Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il dissenso fra Brecht e Benjamin su Kafka come metafora del «destinato a fallire»

Il dissenso fra Brecht e Benjamin su Kafka come metafora del «destinato a fallire»

di Francesco Lamendola - 13/01/2012


 


 

Kafka come scrittore rappresenta la metafora di colui che è destinato inesorabilmente alla sconfitta, al fallimento, senza speranza alcuna di redenzione o di riscatto?  Oppure nella sua opera si possono scorgere, fra le pieghe del suo stralunato pessimismo, dei segni rivelatori di un sia pur tenue messaggio di speranza, di rinascita?

Così, semplificando al massimo i termini della questione, si potrebbe riassumere la “querelle” fra gli amici-nemici Bertolt Brecht e Walter Benjamin, il marxista duro e puro e il neoconvertito che portava con sé un bagaglio spirituale più articolato e complesso, caratterizzato non solo dalla sua ebraicità, ma dalla tradizione specifica della “haggadah”, la forma di narrazione tipica del «Talmud» e di talune parti della liturgia giudaica.

Conosciutisi personalmente fin dal 1928 e poi ritrovatisi nell’estate del 1931 a Le Levandou e inizialmente animati da una apparente convergenza di vedute sul significato dell’opera di Kafka, proprio nell’interpretazione complessiva dell’opera di costui i due intellettuali tedeschi finirono per trovare la pietra d’inciampo del loro sodalizio e per allontanarsi sempre più l’uno dall’altro, pur nel contesto di un rapporto di immutata stima reciproca.

L’autore dell’«Opera da tre soldi», pur non arrivando alle durezze ideologiche di un Luckács, che faceva ben poca differenza tra Kafka e la “decadenza” borghese del primo Novecento, Brecht non aveva alcuna comprensione per la dimensione “trascendente” dello scrittore praghese e, quindi, non riusciva a vedere in lui che un “giusto” capace di tracciare una strada attraverso le tenebre del futuro, nonché un improbabile profeta del marxismo. Invece l’autore dell’«Opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica», grazie all’amicizia e alla consonanza intellettuale con Gersholm Scholem, che aveva abbandonato gli studi di filosofia e matematica per dedicarsi allo studio della mistica ebraica, era portato a vedere in Kakfa e nel suo mondo non già il presentimento di un futuro diverso, ma la cupa rassegnazione e il fatalistico abbandono della vittima sacrificale che non si sottrae al proprio destino, che non cerca né spera alcun riscatto alla propria sconfitta totale.

Tutto sta a come si interpreta la “sconfitta” dei personaggi di Kakfa (e di Kafka stesso): e un discorso analogo, a ben guardare, si potrebbe fare per gli ”inetti” dell’altro scrittore ebreo  dello scomparso mondo austro-ungarico, Italo Svevo (nonché per Svevo medesimo) e, in parte, anche per Joseph Roth, Marcel Proust ed altri esponenti della “letteratura dell’inquietudine”.

La cosa interessante è che, nel dibattito ermeneutico attorno all’opera kafkiana, è il militante marxista, colui che ha poso tutta la propria ricerca ed il proprio teatro al servizio della battaglia contro il fascismo, a mostrare una maggiore sensibilità per l’aspetto “progressivo” della poetica kafkiana, sia pure esagerando e facendone una specie di portatore inconsapevole del rivoluzionarismo comunista; mentre l’ebreo impegnato a laicizzare la teologia giudaica in chiave progressista non riesce a vedervi altro che la dichiarazione della sconfitta e della resa e, negli eroi kafkiani, degli esuli dalla dimensione della speranza.

Scriveva in proposito Giulio Schiavoni nel saggio «Benjamin nel giardino di Brecht Svendborg e dintorni» (in: Autori vari, «Walter Benjamin. Tempo, storia, linguaggio», Editori Riuniti, Roma, 1983, pp. 171-74):

 

