Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / 1848, le rivoluzioni che posero fine alle certezze legittimiste dei restauratori viennesi

1848, le rivoluzioni che posero fine alle certezze legittimiste dei restauratori viennesi

di Federica Puccinelli - 13/01/2012

  
La rivoluzione del ’48, o meglio le rivoluzioni, ebbero il loro inizio il 12 gennaio a Palermo, ove il 23 gennaio fu proclamato lo Stato di Sicilia e la monarchia borbonica dichiarata decaduta: esso resisterà sino al maggio 1849. Il ’48 proseguì a Parigi nel febbraio (proclamazione della Repubblica il 25), a Venezia nel marzo, ecc. quando scesero nelle strade, dietro le barricate, sia il proletariato che la borghesia, nei quali convivevano tendenze diverse: dai democratici ai socialisti, con questi ultimi che davano forma autonoma all’organizzazione della classe operaia. Quell’anno apparve a Londra, il 21 febbraio, anche la prima edizione de Il Manifesto del Partito Comunista di Carl Marx (1818-83) e Friedrich Engels (1820-95).
Risulta comunque chiaro che la rivoluzione non fosse animata da un gruppo compatto che avesse in comune le stesse idee guida. La notizia di Palermo e Parigi insorte, raggiunse velocemente gli altri Paesi europei, quelli “restaurati” e ciò dette avvio a una serie di ribellioni in Austria (cacciata di Metternich, concessione della Costituzione, ecc.), in Boemia, Belgio, Germania, Italia (tutti e nove gli Stati), Olanda, Spagna, Ungheria, e da parte dei polacchi del Granducato di Poznań, o della Grande Polonia, contro gli occupanti prussiani (1). La Svizzera il 12 settembre 1848, dopo lotte intestine, approvò la Costituzione che pose le basi all’attuale confederazione. Restò fuori solo la Russia di Alessandro II (1818-41-55), per il forte controllo zarista e l’immaturità delle masse contadine e del ceto politico-intellettuale, e i territori europei dell’Impero ottomano sotto il giogo del sultano ‘Abd ul-Meğīd I (1823-39-61).
In seno alle rivoluzioni del 1848 ci furono diverse esigenze a seconda degli Stati, che intraprendevano corsi differenti a causa delle condizioni politiche in cui si trovavano. Si possono comunque riscontrare tre tendenze principali: una costituzionale, dei Paesi sottoposti a monarchia assoluta; una nazionale, che tendeva all’unificazione del Paese; una – peculiare della Francia – prettamente democratico-sociale in direzione radicale.
In Italia le prime insurrezioni provocarono la concessione di costituzioni da parte dei monarchi della Penisola, ed inoltre Carlo Alberto (1798-1831-49) decise di dichiarare guerra all’Austria. Fu indotto a farlo da motivi che però non avevano niente a che spartire con gli ideali di unità nazionale: egli, e la propria casata, si proponevano infatti l’ampliamento del Regno di Sardegna (2).
Al contrario, fra gli artefici del Risorgimento, Giuseppe Mazzini (1805-72) era unicamente per la repubblica e sosteneva che la rivoluzione fosse sociale, individuando con esattezza i problemi esistenti in Italia al tempo. Egli, però, non desiderava interferenza alcuna da parte di elementi stranieri. Nel frattempo tra il 1840 e il ’48 nel nostro Paese prese piede il cosiddetto movimento “moderato”, o neoguelfo, il quale si opponeva all’azione rivoluzionaria svolta dalla mazziniana Giovine Italia dal 1833 in poi. Una delle maggiori opere in tal senso fu il Primato morale e civile degli italiani, pubblicato a Bruxelles nel 1843 dal sacerdote Vincenzo Gioberti (1801-52), già affiliato al summenzionato movimento. Anche Gioberti come Mazzini, partiva dall’idea di una missione affidata da Dio all’Italia. Mentre, però, Mazzini contava – per la realizzazione di tale compito – esclusivamente sulle forze del popolo, interprete della Provvidenza, Gioberti si fondava sulla forza morale e spirituale del Papato che aveva da circa due millenni la propria sede in Italia. E quindi esso avrebbe potuto raccogliere tutti gli Stati italiani in una lega federale sotto la presidenza del pontefice. Ossia non v’era bisogno di ricorrere alla rivoluzione, in quanto il programma unitario sarebbe risultato inattuabile dato che aveva contro sé i freschi princìpi legittimisti viennesi, di cui si facevano scudo i sovrani italiani e il papa stesso (3).
