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Nella “schiavitù” di Aleksej verso Polina la cifra del corto circuito nel rapporto uomo-donna

di Francesco Lamendola - 13/01/2012


 


 

 

 

«Il sentimento venuto dall’Inferno» è, per usare la parole di Vittorio Strada, quello che legò Dostoevskij alla giovane russa Apollinarija Suslova, con la quale ebbe una tesa, sofferta e ambigua relazione amorosa attraverso mezza Europa.

Il personaggio indecifrabile, impietoso e vagamente perverso di Apollinarija ritorna in diverse opere del grande scrittore, ma specialmente nel romanzo «Il giocatore», del 1866, scritto, come è noto, sotto l’urgenza inderogabile di un contratto-capestro con l’editore e di debiti di gioco; o meglio, dettato a tempo di record (un mese appena!) alla giovane stenografa Anna Grigorievna Snitkina, che sarebbe poi diventata sua moglie.

Nel romanzo, il personaggio di Apollinarija ha le sembianze di Polina Aleksandrovna, una giovane e bella ragazza, figliastra del generale presso la cui famiglia svolge le funzioni di precettore il venticinquenne Aleksej Ivanovic, il protagonista, nonché voce narrante dell’opera. Questi è follemente innamorato di lei, mentre ella ama, invece, un nobile francese, Des Grieux, un cinico avventuriero che sa come giocare con l’altera e imprevedibile fanciulla.

Tralasciamo la vicende che ruotano intorno ai tavoli da gioco della stazione termale di Roulettenburg, alla sperata eredità della nonna che non si decide a morire e che, anzi, si presenta in albergo, dalla Russia, lasciando tutti senza fiato e mettendosi subito a giocare accanitamente alla roulette, e lasciamo andare anche tutti i personaggi secondari della vicenda; concentriamoci, invece, sulla relazione che si instaura fra i due giovani protagonisti, che ci sembra altamente emblematica del corto circuito in cui versa la relazione fra l’uomo e a donna moderni.

Diciamo “moderni” perché il personaggio di Polina (e, in minor misura, anche quello di Aleksej) è un personaggio tipicamente moderno e inconcepibile nella società, non solo russa, ma europea, di appena una o due generazioni prima; la si può anzi considerare come la madre di tutta una serie di eroine negative della letteratura della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo, specialmente in area scandinava: pensiamo specialmente a Ibsen e Strindberg.

In particolare, in Polina vi sono tratti del carattere che saranno poi emblematici, benché ulteriormente esasperati, di Hilde Wangel de «Il costruttore Sölness», del 1892, e, ancor più, di Hedda Gabler, dell’omonimo dramma del 1890: in entrambe le opere, una donna giovane e bella, altera e frustrata, causa la morte dell’uomo che di lei è innamorato, nel primo caso istigandolo a salire in cima a una torre, nonostante egli soffra di vertigini, nel secondo spingendolo esplicitamente a suicidarsi, dopo avergli taciuto un fatto da cui potrebbe dipendere la salvezza di lui. E perché non mettere nel numero anche Marina di Malombra (1881), l’eroina “nera” del romanzo di Antonio Fogazzaro, che uccide materialmente il suo sfortunato innamorato, prima di avviarsi anch’ella, proprio come Hedda Gabler, verso il suo tragico destino?

Polina, dunque, è intelligentissima, ma fredda; molto bella, anche se non troppo femminile secondo i canoni classici, essendo alta e magra (al punto che Aleksej s’immagina di poterla piegare e farne un nodo); non sa quello che vuole, aspira a grandi cose e, nell’uomo, cerca una sorta di impossibile perfezione; ama, inoltre, il potere, ama esercitarlo sugli altri, vuole vederli tutti ai suoi piedi, impassibili esecutori dei suoi ordini e vittime consenzienti dei suoi capricci.

