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Il mito ossessivo della crescita

di Marcello Frigeri - 05/01/2012

Fonte: liberacritica



L’accumulazione di denaro, inteso come principio del benessere, aiuta i vincenti a dimenticare la morte, ma la morte di milioni di perdenti sta lì a ricordare ogni momento la vanità dell’operazione.

L’uomo, dalla Rivoluzione francese a questa parte, ha in mente un mondo in cui l’uguaglianza deve essere, obbligatoriamente, il valore più alto. Percorre da secoli una strada che lui stesso ha costruito, giorno dopo giorno, e che dovrebbe condurre all’uguaglianza totale in diritti e opportunità. Eppure oggi un amministratore delegato guadagna 1000 volte quello che percepisce un operaio. Se è l’uguaglianza che cerchiamo, allora abbiamo imboccato il percorso inverso. Stiamo correndo all’impazzata verso una fine che noi stessi ci siamo creati, con le nostre mani, fondando la nostra società sul mito dell’interesse, della crescita e del denaro, e forse l’ultima crisi economica non sarà il tramonto del capitalismo, ma è la dimostrazione che c’è qualcosa di dannatamente perverso in tutto questo. Il mito della ricchezza è da tempo immemore una fissa dell’uomo, ma soltanto negli ultimi secoli, quello dei Lumi e della Rivoluzione industriale poi, ha finito col renderci oggetto della ricchezza, e non il soggetto. Prima era l’economia che girava attorno all’uomo, il quale ricopriva un valore centrale nell’universo, oggi è l’uomo, privo di valore, a girare intorno all’economia, la quale riveste l’essenza centrale del nostro universo. L’unico senso, l’unico valore umano nell’Occidente capitalista, ma che di umano non ha nulla, è fare sempre più denaro, o fare denaro col denaro, senza limiti e all’estremo, tanto che oggi l’individuo ha perso il suo status e viene chiamato consumatore. Siamo tutti consumatori: l’oggetto senza valore della crescita economica.

Vivendo in una società che fa dell’interesse, dello spread e della borsa l’unica essenza, abbiamo dimenticato che le società preindustriali avevano una certa riluttanza per il denaro e anzi, gli conferivano il valore per il quale fu ideato: quello dello scambio. Un tempo non troppo lontano, infatti, la combinazione era MERCE -DENARO – MERCE, dove la merce – come il pane o un indumento -, era il valore primario, quello per cui aveva un senso vivere, mentre il denaro serviva per lo scambio; oggi tutto è ribaltato: la combinazione è DENARO – MERCE – DENARO, dove il denaro è il bene primario da accumulare, mentre la merce non ha più un valore, e anzi è il mezzo che ci porta alla ricchezza. Ma in un mondo spoglio di valori, in cui l’unico fine è quello della crescita economica, va da se’ che il lavoro, come azione che genera denaro, ha assunto un aspetto fondamentale della vita. Chi oggi non lavora è un parassita della società, un reietto, un fannullone, un perditempo, tanto che pure la nostra Costituzione definisce l’Italia una “Repubblica fondata sul lavoro”. Così tanto ciechi e sicuri del nostro sistema, siamo abituati a credere che tutte le società hanno una vita economica e sono costrette al lavoro per sopravvivere. Ma non è così.

Nelle società primitive tutto è magico e sacro. Di conseguenza il lavoro, attività profana che soddisfa bisogni elementari,  è causa di profanazione della natura e non ha senso ne’ posto nella vita di tutti i giorni. Ci viene detto che queste civiltà primitive sono schiave delle loro stesse credenze. Ma è tanto diverso per noi, che siamo schiavi delle nostre? Noi crediamo fermamente nella religione del progresso e della scienza, posseduti dalla magia del lavoro, mentre nelle società primitive questa razionalità e l’economia non sono dominanti. Ma a ben guardare fino a 300 anni fa la società occidentale era più vicina a queste civiltà che a noi, pur essendo i posteri. Al tempo dei romani, ad esempio, l’idea che fosse necessaria una attività finalizzata per raggiungere il benessere del cittadino (terme, teatro, giochi circensi) non aveva ragione d’essere, perché veniva offerto dalla generosità dei grandi. Il concetto, pur in modo diverso, può valere anche per il periodo medievale e il primo Rinascimentale. Oggi niente è in regalo e tutto è in vendita.

La felicità, un tempo, era un valore senza prezzo. Oggi la si compra, e comprandola perde tutto il suo valore. Fino a prima della rivoluzione industriale non aveva ragione d’essere l’ideologia del lavoro, ma al contrario era viva quella del non-lavoro. L’idea dell’accumulare denaro era sì esistente, ma tuttavia non era ciò che realmente importava – i banchieri e i mercanti erano malvisti -. Il tempo della vita, invece, era un fine ben più grande: si lavorava le ore necessarie per sopravvivere, poi il tempo, che era il bene più prezioso, lo si dedicava alle cose che più si amavano. Oggi il mito è chi ha tempo non aspetti tempo, o il tempo è denaro, perché l’unico valore che esso può assumere in epoca industriale è quello del non-tempo: bisogna sfruttarlo il più possibile per produrre, per creare, per crescere inesorabilmente, tanto che nell’ambiente lavorativo, in certe aziende, si mangia davanti al computer pur di non perdere un attimo. Ma che poi, pensandoci bene, che senso ha tutto questo? Un senso umano, intendo. Continuare a cresce economicamente, per cosa? Si dice per produrre benessere. Il Pil delle nazioni, da cinquant’anni a questa parte, è aumentato grosso modo in Occidente come in Oriente – vedi la Cina – e, salvo la crisi economica, continua ad aumentare, eppure la ricchezza dei cittadini non è mai stata direttamente proporzionale a quella degli Stati.  La crescita infinita, poi, è una chimera impossibile da raggiungere: qualcuno può spiegarci com’è possibile in un mondo che ha dei limiti fisici, sia orizzontali che verticali, una crescita infinita?

L’idea è che la società del benessere, come noi intendiamo la nostra, sia contrapposta alla paura della morte. Si tende al benessere, qualunque esso sia (denaro, ricchezza, bene fisico, potere, gloria, felicità) per allontanarsi da tutto ciò che è male e che si riassume con il concetto di morte. Forse questo bisogno paranoico dell’accumulazione di denaro, inteso come principio del benessere, aiuta i vincenti a dimenticare la morte, ma come scrive Latouche “la morte di milioni di perdenti sta lì a ricordare ogni momento la vanità dell’operazione”. Così mentre noi affondiamo nell’ennesima crisi economica, sicuri che l’unica uscita sia la crescita, in una società che ha perso i suoi valori e che si crede “il migliore dei mondi possibili”, da qualche parte in Africa o in sudamerica le civiltà primitive vivono senza nevrosi, non sapendo una mazza di cosa sia lo spread e la borsa.