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Il 2011 di Tranströmer e Zanzotto: poeti viventi e poeti vivi.

di Andrea G. Sciffo - 04/01/2012


 

I.

Per qualche giorno, la poesia è tornata a occupare un piccolo spazio nel magma delle notizie mediatiche del caldo autunno del 2011: al conferimento del premio nobel per la letteratura allo svedese Tomas Tranströmer, è seguita la morte del veneto Andrea Zanzotto.

I due sono emersi dal niente in cui vegeta la poesia, per segnalare col loro volto rugoso di vecchi che la poesia ancora esiste: per dire che c’è una differenza tra poeti viventi e poeti vivi.

Però non è un gioco di parole la poesia, perché non lo è la vita. Per aver abbandonato la lingua di un popolo nelle mani dei pubblicitari e dei creativi, trent’anni fa, ora paghiamo le conseguenze sino all’ultimo spicciolo. In che senso? Vivendo nel perenne sospetto, per la prima volta nella storia dell’umanità, che qualunque affermazione possa essere falsa o tendenziosa o menzognera.

È successo che gli slogan della comunicazione hanno soffocato il linguaggio della poesia, il quale, dal canto suo, nei due Dopoguerra pareva già disponibile a concedersi in adulterio perché s’illudeva di poter venire patti con la “macchina sociale”, cioè credeva di addomesticarla. È avvenuto esattamente il contrario, e i poeti di oggi sono i nipoti di quegli ideologi (politici, critici, avanguardisti, opinionisti) che erano sicuri di “marciare nel senso della storia”, dalle Avanguardie Storiche al Gruppo 63 ai Novissimi.

Così, in un soprassalto di femminilità disperata, i poeti contemporanei avevano tentato di adattarsi a tutti i costi al mondo moderno, che è per sua natura l’epoca che fabbrica disagio e produce disadattati.

Non è detto che Ezra Pound avesse ragione quando profetizzò ventura la fine della poesia con la fine del Novecento; però è vero che la lingua di tutti è nelle sgrinfie di una cantilena di parole divorziate dal significato (e qui nessuno, dagli accademici agli specialisti agli “sperimentatori”, può dirsi innocente): cioè nelle braccia degli spot, dei jingle, dei brand, dei pop-up e dei banner di una generazione che ha frequentato liceo e università per poi perdere l’uso del discorso povero, grezzo, saporito e sensato. Sono andate perse le parole per dire le uniche cose essenziali della vita: per dichiararsi innamorati, per ringraziare i genitori o un amico, per riannodare un rapporto dopo uno scontro, per parlare anche con qualcuno che ha i giorni contati e si avvia alla fine. Non ci sono parole, per queste cose: è il risultato dell’aver “insegnato” il linguaggio.

Ivan Illich, in una conferenza tenuta al Central Institute of Indian Languages (Mysore, 1978), contrapponeva a questo assurdo discorso colloquiale “insegnato” nelle scuole il discorso vernacolare, cioè quello che s’impara da soli e “che non costa nulla”.

Il vernacolo si diffonde attraverso l’uso pratico. Lo si impara da persone che pensano ciò che dicono e dicono ciò che pensano a un interlocutore in un contesto concreto. […] il vernacolo si genera in colui che lo apprende grazie alla sua presenza in situazioni in cui le persone si dicono le cose faccia a faccia.

Il diplomato, laureato, inquadrato, addottorato di oggi può vernacolare? Probabilmente no, e questa è la tragedia del presente.

Allora davvero non è un gioco di parole suddividere i poeti in “vivi” e “viventi”: i primi, sempre a rincorrere le tendenze del proprio tempo, che sfuggono a qualunque abbraccio come Dafne ad Apollo; i secondi, in balia di problemi più grandi di loro, tra gioia e disperazione nella stessa giornata, sballottati come alghe dalle onde di un mare che non è solo forza abissale ma anche padre misterioso e amorevole.

Sono poeti “viventi” in quanto presenti alla realtà del mondo, che è sempre sconosciuta, anonima, vera, ignota, confinante col nulla: appaiono impotenti, a prima vista, e inermi. Gli altri li chiameremo i poeti “vivi”, spesso solo accidentalmente vivi perché colgono invano l’attimo e quasi sempre si riducono, così ipercinetici, a essere meno vivi dei morti.