Il suo tratto più evidente è il disprezzo: ella disprezza praticamente tutti, salvo cadere innamorata come una scolaretta di un uomo da nulla, che si fa gioco di lei e che la circuisce solo per mettere più agevolmente le grinfie sulle sostanze del patrigno (perso, a sua volta, dietro una insignificante francesina); nel suo cuore non vi sono bontà, delicatezza, altruismo; è dura come il marmo, orgogliosa dell’ascendente che sa di esercitare sugli altri, con una forte vena di sadismo e, probabilmente (ma lo abbiamo già osservato in un precedente articolo, a proposito della Mirandolina di Goldoni), o frigida o lesbica repressa.

Gli uomini che di lei s’innamorano possono aspettarsi solo la propria distruzione; ella si diverte a riversare su di loro tutta la sua sufficienza, tutta la sua ironia; li mette alla prova, schernendoli, per vedere fino a punto sono disposti ad umiliarsi, ad annullarsi, a trasformarsi in autentici burattini nelle sue mani; ad Aleksej non esiterà a chiedere se, per amor suo, è disposto ad uccidere, senza nemmeno spiegargli di chi si tratti: vuole solo essere certa che egli non arretrerebbe davanti al delitto per amor suo, pur non promettendo nulla in cambio, anzi, seguitando a trattarlo come l’ultimo dei lacchè.

Che una simile superdonna cada poi, come la più inesperta delle adolescenti, nella rete di un donnaiolo da quattro soldi, di un miserabile avventuriero, questo fa parte della strana mescolanza, nel suo personaggio, di perfida arroganza e di disarmante ingenuità; e molto vi sarebbe da dire, ma non è questa la sede, sui pregiudizi xenofobi di Dostoevskij che, immancabilmente, fa svolgere il ruolo del seduttore di belle e fiere ragazze russe a degli stranieri quanto mai loschi e spregevoli: un polacco, anzi un “polaccuzzo” giocatore di carte e baro di professione (quanto razzismo in quello spregiativo) nel caso della Gruscenka de «I fratelli Karamazov», amata sia dal padre Fiodor Pavlovic, sia dal figlio maggiore, Dimitrij; un matricolato lestofante francese in marsina da aristocratico, nel caso di Polina.

Più interessante, per noi, è domandarci che cosa mai attragga così irresistibilmente gli uomini verso queste algide ed enigmatiche protofemministe, gelosissime della loro “indipendenza” ma pronte a cedere alla corte degli esperti donnaioli di mestiere; e, se si vuole, che cosa mai abbia attratto così prepotentemente lo stesso Dostoevskij verso Apollinarija Suslova.

È evidente che una donna, per quanto giovane e bella, ma nevrotica, frustrata, imprevedibile, fredda, superba, egoista, assolutamente incurante di quel che provano gli altri, non può attirare un tipo maschile “normale”, qualunque cosa s’intenda con quest’ultima espressione; soltanto degli uomini dalla identità sessuale tormentata, problematica, e dalle tendenze almeno in parte devianti, possono innamorarsi alla follia di simili donne.

Molo ingenuamente, il principe Kropotkin osservava, nel capitolo dedicato a Dostoevskij della sua «Storia della letteratura russa», che nei personaggi e nelle situazioni descritte dal grande scrittore vi è sempre, in misura maggiore o minore, una nota patologica e morbosa, che conferisce loro un alone di dubbia sanità mentale e che ha un effetto repulsivo sul lettore “sano”. Povero Kropotkin: era indubbiamente un brav’uomo, un notevole geografo e un rivoluzionario senza macchia e senza paura: ma, foderato com’era di ideologia positivista sino alla radice dei capelli, non aveva capito assolutamente nulla di Dostoevskij, del suo mondo, della sua problematica.

Malato Dostoevskij? Certo, ma della malattia della modernità, di cui fu però anche - a differenza dei vari Kafka, Musil, Thomas Mann, Proust, Joyce, Svevo, che si limitarono a sguazzare dentro le proprie ossessioni e nevrosi - un lucido demistificatore ed un fiero antagonista e alla quale oppose, anche se la cosa può non piacere, un disegno morale, sociale, culturale e politico per la rifondazione spirituale dell’Europa, facendo leva sui valori cristiani e rurali della “santa” Russia.

