W Petrolini a 70 anni dalla morte
di Miro Renzaglia - 30/06/2006
Ettore Petrolini morì il 29 giugno del 1936, a Roma, dove era venuto al mondo nel 1884 (ma lui dichiarava di essere nato due anni dopo, nel 1886: ah, questi autor-attori! pretendono di scriversi da soli perfino il certificato della propria nascita...). Per cui, a conti fatti, sono giusti giusti settantanni che se ne è (mal)andato per mano della “signorina Angina” che accompagnava il suo cuore da una vita...
Era, pure lui, Petrolini, come l’altro e più noto con cui fa rima il suo cognome, figlio di un fabbro... No, non temete, non sono qui a cercare, per lui, benevolenze a destra (anziché a manca...) ma per celebrare, come l’ebbe a definire Massimo Bontempelli: “il più grande artista italiano”, (“artista” tout court, si badi non, p.e.: artista comico), del ‘900 ed ultra... A una certa altura, quella a cui va elevato di diritto Ettore Petrolini, si appartiene a tutti, al di là di qualsiasi schieramento...
Che, poi, Mussolini, per nascondere le convulsioni da risa che gli provocava il Nerone (scritto e messo in scena fin dal 1917, si badi ancora bene...) fosse costretto a soffocarle in un fazzoletto, è cosa che intristirà solo chi ha voluto spacciare quel lavoro in chiave di mimesi antifascista... Ma, a noi, sinceramente: che ce ne frega? “Facezie” (avrebbe detto Petrolini) che vanno lasciate a chi per amare una poesia, un testo di teatro o una canzone deve prima conoscere l’albero genea-ideo-logico dell’autore... Che il Nostro molto si amareggiò protestando quando, per limiti di età, venne collocato nella riserva dei Centurioni della Milizia; o che al conferimento di una medaglia di regime per meriti artistici, parafrasando sull’attenti un ben noto motto mussoliniano, rispondesse con l’orgoglioso petrolinismo: “Me ne fregio” (sic: con la “i”), cosa volete che aggiunga o che tolga alla sua irripetibile genialità?
C’è solo un luogo dove è difficile imparare l’arte della “re-citazione”: le scuole di teatro. Petrolini le evitò accuratamente e si scelse - pensate un po’ - i funerali di sconosciuti e i penitenziari per giovani discoli quali luoghi deputati al suo apprendistato: i funerali di (a lui) sconosciuti, dove andava impersonando la parte del tredicenne inconsolabile per la perdita del defunto, riscotendo l’unanime partecipazione al dolore manifesto che non era né suo né vero; e le gattabuie dove, in adolescenza, era finito per indole delinquenziale (gli sia benedetta...) ivi imparando ad intrattenere ludicamente i sodali reclusi... Miscela esplosiva, cari miei: solo pochi, pochissimi sanno convertire questi esercizi di vita in arte e mestiere evitando il rifaccio noioso dell’imitazione realista. Che lui ci sia riuscito, è indubbio: ma non vi consiglio di seguire l’iter... Fate come lui, a chi vi chiede: “Da chi discendi?”, rispondete: “Io discendo dalle scale di casa mia”. E fatevi da soli la vostra strada, se vi riesce...
E, forse, fu per questi presupposti che non fu maestro di nessuno. Almeno, non nel senso della sua volontà ad esserlo, avendo sempre preteso di essere un se-stante, senza stelle di riferimento né pre cedenti né post cedenti il suo cammino. Troppo originale il suo “in-segno” per poter pretendere che qualcuno se ne sia voluto (o potuto...) dichiarare consapevole continuatore. Eppure, eppure... I futuristi riconobbero in lui il colpitore di grazia del “chiaro di luna” (“mai sufficientemente ucciso”, dirà Marinetti al riguardo). E la sua capacità di destrutturare la comunicazione verbale, giocando sulla fonetica, anzi: anteponedola alla semantica, fanno dei petroliniani I salamini un’anticipazione di quel teatro dell’assurdo che ebbe in Beckett, Ionesco, Adamov i suoi credibili, ancorché ignari (?), eredi. E anche la verve parologista dei Bartezzaghi e dei Bergonzoni di oggi, da dove credete venga?
Ma c’è una cosa che mi preme discettare, al di là della necessaria celebrazione del settantennale: Petrolini era o no un poeta? Prendiamola alla larga e seguitemi nel mio s-ragionamento...
Uno dice, fa: ”La poesia è bella se ha un bel significato; se tratta di valori alti e ha un nobile messaggio; se commuove; se consola; se dà parola alla sofferenza; se incanta con la melodia della sua voce; se stabilisce un nesso fra l’uomo e il divino; se rispetta le forme tradizionali, della sintassi, dell’ortografia, della metrica; se è lirica; se è aulica; se è mitica e simbolica; se è ispirata; se è seria, se è solenne; se è sublime”.
“Tutte cazzate - dice un altro - la poesia è una macchina di parole; la sua benzina sono vocali, consonanti, sillabe e accenti; il verso libero non esiste, esiste solo la libertà del poeta di creare forme; l’ispirazione accende la miccia, ma è il mestiere che fa esplodere l’immaginazione; non ha scopo: non tende “a” e non è scritta “per”; il significato ce lo metta il lettore.”
Potrei continuare ma non voglio infastidirvi con le annose questioni su cosa sia o non sia “la” poesia. La disputa è vecchia come l’uomo e ognuno è libero di scegliersi i suoi criteri e perfino di spaziare a sua libido fra i prodotti notevoli del bel versificare, a prescindere da tutte le scuole di pensiero, buone al massimo per le schedature poliziotte dei critici di professione. La questione è semplice: la poesia è l’invenzione di “un” linguaggio, felice se la forma è identificabile con lo stile del suo autore; infelice, se si risolve in un fantomatico messaggio.
