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Nelle «belle addormentate» di Kawabata l’estrema reificazione necrofila dell’essere umano

di Francesco Lamendola - 29/12/2011






Yasunari Kawabata è l’anti-Bergman?
Se, nel magistrale film «Il posto delle fragole», il regista svedese leva una voce di speranza nella possibilità della redenzione dall’egoismo, anche nell’estrema vecchiaia di un essere umano, nel romanzo «La casa delle belle addormentate» lo scrittore giapponese sembra, invece, affermare con estrema recisione che no, non esiste possibilità di redenzione e si invecchia e si va verso la morte così come si è sempre vissuto: gli egoisti, gli avidi, i lussuriosi, portandosi appresso tutto il loro fardello di egoismo, di avidità e di lussuria.
Nel suo romanzo breve (o racconto lungo, come lo si voglia considerare), Kawabata descrive, con rara maestria psicologica e stilistica, le sensazioni di un uomo ormai prossimo alla settantina, ma ancora divorato dal demone della lussuria, una specie di esteta raffinato, un Dorian Gray alla rovescia, che sente il peso crescente della vecchiaia e soprattutto dei rimorsi e dei rimpianti; che sa di aver fatto del male alle donne che ha amato o che lo hanno amato e sente l’avvicinarsi della fine, ma non sa staccarsi dalla sua ossessione erotica per le ragazze molto giovani, anche se ormai relegata nella sfera della pura contemplazione.
Un giorno viene a sapere casualmente dell’esistenza di una strana casa di piacere, riservata a persone rispettabili e anziane come lui, nella quale le ragazze giacciono addormentare mediante potenti sonniferi: ai clienti è concesso giacere nel letto con loro, ma con la regola di non abusarne sessualmente, bensì di limitarsi a guardarle, a godere del contatto fisico, a fantasticare su quelle carni abbandonate nel sonno.
Eguchi, questo il nome del protagonista, diventa così un assiduo frequentatore dell’insolito bordello, nel quale la sua sfrenata immaginazione può spaziare liberamente e sbizzarrirsi nelle sue fantasticherie, anche se non sempre le ore che trascorre in quegli amplessi incompleti e segreti sono liete; anzi, frequentemente i suoi sogni sono popolati da ricordi sgradevoli, da senso di angoscia e turbamento, da cocenti rimorsi, da malesseri ai quali non riesce a sottrarsi.
Il contatto con quei corpi giovani e caldi lo inebria, ma al tempo stesso lo turba ed esaspera la sua morbosa e torbida sensualità; si tratta di un rito molto simile al vampirismo, nel quale il vecchio succhia l’energia vitale delle sue vittime inconsapevoli; e, più ancora, di una inclinazione che confina con la necrofilia, perché il sonno delle ragazze è così profondo, il loro abbandono così totale, che esse sono ridotte a una semplice parvenza di persone vive, in un certo senso a dei cadaveri viventi, del tutto esposti e indifesi e alla mercé dei perversi clienti.
La reificazione di queste ragazze, la loro riduzione a cose, la loro totale alienazione e la loro espropriazione di se stesse, della propria condizione di persone reali e viventi, raggiunge il culmine allorché, una notte, Eguchi si rende conto che una di esse, che gli giaceva accanto, è realmente morta: lo comprende dal freddo del suo corpo e dall’assenza del respiro.
Spaventato, egli chiama la “padrona” del bordello e la incita a chiamare un medico, ma ella non mostra alcuna intenzione di farlo: cerca di convincerlo che la ragazza non è morta e lo invita ad allontanarsi, ma con discrezione, aspettando il mattino per non attirare l’attenzione di qualche importuno passante nel cuore della notte; e, davanti alla sua perplessità, gli rivolge una domanda di intollerabile cinismo: non ci sono forse altre ragazze, nella “casa”, per preoccuparsi tanto della sorte di una di esse in particolare?
Non si tratta più di persone, appunto, ma di cose: e le cose sono perfettamente intercambiabili.