Si potrà non approvare; lo si potrà anche accusare di spirito reazionario, nonché di sciovinismo e di oscurantismo: tutto quel che si vuole; ma è un fatto che aveva saputo vedere lontano, molto più di altri che pure sono venuti dopo, e che aveva posto sul tappeto il problema di opporre alla barbarie di una modernità massificata, meccanizzata e senza Dio, una Russia fedele alla propria vocazione e alla propria anima: problema ancora sollevato, in anni recenti, dal filosofo Zinov’ev (cfr. il nostro articolo «L’occidentalizzazione del mondo nel pensiero di Aleksandr Zinov’ev», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 14/06/2010); ed è anche, se ciò non appaia un andar troppo lontano, il problema posto sul tappeto dalla “svolta” produttivista e capitalista della società cinese negli ultimi decenni, secondo un modello di sviluppo che rischia di spazzar via secoli e millenni di cultura, in nome dei feticci dell’economia e del progresso.

Ma queste riflessioni ci stanno portando fuori strada, per cui torniamo rapidamente al nostro tema iniziale.

Aleksej, dunque, ama Polina alla follia; e lo confessa candidamente alla ragazza, dichiarandole, anzi, di «amarla ogni giorno di più», per quanto ciò sia praticamente impossibile.

Le confessa che fantastica di udire il fruscio del suo vestito, di non fare altro che pensare a lei; si dichiara suo schiavo, ben sapendo di non avere la minima speranza, sia perché lei ama un altro (e che altro!), sia, soprattutto, perché uno come lui, davanti a lei, è meno di niente: egli sente su di sé tutto il suo disprezzo e, mortificandosi oltre ogni limite, quasi se ne compiace.

Giunti a questo punto potremmo quasi pensare di avere incontrato il predecessore illustre di Leopold von Sacher Masoch («Venere in pelliccia» è del 1870, appena cinque anni dopo «Il giocatore»), che tanto più ama le donne forti e imperiose, quanto più esse sono capaci di maltrattarlo e umiliarlo; invece, quasi nel medesimo tempo, emerge anche un altro lato della personalità di Aleksej, che ci rivela il rovescio della medaglia: in lui non vi è solo il masochista, ma anche il sadico; egli gode di far arrabbiare Polina, al solo scopo di ammirarne la bellezza resa scomposta dall’indignazione. Arriva a sospettare che lei monti in collera appunto perché sa di piacergli, e che ne goda: e, suprema scorrettezza nelle schermaglie amorose, glielo sbatte in faccia senza batter ciglio.

Lei, naturalmente, reagisce dicendosi schifata; però continua ad ascoltarlo; e quanto più i discorsi del giovanotto si fanno stravaganti, sconvenienti, persino minacciosi, con tanto di minacce di morte nei confronti di lei, tanto più ella ne sembra interessata, se non proprio affascinata. Ed ecco che i ruoli paiono sul punto di rovesciarsi. Fra il giovane che, pochi giorni prima, sporgendosi sull’orlo di un burrone, aveva detto alla ragazza, con assoluta serietà: «Dite una sola parola, e mi butterò di sotto»; e quello stesso giovane che ora, passeggiando accanto a lei, le dice con la massima calma: «Vorrei battervi, sfregiarvi, strangolarvi; sì, credo che un giorno o l’altro potrei uccidervi» - e non per gelosia, precisa, ma per il gusto di farlo -, si esita ad accettare l’idea che si tratti della stessa persona; e si esita a decidere chi dei due, fra lui e lei, sia il vero persecutore e il vero “mostro”, e chi l’infelice vittima.

