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La vera filosofia è per tutti o solo per pochi? Platonismo e Cristianesimo a confronto

di Francesco Lamendola - 13/01/2012


 

 


 

La vera filosofia deve essere essoterica o esoterica: rivolta a tutti gli esseri umani indistintamente, oppure rivolta solo a quei pochi che sono in grado di ricercare le più alte verità?

Diciamo “la vera filosofia”, e non soltanto “la filosofia”, intendendo per “vera” quella che si mostri capace non soltanto di illuminare le menti, ma anche di modificare radicalmente il modo di essere; di trasformare l’uomo vecchio in un uomo nuovo, rinato, per così dire, alla luce della verità che si è accesa in lui.

Vi sono, pertanto, almeno due grosse questioni sul tappeto: primo, se la filosofia sia soltanto una conoscenza astratta della verità, o se coincida con un mutato atteggiamento dell’uomo verso la vita; secondo, se la filosofia, intesa appunto nel senso più ampio del termine, ossia come conquista del sapere e, in ultima analisi, della verità, sia riservata a pochi o se possa divenire accessibile ai molti, anzi, a tutti, almeno in linea teorica.

Una terza questione, sottesa alle prime due, è se l’essere umano sia realmente suscettibile di cambiamento; se sia vero che un individuo può mutare il proprio modo di porsi di fronte alla vita e a se medesimo, non solo in superficie, ma anche in profondità; o se non sia vero, piuttosto, che nessuno cambia mai veramente, che nessuno impara mai a fondo le lezioni della vita e che ciascuno rimane sostanzialmente uguale a se stesso, pur modificando alcuni tratti esteriori.

Naturalmente, qui per “cambiamento” non si intende il ripudio di vecchie idee e l’adesione a nuovi sistemi di credenze, ma si intende un diverso modo di porsi a livello profondo, che implica una sensibilità nuova e un modo di ragionare nuovo, a prescindere dai contenuti specifici delle nuove (o delle vecchie) idee e credenze.

Ci sia permesso di mettere fra parentesi quest’ultima questione, pur consapevoli della sua estrema importanza; o meglio, ci sia concesso di arrivare subito alla conclusione, che meriterebbe invece un’ampia catena di ragionamenti, per affermare che sì, l’essere umano - a determinate condizioni - è suscettibile di cambiare profondamente la propria natura, di far morire in sé l’uomo vecchio per dare vita a un uomo nuovo; cosa che, del resto, è possibile osservare nell’esperienza della vita quotidiana, anche se si tratta di casi piuttosto rari e, sovente, poco appariscenti.

Veniamo alla prima questione che avevamo posto: la vera filosofia, ossia l’amore del sapere vero, non può essere, a nostro giudizio, un fatto puramente teorico, perché, se così fosse, essa si risolverebbe in una sorta di tecnica; mentre ciò che la caratterizza essenzialmente è la dimensione della ricerca personale, del mettersi interamente in gioco, dell’esplorare strade sconosciute o poco battute e, quindi, la capacità di fare una esperienza totale, che non coinvolge solo la facoltà razionale, ma tutta la vita spirituale dell’individuo.

Infatti è tutta l’anima che cerca la verità, di cui è ardentemente assetata, e non solo la mente razionale; la vera sapienza, dunque, non può consistere nell’impadronirsi di determinati contenuti intellettuali e nel riuscire a padroneggiarli secondo le regole della logica, ma nel pervenire a una visione radicalmente nuova del reale, tale da rischiarare ciò che prima era oscuro e da liberare l’anima da dubbi, incertezze, angosce e timori.

La seconda questione è di natura più sfumata. La vera filosofia non può che essere accessibile a tutti, altrimenti non sarebbe, appunto, che tecnica erudita e palestra di esercitazioni logiche; ma questo non significa che tutti siano realmente capaci di apprenderla, per il semplice fatto che non tutti, anzi, solo una piccola minoranza possiede una autentica motivazione alla ricerca ed è disposta a sobbarcarsi i sacrifici che essa, necessariamente, richiede.

Era opinione prevalente fra gli antichi che la filosofia fosse riservato a pochi; specialmente la scuola platonica sosteneva un tale punto di vista e basterebbe, a conferma di ciò, il motto che campeggiava all’ingresso dell’Accademia: «Non entri in questo luogo chi non è geometra»: come dire che se si è sprovvisti di una adeguata cultura geometrica (ma anche astronomica e musicale), è meglio rinunciare allo studio della filosofia.

Poche scuole minoritarie contestavano l’idea che la filosofia fosse riservata unicamente alle persone dotate di una cultura superiore e, quindi, che da essa fossero automaticamente esclusi i contadini, gli artigiani, le donne, per non parlare degli schiavi; anzi, non era infrequente che filosofi anche di gran fama negassero agli schiavi il possesso di un’anima.

