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Il circolo vizioso della finanza

di John Lanchester - 29/12/2011

   

John Lanchester, London Review of Books, Gran Bretagna

Dal Giappone agli Stati Uniti fino alla Gran Bretagna. Tre vicende dimostrano che il capitalismo finanziario è diventato un universo regolato da logiche ormai indecifrabili.

Nessun saggio ha un titolo più bello dell’Assassinio come una delle belle arti di Thomas De Quincey. Se fosse ancora vivo, De Quincey potrebbe scrivere il seguito: Il disastro finanziario come una delle belle arti. Forse l’argomento sembrerebbe meno accattivante, ma ci sarebbe parecchio materiale da cui attingere. Come ha sottolineato più volte Warren Buffett, “solo quando la marea scende si capisce chi fa il bagno nudo”. Le crisi economiche e finanziarie fanno sempre emergere scandali e rivelazioni scomode. Adesso che la marea è scesa (per la verità sta ancora scendendo) c’è solo l’imbarazzo della scelta.

In Gran Bretagna lo scandalo più recente ha coinvolto la banca Northern Rock, che con il suo crollo nell’autunno del 2007 aveva dato il via alla stretta creditizia e alla “grande recessione”. La banca è stata di recente ceduta alla Virgin Money per 747 milioni di sterline. Se i profitti della banca cresceranno, aumenterà anche la quota incassata dai contribuenti, fino a un tetto massimo di un miliardo di sterline. Visto che nazionalizzare solo la parte “buona” (cioè presumibilmente la più solvibile) della Northern Rock è costato 1,4 miliardi di sterline, l’affare, come s’intuisce anche dai titoli dei giornali, non è così vantaggioso: nella migliore delle ipotesi i contribuenti ci rimettono 400 milioni di sterline.

Prima che scoppiasse la catastrofe del 2008 era una cifra considerevole. Ma non è tutto. Dietro l’apparente semplicità dell’acquisizione della Northern Rock da parte di Richard Branson e della Virgin, infatti, c’è una vicenda più complicata: quasi tutto il denaro della transazione proviene dal partner di Branson, W. L. Ross and Co., una società specializzata in aziende in difficoltà e titoli sottovalutati (uno dei soprannomi di Wilbur Ross è “re della bancarotta”). Queste sono le quote: 260 milioni di sterline sono stati versati da W. L. Ross, 50 milioni dalla Virgin Money e altrettanti dal fondo d’investimento di Abu Dhabi.

Avrete notato che la somma è ben lontana dai 747 milioni che sono serviti per comprare la banca. Da dove sono arrivati gli altri soldi? Risposta: l’acquisizione è stata pagata in buona parte con il capitale della nuova banca, pari a circa 400 milioni di sterline. Al momento della pubblicazione degli ultimi risultati, il capitale tier 1 della Northern Rock (cioè il suo patrimonio di base) corrispondeva al 30 per cento delle attività complessive della banca. Questa percentuale misura il grado di sicurezza di una banca, perché rivela quanta liquidità c’è in cassa. Più alto è il rapporto, più sicura è la banca. Il tier 1 minimo di una banca in Gran Bretagna è il 10 per cento. La Virgin ha promesso che per la nuova banca il rapporto sarà del 15 per cento, molto più basso rispetto al margine attuale.

In parole povere gli acquirenti stanno usando il capitale della Northern Rock per acquistare la Northern Rock. È una transazione piuttosto comune nel mondo della finanza, ma non tanto da placare le ansie di un’opinione pubblica che non ne può più di complesse operazioni di ingegneria finanziaria. Per farla breve, l’affare Virgin si traduce in una perdita secca per i contribuenti, usa tecniche finanziarie astruse, simili a quelle che hanno fatto crollare la Northern Rock quattro anni fa, e rende la banca notevolmente meno sicura. Sotto ogni punto di vista è stata una soluzione meno vantaggiosa rispetto all’alternativa caldeggiata dalla maggioranza dei cittadini, quella di dar vita a un istituto di credito fondiario “mutualizzato”, cioè controllato dai risparmiatori e dai dipendenti, che ne avrebbero ottenuto la maggioranza azionaria. Sotto ogni aspetto, si diceva. Escluso uno, però: cioè il fatto che quella della Virgin è stata l’unica offerta concreta.

Scommesse troppo rischiose
Dopo l’annuncio della vendita alla Virgin, in parlamento è emerso che la Commissione europea, in cambio dell’autorizzazione a nazionalizzare la Northern Rock, aveva fissato un limite di tempo entro il quale la banca poteva rimanere sotto il controllo dello stato (restando pubblica, infatti, la Northern Rock può offrire maggiori garanzie ai clienti e fare investimenti più rischiosi, impossibili per le altre banche). Questo termine scade nel 2013. Alla luce di questa scadenza, e del fatto che sul tavolo non c’erano altre offerte concrete, il governo è stato costretto a scegliere tra un uovo oggi e una gallina domani. Non credo che avesse un gran margine di manovra. È vero, il contribuente è rimasto fregato. Ma non si tratta di uno scandalo inatteso, quanto dell’inevitabile epilogo del crollo della Northern Rock nel 2007.

