sotto l’incalzare di circostanze avverse, di turbamenti interiori.
«Natura non facit saltus», la natura non procede a sbalzi: questa è l’aurea massima da ricordare.
Tuttavia non vogliamo eludere la domanda che ci eravamo posta all’inizio: la speranza è una virtù e, come tale, dobbiamo sforzarci di coltivarla nell’animo?
La speranza è certamente una virtù, una delle più grandi e, vorremmo dire, delle più eroiche; sta a noi, peraltro, adoperarla bene.
Sappiamo che ogni virtù, se male adoperata, degenera nel vizio opposto: il coraggio diventa temerità; la generosità, dissipazione; la prudenza, pavidità; e così via: anche la capacità di sperare, spinta oltre il limite del giusto, degenera in un atteggiamento negativo, fatto d’inerzia, d’illusione e di sterile astrazione dalla realtà.
E nondimeno, il fatto che le virtù possano trasformarsi in vizi non significa, evidentemente, che sia cosa intelligente il tenersene lontani, accontentandosi di una vita grigia, mediocre, consumata nell’avaro e sospettoso centellinare i propri talenti.
No, la vita è fatta per mettersi in gioco, per osare e per rischiare, se necessario; per essere vissuta a pieno, il che non significa compiere imprese straordinarie, ma sviluppare al massimo le proprie potenzialità e goderne sino in fondo l’infinita bellezza.
Certo, la vita non è sempre rose e fiori; vi sono momenti di grave difficoltà, di profondo scoraggiamento; a volte, poi, non si tratta di momenti, ma di situazioni stabili e non modificabili, quali una grave malattia o una pesante forma depressiva, che infliggono dolorose ferite anche nell’anima delle persone vicine.
Tuttavia, bisogna avere l’equanimità di giudicare la vita nel suo insieme; non la si deve calunniare quando le cose vanno male, ma ricordare tutti i benefici che essa ci ha generosamente elargito, anche se sovente noi, per colpevole inconsapevolezza, non ce ne siamo neppure resi conto e non abbiamo saputo apprezzarli al loro giusto valore.
Comunque, è nei momenti di grave difficoltà che la dimensione della speranza reca un effettivo sollievo all’anima e la riconcilia con la vita; e guai se così non fosse: privata della speranza, l’anima avvizzisce e muore, addirittura incomincia a imputridire dentro un corpo ancor vivo.
Ecco perché il mondo dovrebbe benedire i seminatori di speranza: c’è bisogno di essi tanto quanto c’è bisogno della pioggia che bagna la terra e la rende fertile, oppure quanto c’è bisogno della dell’aria, della luce e del calore del sole, che rinnovano la vegetazione e rendono la terra abitabile e generosa dispensatrice di frutti.
I seminatori di speranza, però, sono relativamente rari, e tanto più efficaci quanto meno si rendono visibili; di solito essi agiscono con discrezione e quasi nell’ombra, così che solo un ristretto numero di persone ha la fortuna di venirsi a trovare nel raggio benefico della loro azione, perché la speranza è più facile predicarla a parole che darne l’esempio, vivendola.
In compenso, molti possono essere portatori di speranza in circostanze specifiche: una parola buona, un gesto di umana solidarietà e simpatia, perfino un semplice sguardo, possono trasmettere speranza a colui che ne è terribilmente affamato e assetato, recandogli un beneficio incommensurabile e tanto più prezioso, quanto meno era atteso.
Sorge spontanea la domanda su che tipo di speranza si possa avere quando ci si trova in situazioni che, umanamente, non concedono la minima possibilità di sperare nel futuro, ad esempio nel caso di una malattia terminale o, semplicemente, quando si è nell’età più avanzata e si sa che ogni mese, ogni settimana, ogni giorno, potrebbero essere gli ultimi.
Ebbene, la dimensione autentica della speranza non è legata a circostanze materiali contingenti: certo, si può sperare di vincere una grossa somma di denaro alla lotteria, così come si può sperare di guarire da una grave malattia; ma la vera speranza non è legata a queste cose, bensì proiettata verso la dimensione dell’infinito e dell’eterno.
La vera speranza è l’attesa che si compia una promessa, una promessa che ci è stata fatta nel momento in cui siamo stati chiamati alla vita: che tutto ha un senso; che il dolore non è inutile; che nessuna lacrima e nessun sorriso andranno perduti, ma che qualsiasi cosa accada, essa avviene nel contesto di una finalità positiva, di un progetto benevolo, di una prospettiva luminosa.