Il cristianesimo ha operato una autentica rivoluzione culturale anche in quest’ambito, perché ha affermato che è possibile, anzi, che è necessario fondare l’uomo nuovo, attraverso la morte dell’uomo vecchio, non mediante l’acquisizione di contenuti puramente intellettuali, ma attraverso la rivelazione della Parola divina, del Verbo che si è fatto carne e che, in tal modo, si è reso intelligibile all’uomo, A TUTTI GLI UOMINI, parlando un linguaggio nuovo (e assolutamente inconsueto rispetto all’uomo vecchio del mondo antico, basato sulla forza e sulla gloria terrena), semplice e universale: il linguaggio dell’amore, del perdono, della riconciliazione.

I primi apologisti della religione cristiana, come Cecilio Firmiano Lattanzio (originario dell’Africa e vissuto circa fra il 240 e il 320 d. C.), obiettano ai filosofi pagani che essi parlano un linguaggio accessibile solo a pochi privilegiati e incomprensibile alle masse; mentre la Parola divina, nella sua sublime semplicità, giunge al fondo del cuore di ogni essere umano ed è in grado di operare in lui una radicale, spettacolare trasformazione, quale nessuna filosofia pagana è mai stata capace di fare.

Così si esprimeva Lattanzio nelle sue «Divinae Institutiones», III, 25-26 (traduzione di Luciano Perelli, «Antologia della letteratura latina», Paravia, Torino, 1973, pp. 633-35):

 

«25. Ora dobbiamo fare alcune considerazioni sulla filosofia in generale, per corroborare la nostra causa e trarre le conclusioni. Quel nostro sommo seguace di Platone [Cicerone] giudicò che la filosofia non è accessibile al volgo, perché non la possono professare che le persone colte.

“La filosofia - disse - si accontenta di pochi giudici ed essa stessa di proposito rifugge la folla”. Non è dunque sapienza, se aborre dal consorzio umano, perché la sapienza, se è stata concessa all’uomo, è stata concessa a tutti senza alcuna differenza, così che non v è nessuno assolutamente che non sia in grado di conseguirla. Ma quelli così stringono a sé la virtù concessa a tutto il genere umano, che sembra che vogliano essi soli godere di un bene che è comune a tutti, invidiosi come se volessero legare gli occhi o cavarli agli altri, perché non vedano il sole. Infatti che cos’altro significa il negare la sapienza agli uomini, se non sottrarre alle loro menti la luce vera e divina? Che se la natura dell’uomo è capace di sapienza, bisogna che operai, contadini, donne, e insomma tutti gli esseri che hanno forma umana siano ammaestrati, perché acquistino la sapienza, e che il popolo dei sapienti sia formato da gente di ogni lingua, condizione, sesso, età. Pertanto è un validissimo argomento che la filosofia non conduce alla sapienza e non è essa stessa sapienza, il fatto che i suoi misteri sono celebrato solo da coloro che hanno barba e pallio [i filosofi tradizionalmente usavano la barba lunga e il mantello]. Di questo si resero conto gli stoici, tanto che dissero che anche gli schiavi e le donne devono dedicarsi alla filosofia; comprese ciò anche Epicuro, che invita alla filosofia coloro che sono privi di ogni cultura letteraria, e lo stesso Platone, che volle costituire una città di sapienti.

Quelli tentarono bensì di fare ciò che la verità esigeva, ma non poterono andare oltre alle parole, in primo luogo perché è necessaria la conoscenza di molte discipline per potersi accostare ala filosofia. Bisogna imparare le nozioni elementari sell’alfabeto per saper leggere, perché in tanta varietà di nozioni non si può apprendere tutto col semplice ascolto né ritenerlo a memoria. Bisogna anche dedicarsi non poco allo studio della grammatica, per apprendere ad esprimersi correttamente; questo studio necessariamente porta via molti anni. Neppure l‘arte dell’eloquenza si può ignorare, per essere in grado di esporre agli altri ciò che si è appreso. Sono necessarie anche la geometria, la musica e l’astronomia, perché queste arti hanno una certa relazione con la filosofia. A imparare tutte queste cose non riescono né le donne, che negli anni della fanciullezza devono subito apprendere le mansioni inerenti ai lavori domestici, né gli schiavi, che sono costretti a prestare i loro servizio soprattutto in quegli anni in cui potrebbero imparare, né i poveri o gli operai o i contadini, che con la loro fatica debbono provvedere il cibo quotidiano. Per questo motivo Cicerone dice che la filosofia aborre dalla folla.