 

II.

Il problema della critica è sempre quello di decidere chi sia poeta e chi no; e il grande albero della poesia viene suddiviso nelle sue branche di poeti maggiori, minori e minimi. Ma in seguito al proliferare delle piccole case editrici “specializzate” in versi, dell’autoeditoria a pagamento (una definizione quasi pornografica, quest’ultima…) e dei blog individuali di poesie inedite sul web, la realtà di fatto ha deciso da sé: che tutti siano poeti, dunque nessuno lo sia davvero.

Ecco perché distinguere tra “vivi” e “viventi”: se una volta, i caporedattori decidevano che cosa pubblicare, con il famigerato visto: si stampi…, oggi stabilire categorie è un atto di giustizia antipatico, antiaccademico e antieconomico; lo fanno solo gli studiosi ruspanti, gli anonimi che danno voce al coro del canto di un popolo in un determinato momento del tempo: il loro è  il movimento ingenuo di chi vuole “ritornare al mondo” (come affermava Rodolfo Quadrelli a proposito dei lirici venuti dopo il Simbolismo europeo). E in un’età di parole artificiali per surrogati di esperienze, è bene ricordare che il gruppo di simili scrittori è meno numeroso di quanto si immagini: chi aspira a farvi parte, non potrà mai essere sicuro di appartenervi. È infatti venuta l’epoca in cui bisogna accettare di essere “poeti di desiderio” e persino “cristiani di desiderio”.

La letteratura è fatta dai lettori, dall’Illuminismo in poi, e oggi che in Occidente non esiste più il “popolo” i libri si scelgono in base a criteri logori o per capriccio individuale, perché l’uomo contemporaneo, diceva Manzoni, è diviso “tra il falso e il nulla”. Tra l’altro: che cosa leggono i poeti? Generalmente, soltanto se stessi. Certo, non è un male rileggersi, perché la poesia è ispirata di getto ma vuole giorni e giorni di cesello, di revisioni, di labor limae: se però l’alternativa allo Specchio di Narciso è soltanto il guardare il video, ecco che quello che era solo un tic o una coazione a ripetere, diventa un vizio.

Date simili premesse, oso presentare quattro poeti “viventi”. Con quale criterio? Non scandalizzerò se dico che il mio incontro con questi poeti è avvenuto per puro caso.

 

Una damigella incolume: Elena Bono

 

 

Nell’ultima stagione della propria attività di critico, Rodolfo Quadrelli sosteneva che “alla fine dell’800 si verificò, nella letteratura occidentale il più grave episodio di non integrazione del poeta nel mondo a lui contemporaneo. […] L’opposizione del poeta nei confronti del mondo si espresse, in questo frangente, nei modi più drammatici, vale a dire sotto le specie del rifiuto totale” (Il Tempo del 2 ottobre 1981).

A che cosa si opponeva la signorina Elena Bono allorché nel 1952, a trentun anni, vide pubblicati i versi de I galli notturni e, subito dopo, i racconti perfetti de La morte di Adamo (1956) e poco oltre ancora una collezione di poesie dal titolo Alzati Orfeo, nel 1958? Quale “rifiuto totale” per quella damigella ligure sulla quale l’editore Garzanti scommise, come autrice di punta della nuova letteratura italiana, da portare in palmo di mano assieme al poco più giovane di lei Pierpaolo Pasolini?

Per Quadrelli i poeti autentici rifiutarono “quella che sembrava volgarità della scienza alleata all’idea di progresso, alleata questa, a sua volta, alla praticità e alla mercantilità di tutto”: ma per questo motivo molti finirono per accettare il destino di poeti sopravissuti, cultori della parola, dei Decadenti insomma. Tutt’altro: la poetessa Bono è di quelle donne che accettano il proprio destino scegliendolo.

Così la sua poesia sbocciava nell’alveo della tradizione, pur restando radicata (a volte ancorata o inchiodata) alla storia. Nel senso in cui anche un bambino, quando legge una poesia, si chiede subito come mai nelle poesie non ci siano quasi mai le cose “tecniche”, e i rifiuti solidi urbani, e le scorie che qualunque marchingegno produce; nel senso in cui ogni bambino sa che le poesie sono reali, e che gli strumenti della “scienza” (con il male che necessariamente si portano appresso) devono chiedere ogni volta il permesso, se vogliono fare ingresso. Perché le diecimila cose ingombrano il mondo, ma esistono solo se la poesia dà loro il permesso di entrare.