Le idee di Gioberti e gli atteggiamenti del neoguelfismo trovarono corrispondenza e consensi anche in altri ambienti, diversi da quelli esclusivamente cattolico-liberali. In Piemonte, dove le idee liberali, messe in atto con i moti del 1821, erano strettamente legate alla fedeltà verso la dinastia sabauda e alle sue secolari aspirazioni d’espansione nel nord dell’Italia, lo storico Cesare Balbo (1789-1853), con le sue Speranze d’Italia (1844), recò appoggiò le tesi svolte dal Gioberti nel Primato colmandone le lacune con gli apporti del programma moderato piemontese. In definitiva si dovevano ripudiare le dottrine “sovversive” di Mazzini (4). Altri esponenti di questa corrente del pensiero moderato furono Massimo Taparelli d’Azeglio (1798-1866; Degli ultimi casi di Romagna, 1846), e Giacomo Durando (1807-94; Della nazionalità italiana, 1846).
Ma non solo i neoguelfi, e i moderati in genere si opponevano a Mazzini, alle sue dottrine e ai suoi metodi di lotta. Anche nel campo più propriamente laico, se il programma rivoluzionario mazziniano poteva trovare consensi nel democraticismo tribunizio di Francesco Domenico Guerrazzi (1804-73), autore di romanzi storici quali l’Assedio di Firenze (1836), senza dubbio, le alte aspirazioni religiose mazziniane discordavano dall’anticlericalismo, proprio del romanziere e politico livornese e di altri neoghibellini, come Giovanni Battista Niccolini (1782-1861), autore di tragedie di spiccato spirito antipapale, quali Giovanni da Procida (1830) e Arnaldo da Brescia (1843). E perfino, scrittori di alto ingegno e di profonda preparazione storico-filosofica come Giuseppe Ferrari (1811-76) e Carlo Cattaneo (1801-69), se concordavano col Mazzini per l’ideale repubblicano che ispirava le loro opere, si staccavano per quello che era uno dei punti essenziali del programma mazziniano: l’unità nazionale. Ferrari e Cattaneo restarono sempre fedeli agli ideali del federalismo, che difesero tenacemente con gli scritti, dalla cattedra e dalla tribuna parlamentare. Per il Cattaneo, inoltre, che fu più tardi l’avveduto capo delle Cinque giornate (1848), l’ideale federativo, oltre che sul rispetto delle caratteristiche locali delle singole regioni d’Italia, si fondava su di un più ampio programma, politico che, pur salvando le autonomie nazionali dei singoli Stati avrebbe dovuto condurre, nel lungo periodo, agli Stati Uniti d’Europa (5). In particolare lo stesso Cattaneo accusò del fallimento della rivoluzione in Italia, il comportamento del re sabaudo il quale era spinto all’intervento da differenti motivazioni: a) doveva apparire come colui che era dalla parte del popolo insorto, per far sì che non s’instaurasse una repubblica o un governo che lo escludesse; b) era fortemente intenzionato a proteggere i propri interessi di monarca e contemporaneamente non deludere coloro i quali erano insorti. Dimostrò, in pratica. di aver più timori delle correnti politiche democratiche e socialiste che degli austriaci.
Gioberti, in seguitò – attraverso la pubblicazione del Rinnovamento civile d’Italia (1851) – abbandonò l’idea neoguelfa ma restò comunque diffidente degli esiti repubblicani. Egli scrisse che ciò che la repubblica aveva portato all’Italia era peggiore di quello che aveva causato la monarchia. Asserì, dopo il ’49, che senza l’aiuto del Piemonte, l’Italia non avrebbe mai intrapreso passi verso l’unificazione. Quindi Gioberti si manifestava chiaramente filo-torinese. Individuò anche i limiti della politica moderata, affermando che fosse impossibile raggiungere l’unità se prima non si era conquistata la libertà. In pratica accusava i monarchici di non volere l’unità d’Italia e l’allontanamento degli austriaci. Asseriva che dovesse essere il popolo come gruppo sociale a prendere l’iniziativa, senza la mediazione o la direzione dei monarchici. Egli rivide criticamente le proprie posizioni, orientandosi a favore di uno Stato liberale e unitario, indipendente dal Papato. Il rinnovamento lo concepiva in stretta connessione col movimento democratico europeo e sosteneva la necessità di andare incontro alle masse popolari con una serie di riforme politiche e sociali (suffragio universale, istruzione obbligatoria ecc.). Le sue opere furono poste all’indice dalla Chiesa.