Osservava un altro grande scrittore giapponese, Yukio Mishima, in un acuto saggio sul romanzo di Kawabata (in: Y. Kawabata, «La casa delle belle addormentate» (titolo originale:«Nemureru Bijo», 1960; traduzione di Mario Teti; Mondadori, Milano, 1982, prefazione di Y. Mishima, X-XII):

«”La casa delle belle addormentate” spicca tra le opere  di Kawabata per la sua perfezione formale.  Alla dine la ragazza bruna muore e la “”donna della casa” dice: “Di ragazze ce n’è altre, no?”. Con questa sua ultima osservazione, essa porta la casa del piacere, sino allora tanto attentamente e minuziosamente edificata, a una rovina umana che oltre ogni possibile descrizione. Questa osservazione può sembrare casuale, ma non lo è. Istantaneamente essa rivela l’assenza disumana di una struttura che all’apparenza sembra costruita con cura e solidamente e di questa essenza disumana partecipano la “donna della casa” e il vecchio Eguchi stesso.
Ed è per questa ragione che “nulla aveva mai colpito tanto il vecchio Eguchi quanto questa osservazione”.
Per Kawabata l’erotismo non ha mai mirato alla totalità, perché l’erotismo come totalità implica umanità. Il piacere si avvale inevitabilmente di frammenti, ed essendo così privo di soggettività, le stesse belle dormienti sono frammenti di esseri umani che spingono il piacere alla sua massima intensità. Paradossalmente, un bel cadavere privo ormai delle ultime racce di spirito, dà le più forti sensazioni di vita. Dal riflesso di queste violente sensazioni in chi ama, il cadavere promana le più intense irradiazioni vitali.
A un livello più profondo, questo tema è correlato a un altro importante tema contenuto nell’opera di Kawabata: il suo culto delle vergini. Qui è la sorgente del suo limpido lirismo, ma sotto la superficie c’è qualcosa i comune con i temi della morte e dell’impossibilità. Poiché una vergine on è più tale quando è violata, l’impossibilità di raggiungere lo scopo è una premessa necessaria per porre la verginità oltre l’agnosticismo. E questa impossibilità non pone forse una volta per tutte l’erotismo e la morte nello stesso luogo? E se noi romanzieri on apparteniamo al versante della “vita” (essendo confinati all’astrazione di una specie di perpetua neutralità), allora “l’irradiazione della vita” può apparire soltanto nel regno dove morte ed erotismo stanno insieme.
“La casa delle belle addormentate” comincia con la visita del vecchio Eguchi a una casa segreta condotta da  “una donna, piccola e sulla quarantina”. Poiché la ragione della sua presenza è quella di pronunciare l’osservazione estremamente importante della conclusione, essa è ritratta nei suoi particolari più inquietanti, quali il grande uccello del suo “obi” o il fatto che sia mancina.
Si resta colpiti di ammirazione per la precisione e la straordinaria finezza dei particolari che Kawabata  impiega per descrivere la prima delle “belle addormentate” con cui il sessantasettenne Eguchi  trascorre la notte: è come se essa venisse carezzata dalle parole. Ovviamente, questa precisione e questa finezza alludono a una certa obiettività disumana insita nelle qualità visive del piacere maschile.
“La ragazza teneva il polso destro fuori della sopraccoperta. Sembrava che la sinistra fosse allungata obliqua sotto le coperte, ma la destra, in una posizione tale che soltanto metà del pollice era nascosto sotto la guancia, sfiorava i volto addormentato, appoggiato sul guanciale, e le dita, nell’abbandono del sonno, si incurvavano appena, non tanto da non far indovinare le graziose fossette alle giunture. Il rosso caldo del sangue sul dorso della mano si faceva via via più intenso verso le punte. Era una mano bianca e morbida”.
“Un ginocchio piegato della ragazza sporgeva in avanti: Eguchi disponeva quindi di uno spazio limitato per le proprie gambe. La ragazza, che dormiva sul fianco sinistro, non aveva il ginocchio destro ripiegato sul sinistro in una posizione difensiva, ma teneva la gamba completamente distesa.: Eguchi lo capì senza neppure guardare.”
Così la ragazza, che è diventata una “bambola vivente”, è per il vecchio “quella vita con cui si può tranquillamente entrare in contatto”.
E quale splendida tecnica erotica abbiamo quando il vecchio Kiga vede le bacche di pungitopo nel giardino. “In terra ce n’erano diverse. Kiga ne riportò soltanto una e mentre la rivoltava tra le dita, gli parlò di quella casa del segreto.”