L’opera omnia poetica di Elena Bono vegeta in un’atmosfera rarefatta non per schizzinosa selezione bensì poiché purificata: ogni volta, le parole chiedevano alla poetessa di farle entrare e lei, damigella severissima, glielo concedeva solo a patto che esse avessero la chiave d’oro, il lasciapassare. Così il linguaggio lirico della Bono lascia intendere la profondità dolorante di un simile procedimento poetico, tutto recitato su una scena infiammata. Muniti di matita rossa, segniamo ogniqualvolta il verso nomini il cuore: decine, centinaia di volte. E una stanca ripetizione? Faremo da soli la grande scoperta… e verrà di conseguenza dover usare il pastello verde per sottolineare ciò che verdeggia, e la tinta dorata per miniare i punti in cui si distilla l’elisir. Lo scopritore, commosso, sente che l’infinito si lascia conoscere di persona.

Questo, dei poeti, è il quadrelliano modo con cui si ritorna al mondo: un atto arduo per una “testa debole” o per gli artisti “intellettualoidi”, ma per altri una scelta agonistica dei temi e dei soggetti che ha sempre la forma di un innamoramento e di una lotta; mentre i Decadenti e i moderni non hanno nemmeno la forza di innamorarsi! Per Elena Bono, le eroine greche della tragedia, gli atti cruenti del Vangelo in Palestina, i potenti e gli umili della storia genovese del Cinquecento, le storie di uomini medievali e rinascimentali, non sono semplicemente buoni argomenti per un dramma teatrale o per un poemetto: sono drammi presenti (e quante volte l’autrice avrà sofferto con loro, a distanza di secoli, mentre ne scriveva sulla pagina!).

Questa immedesimazione permise alla Bono di scrivere anche della Resistenza nei pressi di Chiavari: non tanto perché l’avesse vissuta in prima persona, come inerme staffetta partigiana, ma perché l’aveva capita soffrendola sino all’estrema soglia delle “ragioni del cuore”, là dove la differenza tra una vittima e l’invasore, per esempio, assume una luce diversa da quella politica, piatta, moderna.

Quanti abbiano incontrato Elena Bono un tempo, o anche ora che dal suo letto di dolore, nonagenaria, aspetta di salpare verso l’eternità, capisce che cosa s’intende: è un rapporto intensissimo che si produce, lei quasi cieca, nello spazio spirituale (due metri di solito) che separa l’interlocutore da lei, seminferma.

Così le sue “Stanze per Rinaldo”, sconosciute al grande pubblico e alla critica ufficiale, entrano nell’antologia poetica universale: come un vascello solca le onde.

 

Poetare nella città eterna: Giovanni Casoli

 

Come i santi che portano il suo nome, suoi illustri predecessori nel Martirologio, il romano Giovanni Casoli è poeta potente e dunque capace di cose delicate, contingenti e dunque ricolme di eterno: si nutre, in metafora, di locuste e miele selvatico nei paraggi di Patmos, è voce che grida nel deserto urbano e attende alla redazione della sua, cioè nostra, apocalisse. Di recente ho condiviso la sua ospitalità viaggiando in treno per rivedere il suo volto, verso la Capitale: come nelle sue poesie, attraverso la Penisola tutto rimaneva realistico (anzi, reale) e però poeticissimo.

In comune con Hölderlin, Casoli non ha né la follia né l’isolamento nella torre; però le poesie gli fluiscono come sgorgavano al tedesco, come orli di montagne in cui tutto è connesso e intimo. A distanza di anni l’ho ritrovato ovviamente invecchiato, però non “più vecchio” e perdipiù mi è parso ringiovanito: stando ai suoi versi, dato che di parole è parco, sta diventando ogni giorno più giovane, e un giorno nascerà. Nella sua lirica dal titolo “Infine” scopriamo che:

 

Un tumore un infarto un declino

e andremo alla radice dei tramonti,

saliremo alla fonte delle stelle.

