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Umberto Galimberti e la mistificazione intellettuale

di Francesco Martinello - 10/01/2012

Fonte: recensionifilosofiche





Il volume si presenta come un’approfondita analisi di due libri di Umberto Galimberti (La casa di psiche e L’ospite inquietante), che dimostra come siano stati ottenuti per lo più accostando tra loro brani di testo provenienti da opere precedenti dello stesso autore, eventualmente con alcune leggere modifiche. L’indagine è strutturata così: per ciascun tema trattato da Galimberti, Bucci affronta il testo in primo luogo con una lettura che definisce «ingenua», che cerca semplicemente di comprenderne il significato. 

Essa si rivela fin troppo ingenua, perché a volte sembra non riconoscere certe espressioni idiomatiche della filosofia. Per esempio: quando parla di «tecnica», Galimberti probabilmente non sta pensando all’insieme di saperi che consente di costruire elettrodomestici, bensì a un’idea proposta da M. Heidegger e ripresa da E. Severino (a cui Galimberti deve molto). Dopo la lettura ingenua Bucci propone una lettura «informata», che mostra – a volte mediante chiare tabelle – come i passaggi del libro sotto esame siano praticamente identici a porzioni di precedenti testi dello stesso Galimberti. Tutto ciò senza che essi vengano mai indicati come citazioni, cioè come se si trattasse di idee originali. Le due letture sono complementari, nel senso che la lettura ingenua individua i numerosi problemi logici e semantici presenti nei discorsi di Galimberti, mentre la lettura informata cerca una spiegazione per simili difficoltà, individuandola nell’accostamento pressoché arbitrario di brani «riciclati», che provengono da contesti di discorso spesso estranei da quello del quale il libro sta trattando. Di conseguenza accade che allo stesso pensatore vengano attribuite concezioni diverse e incompatibili, oppure che la medesima tesi venga associata ad autori differenti, le cui dottrine sono prive di connessioni. I due libri già ricordati sono considerati da Bucci come i più emblematici casi di un metodo di composizione che Galimberti porta avanti con sempre maggior costanza da una trentina di anni (l’introduzione riporta nel dettaglio le «percentuali di riuso» che si possono individuare all’interno di tutte le sue opere). Di particolare interesse a questo proposito è la prima delle appendici, che presenta, anche con l’aiuto di diagrammi, gli spostamenti delle varie porzioni di testo da un’opera di Galimberti a un’altra. 

Pregi dell’opera. Si tratta di un testo molto istruttivo, per gli interrogativi che fa sorgere sul funzionamento dell’editoria, dell’università, e dell’establishment culturale italiani (cfr. su questo ultimo punto sopratutto l’appendice D). Simili argomenti, tuttavia, sono tematiche giornalistiche piuttosto che filosofiche. Per questi aspetti il valore del libro è indiscutibile, e anzi si deve apprezzare l’autore per aver presentato le sue scoperte tutto sommato con ironia, piuttosto che con lo sdegno che spesso vediamo accompagnare i documenti di denuncia. Ai fini della presente rivista, però, si devono a mio avviso considerare esclusivamente i pregi filosofici del volume. Questi mi sembra siano riconducibili alla riflessione, che la lettura di questo libro può suggerire, su quali siano i criteri di valutazione per uno scritto di filosofia. Bucci muove sostanzialmente tre tipi di critiche alle opere di Galimberti: (a) contengono ragionamenti insensati; (b) non svolgono il tema presentato nel titolo e/o nell’introduzione; (c) sono composti quasi interamente estrapolando brani di altre opere e mettendoli assieme in un ordine difficilmente comprensibile. Per quanto riguarda i primi due punti ci si potrebbe per esempio chiedere se, applicandoli con rigore a diversi  testi «classici» della disciplina, non si finisca per essere costretti a rifiutarne troppi. Diverse volte, infatti, pare che i filosofi si servano di affermazioni paradossali per i loro scopi, e numerosi libri sono giudicati ottimi lavori filosofici pur senza avere un preciso filo conduttore. La critica meno discutibile sembra senz’altro la terza. Immaginiamo che si scopra che per esempio la Fenomenologia dello Spirito fu composta riciclando materiali precedenti e copiando da altri autori senza menzionarli (alcuni quotidiani nazionali hanno messo in luce anche questo aspetto degli scritti  di Galimberti). Probabilmente il prestigio di tale opera presso gli addetti ai lavori diminuirebbe sensibilmente. Il punto è che coerenza, compattezza, e originalità sono tre condizioni ormai universalmente accettate per decidere della bontà di una «produzione scientifica». Sono diventate, senza dubbio per motivi ben validi, «le regole del gioco», per così dire. Come tali, ormai si dà per scontato che vadano applicate a tutti i tipi di prodotto intellettuale. Eppure, la filosofia ha una storia ben più antica di quei criteri, e sopratutto tra i suoi compiti tradizionali c’è  proprio quello di ripensare i presupposti più indubitabili.

Difetti dell’opera. Prima della esauriente documentazione del «riciclo» galimbertiano dei propri testi, si trova nel volume una inopportuna e poco approfondita accusa nei confronti di una corrente filosofica, il post-modernismo, specialmente nei suoi rappresentanti italiani. L’autore ritiene che «I tratti salienti del pensiero di Umberto Galimberti sono infatti riconducibili [...] alle tesi di fondo condivise [...] da tutti quei pensatori che [...] si definiscono post-moderni […], possiamo cogliere il nucleo centrale del pensiero post-moderno (o “debole”) nel rifiuto della razionalità “illuministica” e nella sua (presunta) pretesa di fornire spiegazioni totalizzanti; nella critica della scienza e della tecnica, prodotti di tale razionalità, considerate pericolose espressioni di volontà di dominio sull’uomo e sulla natura; nella negazione dell’oggettività e dell’universalità della conoscenza (in primis quella scientifica), e anzi dell’oggettività in generale; nel conseguente relativismo, sia in campo conoscitivo (non esistono fatti, ma solo interpretazioni), sia in campo assiologico (non esistono valori assoluti [...])» (pp. 24-25). Tale corrente filosofica, poi, «ha in comune con la religione [...] l’insondabilità dell’oggetto, l’astrusità dei contenuti e l’arbitrarietà del linguaggio [...]» (p. 27), ed è facile accorgersi che «carenza di rigore logico (e di senso) caratterizza in realtà [...] buona parte dei discorsi degli officianti del post-modernismo» (ibidem). Pertanto, «nel fornirci le prove documentali della vacuità di molta parte del suo dire (e ridire), Umberto Galimberti [...] contribuisce a demistificare anche quel “pensiero debole” di cui egli è, in Italia, uno dei più noti esponenti» (ibidem). È una critica inopportuna perché rischia di far passare l’intero volume, il cui valore sta nella dettagliata ricostruzione delle nascoste fonti galimbertiane, per una provocazione «ideologica», come se fosse stato scritto con l’intento «filo-illuminista» di screditare i pensatori «irrazionalisti». Si tratta inoltre di una polemica superficiale, prima di tutto perché attacca un’intera corrente filosofica per mezzo di un argomento ad hominem (che le critiche a Galimberti valgano per ogni rappresentante del pensiero debole è tutto da dimostrare), e in secondo luogo perché non è condotta in maniera adeguata: è encomiabile il lettore che segnala agli altri lettori un caso di impostura, ma a giudicare se il post-modernismo sia autentica filosofia o mistificazione intellettuale dovrebbero essere gli addetti ai lavori, con gli strumenti della loro disciplina.