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Il re nella capanna

di Giuseppe Gorlani - 16/01/2012


 

   Un uomo dalle vesti stracciate chiede asilo al re nella sua capanna. Questi glielo concede, ma gli dà anche ago e filo per ricucire gli strappi. La veste, benché provvisoria, partecipa della presenza che vi abita. Perciò le due prospettive, apparentemente antitetiche, sul monaco e sulla veste sono entrambe vere. Nulla può essere racchiuso in una stabile definizione. Ma se l’Ineffabile viene colto, si aderisce perfettamente al continuo mutamento, il vibrare dell’Essere.

   Quel che cade, cade e così quel che s’innalza o avanza o retrocede. No, nessuna parola può trasmettere un’idea esauriente dello stato di non separazione. E tuttavia si insiste a volerlo celebrare, innanzitutto a se stessi. Al diavolo la coerenza e gli spazi ristretti in cui il pensiero si muove. Si ha solo voglia di cantare silenziosamente, riempiendosi la bocca d’erba, di foglie e di astri muti.

   Si vuole quel che si è e si è quel che si vuole. Prima però occorre svuotarsi della iattanza di credersi questo o quello. E pure va rigettata la presunzione di sapere.

   Così cadono gli orpelli, si prosciuga l’ansia di descrivere a se stessi quel che si vive, svanisce il bisogno di fare, la Storia si sgretola come argilla seccata dal sole e, nudi, ci si risveglia all’Inesprimibile. Già lo enunciavano le meravigliose “Upanishad”, rivolgendosi alle monadi mature pronte ad abbandonare la presa su qualsiasi illusorio possesso. E a Kashi lo proclamavano gli asceti “vestiti di cielo” ai discenti assisi ai loro piedi, mentre si invertivano le rive destra e sinistra, entrambe fauste.

   Se queste parole non sono più né mie né tue, puoi comprendere il significato recondito del non lasciare tracce. Nella capanna sei il re e il mendicante. Immobile, ti abbassi sull’acqua corrusca, ne raccogli un poco nelle mani a giumella e la offri al Signore della Liberazione, al Sé atemporale che in verità sei.