Dal chiuso della morte come nuove

acque scaturiremo a un nuovo sole

in nuovi cieli e terre tolta

ogni lacrima. Ritrovata

la nostra infanzia finalmente avremo

pietà di noi, permetteremo

a Dio di perdonarci.

 

In questa direzione si po’ affermare che Casoli sia poeta di fede: perché sente che il Signore da qualunque situazione lo farà uscire, o di qua o di là.

L’ho capito nella nostra conversazione durata poco più di mezz’ora benché attesa da otto anni: ho sperimentato che gli occhi sono purificati da quello che guardano. E che nella vita perdere è più importante che acquisire, come scriveva Pasternak a Olga Frejdenberg nel 1948: “come se tutti intorno a me fossero infelici e io solo mi permettessi di essere felice a vostre spese. Ed effettivamente sono felice alla follia, inimmaginabilmente felice della larga e aperta libertà delle mie relazioni con la vita; così avrei dovuto essere a diciotto o vent’anni, ma allora ero inibito, ancora non mi ero confrontato con tutto ciò che esiste sulla terra e non conoscevo così bene la lingua della vita, la lingua del cielo, la lingua della terra, come la conosco ora”.

Ritroviamo questo ringiovanire cogli anni nel libro di Giovanni Casoli intitolato La bellissima perdita (Marietti 1820, 2006; pp.140 €12). Inutile aggiungere che tali poesie sembrano dedicate agli amici che il destino ha voluto far nascere a cinquecento chilometri di distanza, e con ventiquattro anni di differenza d’età: dal punto di vista dell’eterno, un nonnulla. E difatti io ci spero, che poi “recupereremo”.

 

Ogni istante com’è: Diego Bissacco

 

 

Nella lotta senza quartiere che il poeta compie contro tutto ciò che è ovvio e dato per scontato, non ci sono momenti di pausa: è una stanchezza, a coglierlo ogni tanto, una spossatezza che altri lavoratori ignorano.

Il mestiere della poesia è un lavoro pesante e sfibrante. Chi crede a questa verità senza sorrisetti ironici, sa che c’è un’altra suddivisione da dare ai poeti: tra quelli che cantando si domandano “dove troveremo tutto il pane, per sfamare tanta gente?” e quegli altri che recitando le loro rime si chiedono “chi aiuterà a sgomberare le macerie?”. Tra i due gruppi ci sono peraltro continui passaggi, dall’uno all’altro, un andirivieni anche nel breve giro di una vita o di una stagione; l’ho capito da alcune liriche di Bissacco: come quando afferma ne Il tagliando

 

Se alla lunghezza del raggio d’azione

corrispondesse l’intensità dell’esperienza

la mia storia sarebbe da buttare.

Ma la vita è una questione più complessa

 

di qualsiasi dimensione orizzontale,

è una difficile partita che si gioca

su piani, linee e proiezioni

di un grande campo tridimensionale.

 

Mi ha chiesto quanti chilometri ho percorso.

Poco più di ventimila, ho risposto,

e quasi tutti sulla stessa provinciale.

Non ha capito: intendevo in verticale.

 

Così il quotidiano di uomo può illuminarsi dall’interno, e divenire un atto sacramentale nel gran teatro del mondo: Bissacco raccoglie appunti e trascrive le battute nel suo Ogni istante com’è (Albatros – Il Filo, 2009; pp.175 € ?) perché il rivolo nero delle parole dei suoi “versi” sul foglio è il succo dolente delle foglie verdi che ogni anno mancano al mondo, è l’umido evaporato, è la quiete che manca e con cui sopportare una malattia incurabile di una persona cara: è l’irrimediabile. E benché la realtà sia creata, dunque abbia una straordinaria forza elastica, tutti questi poeti sentono o inducono a sentire che la consunzione è alle porte.

 

La Brianza con coda dell’occhio: Renato Ornaghi

 

 

La Natura fa salti, e che salti!, che all’occhio dello scienziato appaiono altro: crede che siano “teoremi” soltanto perché alla fine i conti tornano e sotto lo svolgimento si può scrivere CVD, come volevasi dimostrare. È come quando una professoressa interroga uno studente che le sta antipatico: l’insegnante fa caso solamente a quello che l’allievo non sa, o sbaglia.