Certo, sono entrambi creature delle tenebre; sono entrambi individui distruttivi e autodistruttivi, che non riescono a sentirsi vivi se non spingendo i rapporti umani fino al limite della rottura e godono di camminare sul ciglio estremo dell’abisso, oltre il quale vi sono solo il disonore, la sofferenza, la morte. La loro perversione risiede nel bisogno di ferire e di essere feriti; non riescono a provare una profonda attrazione sessuale se non cercando, provocando o, almeno, immaginando, situazioni scabrose, ambigue, cariche di sofferenza e potenzialmente violente.

Per rendere più chiari questi concetti, riportiamo il passaggio centrale del colloquio fra Aleksej Ivanovic e Polina, che si svolge nel quinto capitolo del romanzo (nella traduzione di Mauro Martini, Newton Compton, Roma, 1997)

 

«…”Sapete che mi permetto di dire di tutto e di tanto in tanto faccio delle domande in piena sincerità. Ve lo ripeto, sono il vostro schiavo, e di uno schiavo non ci si vergogna, né lo schiavo può offendere.”

“Questa è una sciocchezza. Non posso sopportare questa vostra teoria ‘schiavista’.”

“Prendete nota che io non parlo della mia schiavitù perché desideri essere vostro schiavo, ma ne parlo come di un dato reale, assolutamente indipendente da me.”

“Ditemi schiettamente: a che cosa vi servono i quattrini?”

“E voi a che pro volete saperlo?”

“Come preferite”, rispose lei e scosse orgogliosamente il capo.

“Non sopportate la teoria schiavista, ma della schiavitù avete bisogno: ‘rispondere e non discutere!’. Va ben, sia pure così.  A che pro i quattrini, chiedete voi?  Ma a che pro? I soldi sono tutto!”

“Lo capisco, ma non capisco  come si possa piombare in una tal follia, nel mentre li si brama. Voi arrivate addirittura all’ossessione, al fatalismo. Qui c’è qualcosa sotto, un qualche scopo particolare. Parlate senza troppe tortuosità, lo voglio”.

Mi sembrava che stesse per montare in collera e provavo un enorme piacere nel vedere che mi interrogava con tanto calore.

“Si capisce, uno scopo c’è - dissi - , ma non so spiegare quale. Non è altro che questo: col denaro diventerò anche per voi un’altra persona, e non più uno schiavo.”

“E come? Come otterrete una cosa del genere?”

“Come l’otterrò? Allora voi non capite nemmeno come potrò far sì che voi mi guardiate diversamente da come si guarda uno schiavo! Ecco, è questo che non voglio, non voglio i vostri stupori e le vostre incomprensioni.”

“Avete detto che questa schiavitù è per voi un piacere. E io stessa pensavo che le cose stessero così.”

“Voi pensavate così – esclamai con una sorta di strana voluttà. - Ah, come vi dona una tal ingenuità. Ma sì, sì, essere vostro schiavo è per me un piacere. Certo, è un piacere nell’ultimo gradino dell’umiliazione e dell’annullamento! - continuai vaneggiando. - Il diavolo sa se anche nella frusta non ci sia una qualche voluttà, quando la frusta ti si adagia sulla schiena e ti strappa la carne a brandelli… Ma forse voglio sperimentare anche altri piaceri. […] Adesso in me si è bloccato tutto. Voi ben sapete perché. Non ho in testa un pensiero umano che sia uno. Da lungo tempo non so più quel che succede nel mondo, né in Russia né qui. Ecco, sono passato per Dresda e non ricordo come sia fatta questa Dresda.  Voi sapete che cosa mi ha assorbito completamente. Siccome non ho nessuna speranza e ai vostri occhi sono una nullità, ve lo dico a chiare lettere: io dappertutto vedo soltanto voi, e del resto non me ne importa nulla. Perché e come io vi ami, non so. Sapete che forse voi non siete affatto bella? Figuratevi che io non so nemmeno se siete bella o no, neanche di viso. Avete sicuramente un cuore cattivo; e un intelletto assai poco nobile, questo è molto probabile.”

“Forse voi fate conto di comprarmi col denaro, - disse - perché non credete nella mia nobiltà d’animo?”

“Quando mai ho fatto conto di comprarvi col denaro?”, esclamai.