Detto ciò, non riesco a capire perché nelle scientifiche e prestigiose antologie della poesia italiana (non dico di sempre, ma almeno del Novecento; ma al minimo di quelle che trattano l’argomento a cavallo tra le Due Guerre), nessuno si sia mai sognato d’inserire qualcosa di Ettore Petrolini. Al quale, in vero, non si può negare d’essere l’inventore di un linguaggio irripetibile: se non per virtuosismo interpretativo (penso a Mario Scaccia e a Gigi Proietti). Magari, un debituccio originario Petrolini ce l’ha con Palazzeschi ma - ditemi - quale poeta non ne ha con qualcun altro?
Sarà che è passato alla memoria come artista di varietà, un macchiettista a cui, in quanto tale, e come i guitti di un tempo, è inibito pernottare entro le mura blindatissime dei castelli letterari: come se i suoi testi fossero inscindibili dall’interpretazione teatrale (fulminante) e non abbiano, invece, anche una forza espressiva tutta loro; sarà che il comico ed il grottesco non rientrano nella categoria prediletta dalla lirica nobiltà letteraria (ma, allora, buttiamo nella spazzatura pure “Gargantua e Pantagruel”); sarà che il successo in vita di un poeta (sissignori…) ha sempre dato fastidio, prima agli sfigatissimi versificatori a cui rare volte la gloria in terra ha arriso e, poi, a quei falliti che, senza mai essere riusciti a scrivere un verso accettabile, hanno optato per le più redditizie carriere di critici accademici e/o patinati (“criticofessi”, li definiva Petrolini). Sarà quel che sarà: fatto sta che Petrolini-Poeta resta per i più una blasfemia (escludo dal novero dei puristi-puritani Annamaria Calò e Giovanni Antonucci, che hanno curato l’opera omnia del Nostro per i tipi rispettivamente della Ruzante, 1977 e Newton, 1993).
Mi domando perché a quello splendido non sense che è “M’illumino d’immenso” (Ungaretti) non possa essere giustapposto il petroliniano: “Disse la tinca al luzzo: ove te n’ vai?/ Rispose il luzzo alla tinca: al lago di Braguzzo. Morale: o tinca o luzzo o lago di Braguzzo”. Entriamo nel merito della tecnica poetica (solo un attimo, ché non vi voglio annoiare: Petrolini non me lo perdonerebbe) per notare che nel primo la sinestesia si rende memorabile per l’allitterazione quasi-anagramma delle due parole “illumino” e “immenso” e, nell’altro, la filastrocca si risolve, con non minore mestiere, nella rima, in mezzo e in coda, e nella reiterazione dei sostantivi. E adesso non venite a dirmi che illuminarsi d’immenso è più poetico perché allude al Sublime Assoluto, mentre il luzzo esprime “solo” un lazzo terra terra, perché allora non avete capito che non sono i significati il discrimine fra poetico e impoetico ma l’uso dei significanti nella creazione della forma. Che, inoltre, il problema non sono i nostri personalissimi gusti, ma stabilire se Petrolini è o non è un inventore di linguaggio, alias: un poeta. E io non ho dubbi: sì, lo è. Poi, ad ognuno il suo: a voi le stelle, a me le stalle. Tanto, sui gusti mica è lecito disputare.
Si dice, ma non ne sono convinto - benché lui stesso amasse avvalorare l’ipotesi - che Petrolini fosse tutto istinto e poca cultura… Può darsi. Punto è che, a conti fatti, balza evidente ad occhi non miopi che il medesimo seppe far sua l’intera - ripeto: intera - lezione poetica delle Avanguardie storiche. Che lo abbia fatto perché, (lui, astemio), fosse una spugna capace di assorbire naturalmente tutti gli umori letterari dell’epoca, anziché essere un topo da biblioteca come Leopardi a me, personalmente, non fa né caldo né freddo: per me conta solo l’espressione.
Per fare un esempio, prendete la lezione di Pound: “La poesia si può fare con qualsiasi cosa”. Che ne fosse a conoscenza per istinto o per intelletto, che ti combina quel mattocchio dell’Ettore nostro? Mica si accontenta di infilare tinche, luzzi e salamini nei suoi non sense, nelle filastrocche, nei calembour, nei gramelot, nei paradossi, nelle tiritere intelligentemente idiote… macché! Perché limitarsi alle forme consolidate dalla tradizione-tradizione o dalla neo-tradizione dell’avanguardia? Eccedere, eccedere bisogna! E, allora, eccolo là ad usare come contenitore formale delle sue invenzioni linguistiche farcite di sciarade, anagrammi, perifrasi, anfibologie, nomi, cognomi, parodie (stupenda quella della già fortunatissima canzone “…ma l’amor mio non muore…”); eccolo là - dicevo - ad usare la forma delle barzellette, dei colmi, delle differenze, dei cartelloni pubblicitari, locandine, biglietti da visita, interviste… Come dire: “La poesia si può fare con qualsiasi cosa”? E sia: allora facciamola con tutto, ma proprio con tutto, eh?
In sintesi finale, potremmo definire l’invenzione linguistica di Petrolini un colossale, geniale gioco di parole. Vi sembra poco? Va beh, siccome mi costringete, “un po’ per celia e un po’ per non morire” vi ricorderò il gioco di parole più risaputo che, secondo tradizione, Cristo inventò per vaticinare la sua chiesa: “Tu sei Pietro e su questa pietra…” con quel che segue. E ne è conseguito. Non abbiatevene a male.
W Petrolini.