«Fu però soprattutto il comune entusiasmo per Kafka a costituire l’occasione di maggior forza coesiva nel rapporto Brecht/Benjamin. Un entusiasmo ch’era germogliato in occasione di un loro incontro a Le Levandou nell’estate del 1931 allorché Benjamin aveva portato con sé - raccomandandone la lettura all’amico - “Nella costruzione della muraglia cinese”, che effettivamente impressionò Brecht. Ma contemporaneamente proprio nel segno di Kafka il loro sodalizio inizierà ad accusare sempre più vistosi attriti, riscontrabili proprio nei conversari di Svendborg, fino a far divergere le loro strade. Nel segno di Kakfa (ma senza dimenticare alteri nodi problematici  di per sé ormai noti ai lettori di Benjamin, quali specialmente la valutazione della posizione di Baudelaire e la riflessione sull’aura nel “Kunstwerk”) col trascorrere del tempo si direbbe siano affiorati dissidi di fondo che avevano la loro radice altrove e che non mancarono di costellare anche di “avversione scettica” l’”ammirazione amichevole” (Hans Mayer) nonché la “collaborazione e rispetto reciproci” (G. Seidel) presenti nella frequentazione di questi due “fratelli nemici”. La “querelle” sull’opera kafkiana e sul suo significato nel contesto dell’alienazione urbana contemporanea può infatti essere assunta a spia e a sintesi di un disagio più generale, dal quale non restavano risparmiati - come “due punti focali” di un’”ellisse” - né l’uno né l’altro degli interlocutori principali assurti al centro del dialogo epistolare di Benamjn nel 1931: Brecht e Scholem, due figure che sembravano albergare per Benjamin, quali realtà viventi e problematiche, due esperienze parimenti decisive come quella mistico-teologica e quella marxista che agiranno ancora nelle “Tesi di filosofia della storia!” (1940). In quell’amorevole testamento spirituale benjaminiano la teologia si fa soccorrevole (e per noi ancora estremamente attuale) proprio perché - nelle vesti dell’angelo che volge le spalle al futuro – invita ad abbandonare in quanto improduttiva e inaccettabile la concezione stessa di un marxismo di tipo storicistico e provvidenzialistico, professato quale acritico toccasana per una storia dallo “happy end” garantito. […]

Mi pare legittimo, a questo punto , richiamare in causa l’interrogativo: “Fino a che punto Brecht poteva costituire - nello stesso periodo in cui Benjamin formulava un giudizio così radicale su Kafka - la figura di una sorta di “giusto” capace di offrirsi come una smentita vivente alla prospettiva di un “fallimento finale”, che Benjamin considerava invece valida per un autore sul cui valore emblematico per l’epoca moderna era d’accordo anche Brecht?” L’interrogativo ha una sua pertinenza soprattutto perché, proprio in coincidenza con il primo stesso soggiorno danese di Benjamin nell’estate del 1934, il diario benjaminiano registra una certa incandescenza  nei rapporti con l’amico, ed esattamente sul nodo Kafka in quanto figura di sconfitto: Kafka in quanto l’essere umano che “di nulla era più convinto dell’insicurezza di tutte le garanzie”, in quanto creatura - dunque . esiliata dagli orizzonti dell’Erlosüng (“della redenzione”). Di fronte alla tesi che Benjamin difende anche a Svendborg, le conversazioni nel giardino di Brecht mostrano che questi protestò violentemente. Sia nel 1934, allorché di fronte all’amplificazione teorica di una caduta delle “garanzie” (che egli temeva valesse  per Benjamin stesso che gliela formulava) egli agitò lo spettro della “smania di far misteri” e della “profondità” come “dimensione per sé”, dunque impartecipabile.  E sia nel 1938 allorché, scettico “per le cose russe” e tuttavia stoicamente fiducioso nell’armata rossa che giunga a liberarlo, esorcizzò l’idea benjaminiana di un Kafka quale “malattia della tradizione”, temendo in Benjamin un cedimento verso il disfattismo e il fascismo ebraico, o anche semplicemente verso le sfere di un esoterismo male inteso.

Il conflitto, dunque, scaturiva di qui: Brecht sembrava restio ad aprire alla dimensione obnubilante della “profondità”, o dello “sprofondare” (al venir meno) delle “garanzie” l’ambito del profano. Sembrava restio a consegnare l’esperienza storica ai brividi della “malattia”, la quale aveva il suo “angelo” – secondo una lettera di Benjamin a Scholem - proprio in Kafka, che valesse per Benjamin come una sorta di “psicogramma del proprio sé” (H. Mayer). Per parte sua, Benjamin pareva avvertire la presenza della sottile, seducente tonalità apologetica nel rivendicare una “speranza per noi” negli spazi della “concretezza” (nel “qui” e nell’”ora”) che pure rendeva unica la produzione brechtiana. Benjamin sqpeva che il tempo segreto della erfüllte  Zeit messianica, la grammatica soltanto alludibile  e mai formalizzabile dell’erlöste Menschheit” (umanità redenta) non si poteva esaurire né nel tempo della storia (della stessa storia presente  che attendeva l’armata rossa liberatrice) né negli spazi della drammaturgia che esigevano un “pubblico rilassato, in grado di seguire l’azione con distacco”…»

 

Per Benjamin, Kafka è l’angelo malato, colui che ha perduto ogni orizzonte di speranza e che ha visto riflettersi nell’eclisse del sacro e della tradizione il tragico destino degli Ebrei d’Europa; è, anche, un personaggio con il quale sente delle profonde affinità e con il quale tende a identificarsi, specialmente per quanto riguarda il senso di smarrimento dovuto al venir meno della continuità storica fra passato e presente, allo sradicamento e all’alienazione propri di chi se ne va in cerca di nuove strade, disperso in una terra sconosciuta.