È davvero un compito arduo, quello di ricondurre gli “uomini di scienza” al respiro della poesia: a pochi riesce, di rallentare e toccarli per farli rallentare; di mettere a fuoco con gli occhi per aiutarli a una nuova messa a fuoco; infine, di distrarsi, per distrarre anche loro e, forse, indurre il miracolo del “vedere”. Ma vedere che cosa? Che la Natura fa salti. S’interrompe per riprendere altrove, senza una logica apparente… Saltabecca ora qua ora là incoerentemente; lascia dei vuoti, spazi, lacune, smagliature, incompiute: probabilmente, nella sua ampia generosità, non sa nemmeno contare.

Per questo, i nostri sforzi di inseguirla hanno lo stesso effetto di chi corteggia una donna che non ha la minima intenzione di concedersi.

Però Ornaghi ha dalla sua un dono: che il verso poetico gli si combina tra le mani. Così, credo, va componendo la maglia fitta di numeri e lettere e cifre della sua bio-teologia e del suo Canzoniere petrarchesco nell’epoca del nanotech;  sarebbe decisivo sapere se ha composto i suoi sonetti su carta, con la penna, per appunti presi al volo in treno, o direttamente con la tastiera e il mouse davanti allo schermo del video. È questa la frontiera della filologia, dell’ecdotica e della variantistica oggi: saper rispondere alla domanda «nel cestino di quale desktop hai buttato i file delle tue prime stesure?».

Ciononostante, questi sonetti sono la voce stessa della Brianza Occidentale qui e ora, perché danno voce all’essenza stessa di questa terra lombarda e pedemontana e alla sua natura ibrida, che è nello stesso momento antiromantica e anticlassica, cioè tende ad affidarsi toto corde alla tecnica e al macchinario: che sia il tornio e la fabbrica di ieri, l’i-pad e l’endecasillabo ora. Lavoro “matto e disperatissimo”, come nel Sonetto XVIII. Monza-Molteno-Lecco:

 

Non sei la migliore delle fermate

ferroviarie, Buttafava, stazione

anonima, raccolta di persone

che si spingono tra loro accalcate

 

di primo mattino. Vedo le rate

di Woolwich sul muro, l’agitazione

di chi ha perso il treno, il cielo marrone

e un’edicola che vende d’estate

 

e d’inverno il sogno di un ventisette

di ogni mese finalmente affrancato

da quei mozziconi di sigarette

 

che ricoprono ogni giorno il selciato,

da una vita anonima che alle sette

di sera ripassa dall’altro lato.

 

Quasi un inno alle occasioni mancate per difetto di mira, sulla littorina della Brianza… Perciò sono nate le canzonature contro i brianzoli: perché l’abnegazione non è una virtù se l’oggetto delle fatiche è sbagliato. Ci si sveglia solo con le grandi malinconie, delle parole che non abbiamo saputo dire (come qui sotto nel Sonetto XXXII. Pini nel vento):

 

“Somenèri desembrìn, el vàr nànca

mèzz quattrin…” proverbio di contadini

brianzoli che mo padre, a ogni bianca

gelata invernale, sopra i vicini

 

campi arati, amava citare. Manca

ormai da tantissimi anni, ma i pini

che ha piantato riaprono la mia banca

dei ricordi: vedo amici, bambini

 

come me che ammirano lui potare

le viti nell’orto, vedo la mano

sua con un arnese a punta interrare

 

semi di legumi e zucchine e piano

annaffiarli, semplici gesti e pare

davvero presente e così lontano.

 

Un’elegia nel rimpianto non tanto che nelle terre dell’alto milanese non ci sia mai stato un poeta alla Paolo Volponi, che ogni volta gridava come saluto e raccomandazione a chi lo andava a trovare “compagni: orto e pollaio!”; no, è un rimpianto per non aver sentito se i nostri morti sono davvero ancora qui, accanto, mentre facciamo (e se i nostri discendenti sono anche loro presenti, in attesa…). Per non aver sentito se ne valeva la pena che la vita passasse così.

A ben guardare i segni della terra, o del territorio, mi sa che ci vorranno ottocento o ottomila anni per tentare di dare una prima risposta.

 

 

R.ORNAGHI, Brianza occidentale (Edizioni G.R., Besana B.za; 2004 pp.152 € 8) E.BONO, Poesie opera omnia  (Edizioni Le Mani, Recco; 2007; pp.487 € 20)