26. Ciò dunque che quelli compresero che si doveva fare poiché la natura lo richiedeva, ma tuttavia non riuscirono a fare essi stessi, e si resero conto che non poteva essere fatto dai filosofi, questo da sola fa questa dottrina celeste, poiché essa è la sola sapienza. Come poterono persuadere qualcuno quelli che non riescono neppure a persuadere se stessi, o come reprimeranno le brame, modereranno l’ira, freneranno le passioni di qualcuno, quando essi stessi cedono ai vizi e confessano che la natura è più forte di loro?  Quale efficacia invece abbiano sugli animi i precetti divini, in quanto sono semplici e veraci, lo dimostra l’esperienza quotidiana. Dammi un uomo che sia iracondo, maldicente, sregolato: con pochissime parole di Dio lo renderò mansueto come un agnello. Dammi un uomo bramoso, avido di denaro, tirchio: te lo renderò liberale e distributore a piene mani del suo patrimonio. Dammi uno pauroso del dolore e della morte. Be presto disprezzerà le croci, il fuoco e il toro di Perillo [il famigerato toro di bronzo costruito per il tiranno Falaride di Agrigento, in cui venivano arsi vivi i malfattori]. Dammi uno libidinoso, adultero, gaudente: subito lo vedrai sobrio, casto, temperante. Dammi un crudele e assetato di sangue, tosto quella furia si muterà in vera clemenza. Dammi uno ingiusto, privo di saggezza, peccatore: subito diverrà giusto, saggio e innocente: con un solo lavacro ogni malizia sarà cancellata. Tanta è la forza della sapienza divina, che una volta infusa nel cuore dell’uomo con un solo assalto caccia una volta per tutte la stoltezza, madre dei peccati: per fare questo non c’è bisogno di pagare uno stipendio, di libri né di veglie dedicate allo studio. Questo avviene gratis, facilmente, rapidamente, purché le orecchie siano aperte e il cuore sia assetato di sapienza. Nessuno abbia timore: noi non vendiamo acqua né affittiamo il sole. La fonte di Dio ricchissima e copiosissima è aperta a tutti e questo celeste lume sorge per tutti coloro che hanno occhi. Forse che qualcuno dei filosofi ha mai garantito questo, o se vuole può garantirlo? Essi, pur consumando il loro tempo nello studio della filosofia, non riescono a rendere migliore alcun altro e neppure se stessi, se appena la natura si oppone. Adunque la sapienza di quelli, per tanto che faccia, al massimo non elimina i vizi, ma li nasconde. Invece pochi precetti di Dio bastano a cambiare radicalmente l’uomo e a rinnovarlo, deposto l’uomo vecchio, tanto da renderlo irriconoscibile.»

 

Lasciamo perdere il tono apologetico e decisamente enfatico della seconda parte del ragionamento di Lattanzio; è chiaro che nessuno può aspettarsi di trovare nel cristianesimo una sorta di bacchetta magica per mutare di punto in bianco l’anima delle persone.

Ciò che egli vuol dire è che esiste, nella pregnanza della Parola divina, una efficacia operativa, tale da scardinare l’uomo vecchio e da permettere la nascita di un uomo interamente rinnovato; e che ciò avviene non per merito dell’uomo, della sua intelligenza e della sua sapienza, come pretendevano di saper fare i filosofi pagani, ma per mezzo della grazia, ossia dell’azione diretta di una forza soprannaturale che agisce dall’interno dell’uomo, rinnovandolo.

Si faccia attenzione alla terzultima frase del capitolo ventiseiesimo: « Essi [cioè i filosofi pagani], pur consumando il loro tempo nello studio della filosofia, non riescono a rendere migliore alcun altro e neppure se stessi, SE APPENA LA NATURA SI OPPONE [il maiuscolo è nostro]». Che cosa vuol dire: «se la natura si oppone», se non che l’azione culturale della filosofia pagana si rivolge unicamente alla dimensione naturale dell’uomo, che ha dei limiti ben precisi (e, in questo senso, è vero che solo pochi uomini possono aspirare alla verità), mentre l’azione del Verbo divino, proclamato dal Cristianesimo, si dispiega in una dimensione soprannaturale, riuscendo a piegare ogni resistenza sul proprio camino?

Ciò che è impossibile all’uomo, non è impossibile a Dio: questo è il senso della precisazione di Lattanzio, che non è affatto una ridondanza stilistica. Egli vuol dire proprio questo: che, sul piano delle cose umane, solo pochi possono giungere alla sapienza, e anche quei pochi non riescono a rendere migliori né il prossimo, né se stessi; mentre invece, sul piano della realtà soprannaturale, la verità risplende anche nella mente e nel cuore delle persone più semplici, oltrepassando qualunque impedimento.

Ciò che si oppone alla verità, infatti, appartiene all’ordine naturale: l’età, la cultura, il sesso di quanti vorrebbero apprenderla; ma il Verbo divino piega e allontana qualsiasi ostacolo, sì che la luce della verità possa brillare ovunque, indipendentemente dalla condizione particolare e dal bagaglio culturale degli esseri umani che lo accolgono.

Del resto, come diceva Kierkegaard in sacrosanta polemica con le fumisterie hegeliane, a che mi serve una filosofia che riesca a spiegare le ragioni ultime dell’universo, ma che non abbia una parola chiara, convincente ed efficace da rivolgere a me, proprio a me, così come a ciascun singolo essere umano che si domanda cosa debba fare della propria vita?