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La rivincita della filosofia, dopo le ubriacature del “benessere” e del progresso illimitato

di Francesco Lamendola - 05/01/2012

 

Se pure non presentasse altri risvolti positivi, la crisi epocale che stiamo vivendo potrebbe rivelarsi preziosa nell’aiutarci a vedere, senza veli e senza trucchi, il Vitello d’Oro dell’economia che abbiamo adorato e le deliranti sirene del Progresso illimitato di illuministica memoria, con tutte le loro promesse menzognere.

Non è solo il modello dello sviluppo che si è rivelato illusorio e fallimentare, ma tutta l’ideologia dell’avidità, dello spreco, della disumanizzazione che ne è il logico corollario: tutto un mondo di cartapesta, di promesse ingannevoli, di arroganza e ingiustizia, di misconoscimento della nostra parte più autentica, di distruzione del sacro, del senso del limite e del senso del mistero, di oblio dell’Essere, cioè del senso autentico del nostro significato nel mondo.

Per anni ci siamo prostrato davanti a feticci turpi e vergognosi, abbiamo corteggiato la nostra fatuità, la nostra superficialità, il nostro narcisismo; per anni abbiamo inseguito miraggi di pienezza basati sul nulla, sogni di realizzazione fondati su inganni, bugie e prevaricazioni: dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sugli altri viventi, di tutti contro tutti.

Ora è venuto il tempo di rientrare in noi stessi, di fare silenzio per poter udire nuovamente la voce del Maestro Interiore, la voce della nostra più intima e schietta verità.

La filosofia può svolgere una funzione importante in tutto questo, se per filosofia si deve intendere, come la intendeva Platone, la capacità di vedere l’intero e non già le singole parti che lo compongono, come se fossero separate e indipendenti dall’insieme; questo può essere davvero il tempo del ritorno alla filosofia, alla riflessione, al pensiero critico; il tempo della vera filosofia, non dei filosofemi da strapazzo, non dei rimasticamenti eruditi e pretenziosi, ma assolutamente vuoti, di cose già dette e smentite, di ricette già dimostratesi erronee, di soluzioni che erano nate vecchie e che sono andate avanti per forza d’inerzia e per il conformismo ovunque imperante.

Non è più il tempo delle chiacchiere; è arrivata la stagione della verità, quando i pensieri si devono confrontare con le cose e non girare a vuoto nelle aule accademiche o far bella mostra di sé sulle riviste specializzate; quando le persone chiedono punti di riferimento precisi, indicazioni positive, punti d’appoggio chiari e solidamente ancorati alla realtà.

Abbiamo dimenticato la dimensione profonda del nostro esserci; abbagliati dalla vetrina scintillante di un consumismo tanto stupido quanto aggressivo, abbiamo scordato quel che ci fa uomini e donne, quello che dà un senso al nostro destino, quello che ci indica la direzione da seguire, con il bello e con il cattivo tempo, attraverso i mari perigliosi della vita.

Abbiamo dimenticato di non esser qui per caso e di non avere solo esigenze primarie da soddisfare; abbiamo scordato che si può morire anche di disperazione, di solitudine, di tutto e di niente - e continuare a trascinare il proprio cadavere per le strade del mondo, ignari di non essere più nemmeno vivi, di essere divenuti degli automi senz’anima.

Abbiamo dimenticato la realtà del dolore e della morte; abbiamo cercato di cancellare il primo e di ignorare la seconda, ma col solo risultato di trovarci ancor più soli, ancor più incerti, ancor più spaventati e insicuri di prima.

Abbiamo deriso la religioni, chiamandole oppio dei popoli; e abbiamo negato la trascendenza, superbi e gelosi di ammettere la nostra finitezza, la nostra fragilità, la nostra impotenza; abbiamo voluto costruire una società puramente razionale, rimuovendo le fondamenta stesse della vera razionalità: la semplice constatazione che noi non siamo Dio, né potremo mai diventarlo.