D’altra parte, nonostante la volontà di piegare le concezioni della teologia e della mistica giudaiche alle esigenze di una visione politica e militante, che vedeva nel comunismo marxista “il male minore”, al fondo della concezione della storia di Benjamin permane il senso del mistero, in tutta la sua pregnanza: in questo senso, l’uomo Kafka non è redimibile dalla sua sconfitta perché, a ben guardare, l’uomo in quanto tale non è interamente redimibile dal suo destino di solitudine, manipolazione e sconfitta finale.

È chiaro che fra l’ingenuo ottimismo di Brecht, che attendeva la risoluzione di tutti i nodi dalla vittoriosa avanzata dell’Armata Rossa staliniana e dall’instaurazione dell’”uomo nuovo” sovietico, e la perplessa, malinconica consapevolezza di Benjamin, che non crede sino in fondo ad alcuna rivoluzione, perché non crede che vi sia la formula ideologica capace di liberare l’uomo dalla sua miseria sul piano della storia, del qui ed ora, vi è un abisso incolmabile: l’abisso che separa le concezioni filosofiche che credono nella continua, incessante perfettibilità dell’uomo e quelle che non vi credono.

Fra le prime rientra il marxismo, che discende direttamente da una di quelle più tipiche della categoria, l’hegelismo, versione estrema del razionalismo illuminista, spinto fino al solipsismo di un pensiero che crea lo spirito; fra le seconde rientrano tutte quelle forme di pensiero che si avvalgono di categorie interpretative mistiche o, comunque, extra razionali, in quanto persuase della permanenza di un elemento della natura umana irriducibile alla luce della ragione e non modellabile secondo schemi di pensiero e di azione totalizzanti, per quanto “progressivi”.

A ben guardare, il contrasto fra Brecht e Benjamin è il contrasto inevitabile fra chi ritiene che il male possa venire estirpato dal mondo, mediante la ferrea imposizione del bene, e chi ritiene che il male sia, almeno in parte, costitutivo della realtà umana e, dunque, astorico e metafisico; e che, pertanto, non ci si debba fare soverchie illusioni su nessuna religione di salvezza, sia pure in versione laica e immanentistica.

Quanto al dibattito specifico sull’interpretazione di Kafka, vorremmo dire, se l’ampliamento dell’orizzonte non sembrasse eccessivo, che esso è analogo al dibattito sui “vinti” di Verga: se, cioè, li si debba considerare tali perché hanno fallito nei loro progetti di ascesa sociale, oppure se vinti, in fondo, lo siano tutti gli uomini, ricchi e poveri, perché tutti destinati alla solitudine, alla sconfitta e allo scacco della morte.

Un ulteriore elemento di interesse su questo dibattito è dato dal fatto che Benjamin, come rileva anche Remo Bodei, aveva colto il rapporto di complementarità esistente fra l’idea del progresso e quella dell’eterno ritorno: l’uno e l’altra, infatti, poggiano sulla convinzione della eterna perfettibilità dell’uomo, dell’eterno progresso della storia, dell’eterno compito dell’etica; come dire che la visione di Marx e quella di Nietzsche sono, a guardarle in prospettiva, molto meno lontane l’una dall’altra, di quanto potrebbe sembrare a prima vista.

Del resto, non è affatto strano: esse hanno una radice comune nel terreno dell’Illuminismo; con le dovute differenze, Marx e Nietzsche sono gli eredi di una stessa tradizione, come possono esserlo due figli di un medesimo genitore, che abbiano ricevuto una educazione sostanzialmente analoga, anche se i loro temperamenti sono notevolmente diversi.

Ma allora, a ben guardare, chi è che insegue un miraggio di tipo mistico: Benjamin, con la sua ansia di “redenzione” (il termine è attinto dal linguaggio di Franz Rosenzweig) e con la sua inesausta ricerca della originaria corrispondenza perfetta tra le cose e la parola divina, oppure Brecht, con il suo marxismo senza dubbi e con il suo ottimismo razionalista, che si aspetta il riscatto dell’Europa e dell’umanità dalle scintillanti baionette dell’Armata Rossa?