Sulla linea dell’ultimo Gioberti, era Carlo Pisacane (1818-57; Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, 1850; e Saggi storici-politici-militari sull’Italia, 4 volumi, 1854), convinto che l’impulso apparteneva al popolo ed unicamente ad esso, e che fosse impossibile giungere alla vittoria senza aver prima abbattuto le istituzioni che gravavano sulle classi inferiori. La propria idea era di decentrare completamente l’amministrazione e il governo; di dare autonomia alle varie zone in maniera che ognuna di esse potesse giovare all’unità del Paese nella misura data dalle proprie capacità. In definitiva i gruppi politici moderati pensavano possibile l’indipendenza dall’Austria e l’unificazione con l’intervento regio, mentre dall’altra parte, i democratici, i mazziniani repubblicani e i radical-socialisti, ritenevano che dovesse essere il popolo a prendere l’iniziativa autonomamente.
Dopo la sconfitta di Custoza (22-27 luglio 1848) e il ritorno degli austriaci, si cominciarono a verificare nuove sommosse in direzione repubblicana: esse portarono alla creazione di governi repubblicani già Venezia, e poi a Roma e in Toscana (6). La reazione di Carlo Alberto fu immediata; egli denunciò il trattato di Salasco dell’8 agosto, e riprese in modo fallimentare il conflitto contro l’Austria. Il re fu sconfitto definitivamente a Novara il 23 marzo 1849 dal mar. Joseph Radetzky (1766-1858); si concludeva ingloriosamente la I Guerra d’Indipendenza.
Le ragioni dell’esito negativo della rivoluzione del ’48 in Italia sono quindi da ricercarsi nella presenza di una forza monarchica e nella frammentarietà in seno alle vocazioni repubblicane e nazionali che portarono ad un’inevitabile debolezza. In Francia, pur se su un piano dissimile, si manifestò la stessa fragilità: i più radicali finirono col perdere la fiducia degli elettori, dopo che fu istituito il suffragio universale.
Il risultato delle prime elezioni della II Repubblica (1848-1852) del 13-14 maggio 1849, fu quello di un governo dominato dai liberali moderati: questi erano la parte politica che portava avanti le esigenze della borghesia progressista e industriale e di certo non avrebbero cercato di sanare i problemi più prettamente popolari, come cercò di fare la Comune di Parigi undici anni dopo (7). Essi erano del Partito dell’Ordine, composto da monarchici legittimisti orleanisti e ammiratori della repubblica statunitense. Il movimento conseguì il 59% del 69% degli elettori che si recarono alle urne e 450 seggi all’Assemblea Nazionale Legislativa; seguirono i Montagnardi con 180, e i repubblicani moderati con 75. I capi del PdO erano: Adolphe Thiers (1797-1877) poi boia della Comune assieme ai tedeschi, François Guizot (1787-1874), Odilon Barrot (1791-1873), Charles Forbes René Conte di Montalembert (1810-70), Alfred Pierre Conte di Falloux (1811-86) e il ben noto primo filo-amerikano di tutti i tempi, Alexis de Tocqueville (1805-59).
La dimostrazione degli esiti reazionari si era avuta già dallo smantellamento degli ateliers nationaux – creati nella capitale il 27 febbraio 1848 su presa di posizione di Louis Blanc (1811-82) – che avevano rappresentato una scelta per la crescente disoccupazione di quegli ultimi anni (8). Infatti nel giugno 1848 fu la volta del popolo a scendere nelle piazze di Parigi dietro le barricate: la rivolta fu duramente repressa con l’appoggio e il consenso della borghesia industriale. La rivoluzione in Francia, comunque, si concluse con l’elezione di Luigi Bonaparte a presidente della Repubblica il 20 dicembre dello stesso anno, ed egli assumerà un atteggiamento autoritario e repressivo.
Le direzioni politiche tedesche, invece, erano ancora su un piano ulteriore. Da una parte l’ala moderata dei liberali e dall’altra l’ala dei nazionalisti democratici. I due poli fra cui si svolsero i “fichtiani” (9) discorsi alla nazione tedesca furono la supremazia austriaca o prussiana. La questione ebbe un esito condizionato quando il re di Prussia rifiutò la corona per l’unificazione tedesca offertagli dall’Assemblea Nazionale di Francoforte sul Meno (18 maggio 1848-31 maggio 1849). L’Austria, d’altro canto, si opponeva decisamente a tal passo. Il governo efficiente e autoritario che era in vigore in Prussia non dava né libertà né possibilità di concorrere all’amministrazione statale e governativa della Confederazione Germanica divisa in una quarantina di Stati indipendenti e liberi.