La vera speranza è quella che ci fa presentire come ciascun essere sia chiamato alla vita per svolgere una missione, nel modo migliore possibile; e che gli vengono date forze bastanti per svolgerla, non importa se in forme che noi non sempre riusciamo a comprendere, e secondo tempi e modi che, talvolta, ci sembrano assurdi e perfino crudeli.
Essa, pertanto, ci aiuta a capire che nessuno ci chiederà conto di non aver potuto fare questa o quella cosa che eccedeva realmente le nostre possibilità, ma piuttosto che la nostra coscienza ci farà sentire se avremo fatto del nostro meglio, nei tempi e nei modi che la vita avrà deciso per noi e non secondo i nostri orgogliosi progetti basati sulla ragione calcolante.
Le nostre vie, infatti, non sono necessariamente le vie della Verità, della Bontà e della Bellezza; quello che a noi sembra giusto, può non essere giusto in assoluto; quello che ora ci sembra il nostro bene, può non essere il nostro vero bene, ma soltanto una sua contraffazione, che ci lascerà vuoti e disgustati di noi stessi.
La nostra vista è corta, la nostra intelligenza è limitata, la nostra saggezza è ben poca cosa in confronto all’infinita ricchezza e complessità della vita cosmica, di cui facciamo parte e della cui trama rappresentiamo un filo; sono molte, moltissime le cose che non arriveremo a capire con il solo strumento della ragione, ma piuttosto facendoci piccoli e umili e affidandoci alla voce del Maestro Interiore, che dal profondo dell’anima ci parlerà al momento opportuno.
Esistono numerosi piani o livelli della coscienza, e quello della ragione è solo uno di essi, e non certo il più elevato.
Vi sono altri piani e altri livelli al di sopra di esso, così come vi sono numerosi piani in un grande palazzo o in un castello che si protende verso il cielo: e noi dobbiamo esplorarli tutti, abitarli tutti, ma sempre salendo verso l’alto.
La mancanza o la perdita della speranza è la tentazione di tornare indietro, di discendere i piani del castello e di ridursi ad abitare giù in basso, nei piani inferiori o addirittura nelle cantine: senza mai vedere il cielo, senza contemplare le stagioni, senza respirare un poco di aria pura.
La speranza, invece, è la forza che ci sorregge nella salita e che ci fa tenere costantemente lo sguardo rivolto verso l’alto, verso le finestre e i balconi spalancati sull’azzurro, verso i raggi caldi del sole che irrompono a fiotti, verso il canto degli uccelli, verso i rami del pesco e del mandorlo che si protendono con i loro fiori rosa e bianchi
Essa ci conforta nei momenti più bui; ci ricorda che sopra le nuvole splende la luce, che dopo il ghiaccio dell’inverno ritornerà a fiorire la primavera.
Al termine della notte sorgerà l’alba: udremo il canto del gallo e il nostro cuore si riempirà di consolazione e di rinnovata fiducia nella vita.
Sappiamo che neanche la più piccola piuma dell’ala di un passero cade senza un motivo; sappiamo che tutto è ordine, armonia, grazia.
E la speranza è il sentimento che ci aiuta a vedere il mondo sotto questa luce, in questa gioiosa prospettiva.
Come una musica solenne e al tempo stesso leggera, come un preludio o una fuga di Bach, la speranza irrompe nelle stanze più segrete del nostro cuore affaticato e le rinfresca, le rinnova, le trasfigura di luce palpitante.
La speranza è non aver paura: guardare avanti ai giorni che ci restano da vivere, siano essi tanti o pochi - ma questo, chi può dirlo con certezza? - e non provare turbamento, né rammarico, né angoscia.
Se abbiamo compreso che tutto è per il bene, che tutto è grazia, allora capiremo che anche la morte è per il bene, che anche la morte è grazia; e che non ci deve spaventare.
Così come non ci devono spaventare la malattia, la vecchiaia, la solitudine; e, soprattutto, non ci deve turbare il dubbio della mancanza di senso.
Il senso c’è, c’è sempre stato, era lì accanto a noi, anche nei momenti più sofferti e difficili; e ci accompagnerà fino all’ultimo passo di questa vita - ed oltre.
Dobbiamo solo imparare a vedere meglio, a sviluppare la facoltà della seconda vista; dobbiamo solo ritrovare la fiducia nei nostro sensi interni, che non mentono e che sanno, sentono in profondità, che vi sono molte altre cose oltre a quelle che vediamo, che udiamo, che tocchiamo, che odoriamo e che gustiamo; che il reale è immensamente più ricco e vario di quel che non ci appaia abitualmente.