In un discorso tenuto a Prato ad una assemblea di giovani, il grande scienziato Enrico Medi ebbe a dire una volta: «Del dolore on si parla più, come se il dolore e la morte non esistessero più. Allora, dei due, uno non esiste più, o il dolore o la mote. E se uno mi dimostra che il dolore non esiste più e la morte non esiste più, cambio parere, ma finché il dolore e la morte esistono, Tu sei la nostra sola speranza, o crocifisso Figlio di Dio! Perché solo nel Tuo dolore, nella Tua croce, nel Tuo sangue, nelle Tue piaghe, io consolo il mio dolore, la mia croce, le piaghe e il sangue mio. […] Tutti abbiamo un cuore, e quel giovane che non avesse un cuore che lacrima assomiglia più ad un animale che ad un essere vivente ragionevole, diciamo le cose come sono! La durezza del cuore è la disgrazia più grande che possa capitare ad un essere umano. Non è l’intelligenza che conta, siamo tutti intelligenti, quello che ci manca è il nostro cuore che è sbandato e pieno di paura, specie i giovani: paura di essere messi da parte, di non brillare, di non farsi una posizione, di non farsi avanti nella vita viviamo di paura…»

La rivincita della filosofia, dunque, come rivincita della vera saggezza, come rivincita della parte autenticamente umana che è nell’uomo: perché l’uomo si stava disumanizzando, e l’odierna crisi economica che porta con sé, nella sua rovina, tutta una serie di false sicurezze, può rivelarsi una preziosa occasione per riscoprire quel che noi dobbiamo veramente a noi stessi, quello che è il nostro cibo essenziale, del quale ci eravamo a lungo privati.

Quindi, tanto per cominciare: basta con una psicologia che è una pura e semplice contabilità dei fatti della psiche, un puro e semplice prontuario basato sulla logica della “sfida” e della “risposta”; basta con una psicologia che adora l’esistente, che ci promette la felicità se ci adatteremo al Verbo del materialismo scientista, se cancelleremo in noi stessi la parte più vera e profonda, l’anima eterna che ci tiene uniti al mistero dell’Essere e che è come il nostro cordone ombelicale con l’Assoluto e con l’Infinito.

E basta anche con una biologia che vorrebbe convincerci della nostra radicale animalità, che vorrebbe farci persuasi della nostra assoluta autosufficienza, che vorrebbe ridurci a un insieme di cellule, di organi, di funzioni nati dal caso, senza scopo né fine, senza nulla che ci renda unici, insostituibili, sacri nel senso più autentico della parola; basta con l’autocastrazione del pensiero, che, da Kant in poi, ha preteso di tagliare via, come fossero rami secchi, proprio quelle istanze superiori, quello slancio metafisico che suggerisce la nostra vera origine e indica il corso che dobbiamo imprimere al nostro cammino esistenziale.

Basta con i cattivi maestri, con i predicatori del pessimismo e del nichilismo, con i lugubri profeti di un progresso senza bontà, senza verità, senza bellezza, di una razionalità dei mezzi che non si cura della razionalità dei fini; con i nuovi sacerdoti di un culto disumano fondato sulla forza, sul dominio, sull’avere, sulla manipolazione illimitata, sulla distruzione sistematica di ciò che si oppone alla marcia compulsiva e delirante di un io ipertrofico, gonfio di orgoglio e accecato dalla smania di esercitare un potere sempre più grande.

La riscoperta della filosofia potrebbe aiutarci a vedere la persona umana così come essa è veramente, sfrondata sia della superbia prometeica e faustiana, per cui essa vorrebbe farsi l’assoluto di sé medesima, sia del suo inevitabile rovescio, il disprezzo di sé e la sua abdicazione al progetto ragionevole e benefico al quale è stata chiamata a partecipare, in armonia e non in selvaggia competizione con tutti gli altri enti.

La vera filosofia, infatti, è quella che ci aiuta, sì, a trovare in noi stessi il senso del limite, ma non sacrificando la nostra parte essenziale: perché il nostro legame con l’Essere, la nostra nostalgia di ritornarvi non sono una parte superflua, alla quale si possa rinunciare con una semplice alzata di spalle, ma precisamente la bussola capace di farci mantenere la rotta anche quando il mare è più agitato e tutte le stelle sono nascoste dalla nebbia o dalle nubi.

Che cosa è mai l’uomo, quando sia stato spogliato, quando sia stato amputato della sua nostalgia dell’Essere?

Un ramo secco, un ramo inutile, che si può gettare nel fuoco, perché non produrrà mai più foglie, fiori e frutti; che non tornerà mai più ad aprirsi al sorriso della primavera e ad offrire un rifugio ospitale ai nostri amici alati, che riempiono l’aria con le loro melodie.

Sì, dobbiamo alleggerirci di molti inutili fardelli: ma bisogna fare attenzione a non gettare via il bambino insieme all’acqua sporca; attenzione a non gettare via la nostra parte più vera e preziosa, senza la quale la nostra vita non avrebbe più senso, né scopo.