“Siete uscito dal seminato e avete perso il filo. Se non me,  , è il mio rispetto quello che pensate di comprare col denaro.”

“Ma no, le cose non stanno affatto così. Vi ho detto che è difficile spiegarmi. Vi mi opprimete. Non adiratevi per le mie scemenze.  Capite bene perché non ci si può arrabbiare con me: sono semplicemente pazzo.  Del resto, per me fa lo stesso, anche se vi arrabbiate. Mi basterà , su, nella mia stanza, ricordare o anche solo immaginare il fruscio del vostro vestito perché mi venga voglia di mordermi le mani. E poi di che cosa vi arrabbiate con me? Del fatto che mi definisco schiavo?Approfittatene, approfittate della mia schiavitù, approfittatene!  Sapete che un giorno o l’altro vi ucciderò? Non vi ucciderò perché mi sarò disamorato o per gelosia nei vostri confronti, no, vi ucciderò così, semplicemente, , perché certe volte sono tentato di mangiarvi. Voi riderete…”

“Non rido affatto - disse in preda all’ira. - Vi ordino di tacere.”

Si fermò, riprendendo a fatica il fiato dalla rabbia.  Dio, non so se sia veramente bella, ma mi è sempre piaciuto guardarla , quando si fermava davanti a me in quella posa, e per questo provavo piacere nel provocare spesso il suo sdegno. Può anche darsi che lei se ne sia accorta e si arrabbi a bella posta. Glielo dissi.

“Che schifo!”, sbottò con disgusto.

“Non me ne importa nulla”, continuai. “Sapete un’altra cosa? Queste passeggiate, noi due da soli, sono pericolose: molte volte mi è venuta l’irresistibile tentazione di picchiarvi, sfigurarvi, strangolarvi. Pensate che non arriverò a tanto? Voi mi portate al delirio. Pensate che abbia paura di uno scandalo? O della vostra ira?  Ma che me ne importa della vostra ira? Vi amo senza speranza e so che , dopo una cosa del genere, vi amerò mille volte di più. Se una volta o l’altra vi ucciderò, allora sarò costretto a uccidere anche me stesso.; ma in tal caso la tirerò più in lungo possibile prima di farlo, per provare l’intollerabile dolore della vostra mancanza.  Sappiate una cosa incredibile: io vi amo ogni giorno di più, sebbene questo sia quasi impossibile. E con tutto ciò non dovrei essere fatalista? Ricordate, l’altro giorno, sullo Schlangenberg, vi ho sussurrato, provocato da voi: ‘Dite una parola e salterò nell’abisso!’ Se aveste detto quella parola, sarei saltato.  Forse voi non credete che mi sarei buttato?”

“Che chiacchiere stupide”, esclamò.

“Non me ne importa nulla del fatto che siano stupide o intelligenti -, esclamai a mia volta. - So che in vostra presenza devo assolutamente parlare, parlare, parlare: e io parlo.  Tutto il mio amor proprio davanti a voi lo perdo e non m’interessa niente.

“E perché avrei dovuto costringervi a saltare dallo Schlangenberg?” - disse con tono secco e per certi versi particolarmente offensivo. - Questo per me sarebbe perfettamente inutile.”

“Meraviglioso!”, - esclamai. - Avete pronunciato questo meraviglioso “inutile” appositamente per schiacciarmi. Vi conosco, mascherina. Inutile, dite? Ma il piacere è sempre utile, e il potere assurdo, illimitato, foss’anche su una mosca, , è a sua volta una voluttà ‘sui generis’. L’uomo è despota per natura e ama essere un tiranno. A voi piace tremendamente.

Ricordo che mi fissava con enorme attenzione. Evidentemente il mio volto esprimeva in quel momento le mie confuse e assurde sensazioni. Ricordo che la nostra conversazione si svolse realmente, quasi parola per parola, così come l’ho qui descritta. Gli occhi mi si erano iniettati di sangue. Agli angoli della bocca si era raggrumata la bava. E per quel che concerne lo Schlangenberg, lo giuro sul mio onore, perfino adesso: se allora mi avesse ordinato di buttarmi giù, mi sarei buttato! Se me l’avesse detto soltanto per scherzo, se me l’avesse detto con disprezzo, sputandomi addosso, anche in quel caso sarei saltato giù!