La ragione che impedì ai tedeschi di realizzare la propria unità – e concretizzare in scala statuale i valori nazionali – era lo spezzettamento del territorio, e in tale situazione si erano diversificati alcuni elementi fondamentali, costituenti l’etnicità del popolo dispersa in una miriade di piccole deleterie indipendenze. Quando la Germania sarà unificata nel quinquennio 1866-71, sarà per un atto militare della Prussia e non a causa di un’azione proveniente dalla masse. Masse che a loro volta, si sarebbero dovute sollevare innanzitutto contro i propri regoli e principini locali i quali, infine, poi sarebbero stati piegati dagli Hohenzollern.
L’Inghilterra, al contrario del Continente rimase – come da tradizione –completamente estranea alle cause che determinarono le rivoluzioni negli altri Paesi, e i problemi che sorsero derivarono unicamente dalla disumana industrializzazione da tempo avanzata da conservatori e liberali, Stessa Cosa della moneta che spacciavano. Per cui il ’48 aveva urtato i sentimenti della borghesia britannica e risuscitando la repubblica aveva ridestato gli odii nazionali di un tempo, cosicché questo movimento, invece di dare una spinta in avanti, favorì piuttosto le tendenze reazionarie. E fra queste il ’48 inglese segnò, in pratica, la fine del cartismo (10).
Anche in Irlanda il ’48 si fece sentire, attraverso la Rivolta della Carestia o Battaglia di Ballingarry. Un’organizzazione repubblicana Young Ireland Party tentò la ribellione contro la dominazione britannica in risposta alla repressione in corso e all’introduzione della legge marziale. Il tentativo di sommossa – 29 luglio, nel villaggio di Ballingarry, nella contea di Tipperary – coincise con il culmine della carestia e trovò poco appoggio da parte di una popolazione ormai stremata. I capi di essa – William Smith O’Brien (1803-64), John Mitchel (1815-75), Thomas Francis Meagher (1823-67), Terence Bellew MacManus (1823?-61) – furono deportati nell’oceanica Tasmania (ex Terra di Van Diemen) fin dove giunsero gli echi del Quarantotto.
 
 
Note
(1) La rivolta della parte polacca occupata dai russi era già scoppiata il 29 novembre 1830 a Varsavia e fu repressa il 5 ottobre 1813 (guerra russo polacca).
(2) Cfr. pure di Giovanni Armillotta, Il disprezzo dei Savoia per l’Italia, colonia del Regno di Sardegna, “Rinascita”, 9 agosto 2007, pp. 14-15.
(3) Raffaello Morghen, Civiltà europea, Palumbo, Palermo 1971, Vol. III, p. 130.
(4) Ivi, pp. 131-132.
(5) Ivi, p. 133.
(6) Repubblica di San Marco (17 marzo 1848-22 agosto 1849): Daniele Manin (1804-57) e Niccolò Tommaseo (1802-74); Repubblica Romana (9 febbraio-4 luglio 1849), triumviri: Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi (1819-90) e Carlo Armellini (1777-1863); a volte la Repubblica Romana è detta anche II R.R. per non confonderla con quella di epoca napoleonica (1798-99). Governo Provvisorio della Toscana (15 febbraio-11 aprile 1849), triumviri: Francesco Domenico Guerrazzi, Giuseppe Montanelli (1813-62) e Giuseppe Mazzoni (1808-80).
(7) Cfr. Il.Fog., La Comune di Parigi nel suo Centoquarantesimo Anniversario, “Rinascita”, 22 luglio 2011, pp. 7-10.
(8) Opifici nazionali: erano costituiti da operai urbani disoccupati che potessero svolgere lavori pubblici. Finanziati dallo Stato e strutturati egualitariamente.
(9) Da Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), filosofo tedesco, continuatore del pensiero di Kant e iniziatore dell’idealismo tedesco; autore dei Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808).
(10) Il cartismo fu un movimento di riforma politica e sociale nel Regno Unito durante la metà del sec. XIX, tra il 1838 e il 1859. Prende il nome dalla Carta del Popolo del 1838. Il cartismo è stato forse il primo moto sindacale di massa al mondo.