Da questo brano, press’a poco, la sensazione di chiusura e di soffocazione comincia a prendere i lettore. Le tecniche abituali del dialogo e della descrizione dei personaggi non sono impiegate nella “Casa delle belle addormentate”, perché le ragazze dormono. È una cosa assai rara in letteratura rendere con tale vivezza  il senso di una vita individuale mediante la descrizione d figure dormienti. [Traduzione di Aldo Chiaruttini.]»

L’erotismo del particolare, dunque, non può che essere sadismo e istinto di morte: perché il particolare è la separazione dal tutto, dal tutto del corpo e dal tutto della persona; e quando ciò avviene, quel che resta non è più un essere reale, un essere vivente, ma un manichino ridotto a pezzi, un semplice oggetto di sensazioni, una “cosa” senza dignità, senza diritti e senza vita.
L’erotismo, naturalmente, non possiede sempre questa caratteristica necrofila; al contrario, quando ciò avviene, ci si trova in presenza di un erotismo distorto, deviato, pervertito, non di un sano erotismo che nasca da un sano istinto sessuale.
E tuttavia, sembra suggerire Kawabata - e, con lui, Mishima - esiste davvero un confine netto e preciso fra l’erotismo “sano” e quello patologico?
Pur senza cadere nelle forme abominevoli descritte dal marchese De Sade, non è forse vero che nell’erotismo esiste sempre, in grado maggiore o minore, una certa propensione per il particolare, dunque per la violenza, almeno a livello di fantasia, e per l’istinto di morte?
E non è forse vero che al sadismo maschile corrisponde il masochismo femminile; che al piacere maschile di contemplare, dominare e possedere illimitatamente un corpo inerme, arrendevole, ridotto a “cosa”, corrisponde un eguale desiderio femminile di abbandonarsi, di essere violate, di essere reificate?
Beninteso: nell’istinto sessuale “normale”, tutto ciò è appena percepibile, appena vagamente intuibile, magari a livello di istinti profondi sovente sconosciuti a coloro stessi che li provano, o appena semi-coscienti.
E nondimeno: non è forse vero che il demone dell’erotismo violento, distruttivo, tendenzialmente necrofilo, si annida e sonnecchia nel cuore umano, tanto dell’uomo che della donna, e attende solo l’occasione di risvegliarsi?
Quante persone potrebbero confessare apertamente le proprie fantasie sessuali, quando la loro parte cosciente e razionale si abbandona ed emerge la loro parte istintuale, robustamente sensuale, in tutta la sua forza ed irruenza?
Si dirà che non c’è nulla di male ad avere delle fantasie sessuali; che esse, anzi, sono un utile complemento all’esplicitazione del rapporto sessuale; è possibile, anzi, è praticamente certo: ma ciò chiude la questione, o non getta piuttosto una luce significativa sulla fondamentale ambiguità della dinamica sessuale in se stessa?
Che cos’è, infine, questa “fame” dell’altro, del suo corpo, della sua forma fisica, della sua stessa volontà; questo istinto di dominarlo, di possederlo, di farlo proprio, metaforicamente di divorarlo («ti mangerei!», esclamano sovente gli amanti, nella foga dell’amplesso), se non una forma travestita dell’istinto di morte?
Non si vuole, con ciò, demonizzare il la dimensione sessuale in quanto tale; si tratta di guardare le cose per quello che sono, poiché solo guardandole in faccia si può imparare a elaborarle, a gestirle, a indirizzarle in maniera positiva e non distruttiva.
Le manifestazioni della violenza incontrollata nascono dal mancato riconoscimento di quel che si prova e dall’insufficiente chiarificazione dei propri istinti, non certo dal fatto di esserne divenuti coscienti.
In particolare, chi sa ciò che alberga nel suo cuore, impara a cercare la realizzazione di sé in armonia con la propria parte più vera e profonda e in armonia con gli altri, non in una disperata opposizione e in un conflitto permanente, tanto angoscioso quanto sterile e distruttivo.
Per l’uomo e per la donna liberati dai propri fantasmi interiori mediante la verità, la dinamica sessuale non è fonte di turbamenti, di tensioni, di inconfessabili istinti di morte, anche se singole situazioni possono creare difficoltà e sofferenza; ma è, semmai, sorgente di bontà, verità e bellezza.