"No, ma perché, io vi credo", dichiarò, ma proferì queste parole in un modo in cui soltanto lei sapeva a volte parlare, con un tale disprezzo, una tale malignità e una tale boria che, santo Dio, avrei potuto ammazzarla in quell'istante. Rischiava parecchio. Anche su questo punto non avevo mentito, parlando con lei.

"Voi non siete un vigliacco?", mi chiese all'improvviso.

"Non lo so, può anche darsi che sia un vigliacco. Non lo so... è da un bel po' che non ci penso."

"Se io vi dicessi: ammazzate quell'uomo, voi lo uccidereste?"»

 

Abbiamo riportato questo brano, abbastanza lungo, perché in ogni frase, in ogni riga, in ogni parola, quasi, si esprime l’intensa contraddizione fra uomo e donna che caratterizza i loro rapporti nell’ultimo secolo e mezzo, e che il grande scrittore russo ha saputo cogliere e delineare con suprema maestria.

Fra i due, Aleksej e Polina, è l’uomo che decide di giocare a carte scoperte: egli dice alla donna con estrema franchezza anche ciò che potrebbe danneggiarlo, sminuirlo, squalificarlo: non se ne preoccupa, mette in tavola tutte le sue carte , consapevole di non avere  nemmeno un asso, nulla che potrebbe renderlo più interessante agli occhi di lei. Certo, forse intuisce che quella sua spietata sincerità possiede, in qualche modo, una sua efficacia e che forse potrebbe, sotterraneamente, aprire una strada verso il cuore di lei: tanto è vero che, alla fine del romanzo, ma ormai troppo tardi, l’inglese lord Astley rivela ad Aleksej che Polina lo amava e che lo aveva atteso: lui è preso definitivamente dalla febbre del gioco e non se ne libererà più.

La franchezza brutale del giovane verso Polina è già qualche cosa di meglio delle arti miserevoli di un Des Grieux, ma, di per sé sola, non è ancora qualcosa di abbastanza virile: è virile il rifiuto del corteggiamento insinuante, della seduzione studiata, della finzione smaccata, ma non lo è altrettanto la svalutazione di sé, la mancanza di fierezza, la prostrazione davanti all’oggetto del desiderio, che serve solo a raddoppiarne la superbia e il senso di onnipotenza; e, forse, non lo è nemmeno quella esibizione impudica del proprio sentire, visto che si accompagna a una dichiarata incredulità circa l’elevatezza morale della destinataria di tanta confidenza.

Insomma, se Aleksej fosse davvero virile, allora gli basterebbe gettare in faccia a Polina il suo odio e il suo disprezzo, e sia pure accompagnato da una sofferta dichiarazione d’amore; e poi sparire. Ma no, egli continua a ronzarle attorno come una zanzara, si offre di precipitarsi a capofitto nei burroni, arriva a prometterle che, per amor suo, sarebbe anche capace di uccidere, così, senza odio e senza ragioni, senza nemmeno sapere perché.

Quale trionfo, per l’ego smisurato e narcisista della ragazza! Non se lo meritava davvero, le è stato praticamente regalato.

Ma tant’è: fino a quando esisteranno uomini come Aleksej, esisteranno pure donne come Polina; e fino a quando ci saranno al mondo delle donne come Polina, si troveranno pure, con matematica certezza, anche degli uomini come Aleksej.

La malattia chiama la malattia; l’insicurezza chiama la falsa sicurezza; la brama di dominio chiama la volontà di sottomissione.

Solo un uomo realmente, profondamente virile potrebbe redimere dai suoi paurosi fantasmi interiori una donna come Polina; forse.

O forse Polina è ormai perduta, e perdute sono tutte le donne come lei…