Da un punto di vista estetico, credo che De Quincey avrebbe preferito lo scandalo americano della Mf Global. In questo caso il personaggio centrale è Jon Corzine, nome non molto noto al di fuori degli Stati Uniti. Corzine è stato amministratore delegato della Goldman Sachs dal 1994 al 1999 e ha gestito la quotazione in borsa della banca, un’operazione che ha fatto piovere una gran quantità di denaro nelle tasche degli ex partner dell’istituto. Si dice che, quando era alla Goldman, Corzine salutasse i colleghi dicendo “pace” (se avessi lavorato anch’io alla Goldman, gli avrei risposto “soldi”).

Nel 1999 Corzine è stato liquidato con una buonuscita di 400 milioni di dollari. Incassato il bottino, si è messo in politica con il Partito democratico e ha investito la sua fortuna per comprarsi un seggio al senato per il New Jersey. È stato senatore dal 2001 al 2006, poi governatore dal 2006 al 2010, quando è stato sconfitto dal repubblicano Chris Christie. Dopo essere passato dai soldi alla politica è tornato ai soldi: è diventato amministratore delegato della società di brokeraggio Mf Global, con la promessa di trasformarla nella nuova Goldman Sachs.

In molti hanno provato a fare concorrenza alla Goldman. Non è mai finita bene. La Mf Global è una società di intermediazione, cioè un’azienda che sostanzialmente compra e vende cose per conto dei clienti. È difficile che queste società possano crescere tanto e così rapidamente da sfidare le grandi banche d’investimento. Corzine, quindi, ha usato la Mf Global per mettersi a fare trading in proprio, investendo (leggi “scommettendo”) cifre enormi sui debiti pubblici dei paesi dell’Unione europea. La scelta dei tempi è stata singolare: un po’ come puntare tutto sui dirigibili mentre l’Hindenburg si appresta a decollare per il suo ultimo viaggio. Quando è scoppiata la crisi dell’eurozona il valore di questi investimenti è crollato.

Per continuare a operare, Corzine avrebbe dovuto ricapitalizzare la società, ma non ne aveva i mezzi. Così il 31 ottobre ha portato i libri in tribunale. È qui che questo fallimento, losco ma tutto sommato ordinario, assume i toni dello scandalo. Oltre a non avere un soldo in cassa, infatti, la Mf Global ha perso anche i soldi che doveva gestire per conto dei suoi clienti. Inizialmente i liquidi scomparsi ammontavano a 600 milioni di dollari, ora la stima è salita a circa 1,2 miliardi. Non parliamo di perdite della società, ma di soldi dei clienti che, a quanto pare, sono andati smarriti. Per ora la vicenda si ferma qui.

Per una singolare coincidenza, la somma mancante è quasi la stessa di quella che è andata persa nel terzo scandalo di cui ci occupiamo e che coinvolge il colosso giapponese della fotografia Olympus. Alcuni mesi fa, l’azienda ha nominato un nuovo amministratore delegato, il britannico Michael Woodford. Questo manager lavorava alla Olympus da trent’anni, ma la nomina di un occidentale a capo di una grande azienda è comunque un fatto insolito in Giappone (l’unico precedente è quello del gallese Howard Stringer alla Sony). Appena insediato, Woodford ha espresso forti perplessità su una serie di investimenti inspiegabili: 687 milioni di dollari in consulenze per l’acquisizione di una ditta britannica di apparecchiature mediche, contabilizzati attraverso misteriosi intermediari alle Isole Cayman e a New York, e altri 773 milioni per comprare un’azienda di cosmetici, una che produce contenitori di plastica e una che si occupa di smaltimento dei rifiuti (tutte e tre hanno perso tre quarti del valore in un anno).

Queste stravaganti operazioni sono costate alla Olympus circa 1,4 miliardi di dollari. Il 14 ottobre il consiglio ha licenziato Woodford, accusandolo di non conoscere la cultura degli affari giapponese. L’azienda ha ammesso l’esistenza di transazioni poco chiare, ma ha detto di averle decise per nascondere le perdite causate da altri investimenti. A quanto pare, la magistratura sta indagando su eventuali collegamenti tra le operazioni sospette e la yakuza, la mafia giapponese.

I possibili legami con la criminalità e i grandi capitali coinvolti rendono l’affaire Olympus il più interessante fra i tre. Forse, però, il particolare più importante è la somiglianza tra queste vicende. Tre grandi aziende, tre settori diversi, tre paesi diversi e un unico filo conduttore: un osservatore esterno, anche mettendoci la massima attenzione e studiando tutte le informazioni disponibili, non sarebbe riuscito a capirci nulla. Siamo di fronte a quella che De Quincey avrebbe definito una “perfida impenetrabilità”. Nessuno sa niente. Benissimo: questo principio, però, non dovrebbe valere per le grandi aziende quotate in borsa nelle economie sviluppate. Eppure, a quanto pare, anche qui – anzi specialmente qui – nessuno sa niente. Incredibile. In questo momento il quadro economico è talmente fosco che sembra inutile agitarsi per questi dettagli. Ma questi dettagli sono importanti, perché fanno capire quanto il capitalismo stia funzionando male. Anche in base alle sue stesse logiche.

Traduzione di Fabrizio Saulini.

Internazionale, numero 929, 23 dicembre 2011

John Lanchester è un giornalista britannico. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Dalla bolla al crac.