Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Durban o della sindrome Maya

Durban o della sindrome Maya

di Florent Varcellesi - 23/12/2011

   
   

Secondo lo storiografo ambientale Jared Diamond, alcune società decidono di perdurare e altre, in modo incosciente, di scomparire. Ad esempio, davanti a un processo avanzato di deforestazione, erosione dei suoli, siccità, cambiamento climatico e guerre, così spiega una delle ragioni del collasso della civiltà Maya nel secolo IX: "I re e nobili non riuscirono a scoprire e risolvere questi problemi apparentemente ovvi e che affossavano la società. La loro attenzione si incentrava sulle preoccupazioni a breve termine per arricchirsi, scatenare battaglie, erigere monumenti, competere tra loro […]. Come la maggior parte dei dirigenti dell'umanità, i re e nobili Maya non tennero conto dei problemi di lungo termine in modo da poterli realmente percepire."

Sfortunatamente, la storia si ripete e le negoziazioni climatiche ricadono ancora una volta nella “sindrome Maya”. Anche se dal 1992 esiste a livello internazionale una cornice legale per lottare contro il cambiamento climatico - che rappresenta un miglioramento in raffronto alla nobiltà Maya che neppure arrivò a diagnosticare correttamente le minacce che doveva affrontare - non smette di sorprendere la Riunione di Durban per l'incapacità dei leader mondiali nel dare una risposta che sia all'altezza della gravità della situazione. La firma di un accordo in extremis non può nascondere una fuga in avanti dei Stato e dei negoziatori, più preoccupati per la riconfigurazione degli interessi geopolitici su scala mondiale dove predominano la competizione ad oltranza, la lotta per le risorse naturali e la corsa alla crescita.

In primo luogo, perché né si realizzano le (poche) promesse di riunioni anteriori e non si ascoltano i consigli degli scienziati riuniti nel Gruppo Internazionale di Esperti sul Cambiamento Climatico (GIECC). Mentre a Copenhagen nel 2009 si stabilì di non superare un aumento di 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali - il limite per non esporsi a cambiamenti totalmente estremi ed irrimediabili secondo il GIECC -, le promesse per la riduzione dei gas serra stilate in Sudafrica presuppongono, né più né meno, un irresponsabile aumento della temperatura pari a quasi 4 gradi nel 2100.

Secondo, perché l'avvio nel 2020 di un nuovo accordo vincolante arriverà troppo tardi. Stiamo lottando contro li tempo. Poco tempo fa l'istituzionale Agenzia Internazionale dell'Energia aveva fissato il 2017 come data limite per delimitare l'incremento di temperature a livelli non irreversibili, e ciò presuppone forti riduzioni dei gas a effetto serra già in questo decennio, non nel prossimo.

Terzo, perché si è svuotato di sostanza il protocollo di Kyoto: nonostante la proroga stabilita per soddisfare all'Unione Europea, rappresenterà solamente il 15 per cento delle emissioni mondiali di gas serra. Oltre all'assenza degli Stati Uniti e della Cina - al momento le principali emittenti di CO2 -, hanno promesso di staccarsi Russia e Giappone, mentre il Canada è già stato il primo paese ad abbandonare il Protocollo di Kyoto, tra l'altro per salvare i contestati giacimenti petroliferi della provincia di Alberta.

Di fronte a questo scenario si devono imporre nuove strategie. Da una parte, il concetto di giustizia climatica si sta rafforzando come asse strategico e punto di incontro per riunire persone e movimenti di diverse provenienze e orientamenti. Oltre alle organizzazioni ecologiste e di solidarietà internazionale nel Nord e nel Sud, è positivo notare che organizzazioni come la Confederazione Sindacale Internazionale ha parlato di Durban come di un pessimo accordo, con danni irreversibili per i lavoratori in termini di sicurezza alimentare, con la proliferazione di catastrofi, la perdita di salute pubblica e una crisi degli impieghi. È stato anche di gran interesse scoprire in questa riunione gli "indignati climatici" attraverso Occupy COP17, una simbiosi tra i movimenti per la giustizia climatica e gli indignati di Plaza del Sol e di Wall Street. Questo incontro tra movimenti di giustizia ambientale, sociale e democratica a livello locale e mondiale è una necessità imperiosa per poter avviare nelle strade e nelle istituzioni quei cambiamenti che i leader attuali non sembrano essere capaci di prendere in questo momento.

D'altra parte, vista la mancanza di un accordo per una vera mitigazione nel corso di questa decade, va riconosciuto che è improbabile che si riesca a stabilizzare l'aumento della temperatura entro limiti ragionevoli. Pertanto, i prossimi anni e decenni si vedranno segnati dall'incertezza di fronte a un cambiamento climatico già inevitabile, ma le cui forme e conseguenze reali ignoriamo per gran parte: non solo siamo oramai nella società del rischio ma anche, come la chiama Lester Brown, nell'"età dell'imprescindibilità". In questo contesto, il nostro primo obbiettivo, oltre alla riduzione, è quello di disporre la maggior parte delle risorse e delle energie disponibili per costruire società resilienti e coese, preparate per affrontare cambiamenti bruschi e probabili punti di rottura e di inflessione. Allo stesso modo le iniziative delle "città di transizione" sono un buon esempio di questo lavoro di adattamento dal basso, e capace di generare nuove sinergie tra movimenti sociali e politici di indole differente.

La cecità si può definire, secondo l'Accademia Reale Spagnola, come una "allucinazione, una causa che offusca la ragione". Alcuni secoli addietro, questa cecità oscurò la vista dei maya. Oggi, disgraziatamente affligge in pieno "i re e nobili" dei tempi moderni. Tuttavia, conosciamo la Storia ed è nostro compito cambiare occhiali perché possa perdurare una civiltà sostenibile.

**********************************************

Fonte: Durban o el síndrome maya

20.12.2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SUPERVICE