Sono ben altre le cose che dobbiamo gettare: la zavorra di un materialismo ottuso, di un relativismo furbescamente interessato, di ipocrite parole d’ordine, come libertà e fraternità, dietro le quali si celano l’egoismo più sfrenato, il calcolo più abbietto e l’opportunismo più becero; tutte cose il cui peso ci faceva procedere con la schiena curva.

Dobbiamo imparare a tenere ben dritta la schiena; dobbiamo ritornare a guardarci allo specchio senza avere voglia di girare lo sguardo da un’altra parte; in breve: dobbiamo fare la pace con noi stessi, ma sulla base della verità e non di tutta una serie di menzogne.

Questo è ciò di cui abbiamo bisogno, per il nostro bene e per il bene di quanti ci stanno intorno e che, a parole, diciamo di amare; e anche per il bene di coloro che verranno, e che non hanno colpa dei nostri errori, delle nostre menzogne, della nostra vigliaccheria.

Anch’essi hanno il diritto di ricevere in eredità una casa abitabile, un mondo a misura d’uomo, un insieme di valori che possano guidarli nel cammino della vita, così come noi li avevamo ricevuti dalle mani sagge dei nostri genitori, dei nostri nonni e dei nostri antenati.

Ci siamo preoccupati eccessivamente di lasciare tante cose materiali ai nostri figli e ai nostri nipoti; ma abbiamo trascurato l’unica cosa che era, ed è, veramente essenziale: la nostra umanità, fatta di saggezza, di comprensione, di apertura e di generosa dedizione, che è la disponibilità a mettersi in gioco e a scommettere nel futuro, nel bene, nella vita.

Il risveglio è sempre amaro, dopo la sbornia: e noi ci eravamo ubriacati senza pudore e senza ritegno, a lungo, avidamente e sistematicamente; svaniti i fumi dell’alcol, finalmente possiamo incominciare a vedere le cose per quello che sono, nella loro essenzialità e nello splendore luminoso che le avvolge, quale retaggio dell’Essere da cui tutte provengono.

E noi pure siamo luminosi, noi pure siamo creature essenziali, purché ricordiamo il nostro legame con l’Essere e purché sappiamo vedere lo scopo per cui siamo qui.

Possiamo decidere di rotolarci nel fango e lordarci fino a renderci irriconoscibili a noi stessi, ma niente potrà cancellare la nostra vocazione essenziale ad essere delle creature di luce, chiamate da sempre alla verità, alla bontà e alla bellezza, fin da prima che il mondo materiale incominciasse a esistere.

Quale strana pazzia, quale rabbia furiosa ci hanno talmente traviati da una vocazione così nobile, da una meta così desiderabile, da farci dimenticare la preziosa dote che è sempre stata qui, a nostra disposizione, nonché la meta luminosa del nostro andare?

Qui c’è veramente un mistero, un mistero grande e tenebroso; qui c’è una Invidia che ha saputo sfruttare il nostro orgoglio, la nostra impazienza, la nostra presunzione, per far sì che noi, pur essendo i fortunati abitatori di uno splendido palazzo, ci siamo volontariamente relegati nelle buie e fetide cantine, piene di sporcizia e di aria cattiva.

È un mistero che dovrebbe suggerirci l’umiltà: per il cattivo uso della nostra intelligenza ci siamo ridotti in questo stato; da noi stessi, ora, dipende se sapremo rimetterci in piedi, se sapremo ritrovare il coraggio di scuoterci e riprendere la strada verso casa.

La nostra casa è l’Essere: tutto è partito da lì e tutto deve farvi ritorno.

Ma una cosa è tornarvi a testa alta, con lo sguardo limpido e con la consapevolezza di aver collaborato, per quanto stava in noi, alla felice riuscita del viaggio; e una cosa ben diversa è tornarvi sconfitti, amareggiati, disperati e rabbiosi.

Questa è l’alternativa; a noi la scelta.

A torto si crede di avere chissà quanto tempo a disposizione; invece ogni minuto è prezioso, e ogni indugio potrebbe far sì che sia troppo tardi.

Certo, per ogni singolo essere umano che apre gli occhi sulla propria realtà interiore, il momento del risveglio è sempre prezioso: esso è simile ad una rinascita, fosse pure nell’ultimo giorno di vita; ma per la società di cui siamo parte, le cose stanno altrimenti e bisogna far presto.

Specialmente per il bene dei nostri figli, non possiamo indugiare ancora: dobbiamo agire; e subito.