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L’agonia spaventosa di Galerio come paradigma della fine immonda dei persecutori

di Francesco Lamendola - 16/01/2012


 

 

Generalmente si pensa all’editto promulgato congiuntamente da Costantino e Licinio del 313 (impropriamente chiamato “editto di Milano”) come al primo documento ufficiale dell’Impero Romano che riconoscesse la libertà di culto ai cristiani, fino a quel momento più o meno sistematicamente perseguitati dalle autorità statali.

In realtà, due anni prima, il 30 aprile del 311, l’imperatore Galerio, sei giorni prima di morire, aveva fatto pubblicare, a Nicomedia, un editto analogo di tenore abbastanza simile, che concedeva ai cristiani di ricostruire le loro chiese abbattute e li invitava a pregare per la salute del sovrano e dell’Impero, con l’evidente, ma ingenua, intenzione di favorire un sincretismo religioso in cui il cristianesimo si sarebbe amalgamato con le altre fedi.

Galerio era stato il più convinto oppositore dei cristiani e si sospetta che sia stato proprio lui il principale ispiratore della decisione di Diocleziano, di cui era il Cesare, di scatenare una grande persecuzione contro di essi in tutto l’Impero (anche se in Occidente, ove regnavano Massimiano e Costanzo, essa di fatto non venne applicata).

Poi, dopo l’abdicazione di Diocleziano e Massimiano nel 305, Galerio era subentrato nella carica di Augusto per l’Oriente e aveva proseguito nella sua politica anticristiana, facendo altresì in modo che come nuovi Cesari non venissero nominati i figli di Costanzo e di Massimiano, rispettivamente Costantino e Massenzio, ma due uomini di sua completa fiducia, Severo e Massimino Daia, quest’ultimo, anzi, suo nipote, in quanto figlio di sua sorella.

Così, alla morte improvvisa di Costanzo, nel 306, poté sembrare che i disegni di Galerio, fermo sostenitore del sistema tertrarchico, stessero per realizzarsi pienamente; invece sia Costantino che Massenzio si fecero proclamare Cesari dalle loro truppe e né Severo (che, nel tentativo, perdette la vita), né lo stesso Galerio, entrato appositamente in Italia con un esercito, riuscirono a debellare gli usurpatori; e nella conferenza di Carnuntum (308), voluta da Galerio e cui parteciparono gli ex Augusti, Diocleziano e Massimiano, venne deciso di nominare un nuovo Augusto nella persona di Licinio (un altro fedele collaboratore dello stesso Galerio) e di riconoscere Costantino come Cesare per l’Occidente; quanto a Massimiano, che aveva accettato l’investitura da suo figlio Massenzio, egli venne persuaso ad abdicare per la seconda volta.

Questo compromesso non venne accettato né da Costantino, che puntava ormai al ruolo di Augusto e al dominio di tutto l’Occidente (quando già controllava la Britannia, la Gallia e la Spagna), né da Massenzio, che restava escluso dalla sistemazione (e che controllava l’Italia e l’Africa, quest’ultima strategicamente preziosa, perché era di fatto il granaio dell’Impero), né, infine, da Massiminio Daia, che non si accontentava più del rango subordinato di Cesare per l’Oriente.

Si ebbe così il crollo del sistema della tetrarchia, con la presenza di ben quattro Augusti contemporaneamente: Galerio a Nicomedia, Massimino Daia nelle province orientali, Licinio in Illirico e Costantino, che di nuovo si autoproclamava tale, in Occidente; più l’usurpatore Massenzio a Roma (senza contare Massimiano che, dopo aver cercato di sottrarre il potere a suo figlio Massenzio, nel 310 fece un ultimo, disperato tentativo di riprendere il trono a danno di Costantino, di cui era suocero, venendo però giustiziato o costretto al suicidio).

La resa dei conti era soltanto rinviata: dopo la morte di Galerio per malattia, Massenzio verrà eliminato da Costantino nella famosa battaglia del Ponte Milvio (quella preceduta dalla visione del labaro cristiano con la scritta: «In hoc signo vinces»), nel 312, mentre Massimino, sconfitto da Licinio presso Adrianopoli, si darà la morte a Tarso, nel 313; e, per finire, anche Licinio verrà fatto giustiziare da Costantino, nel 325, dopo essere stato da lui sconfitto a Crisopoli l’anno prima: in tal modo l’Impero Romano, per la prima volta dopo molto tempo, si trovò riunito sotto la guida di un unico imperatore, che, per di più, aveva concesso la piena libertà di culto ai cristiani e del quale si diceva che fosse cristiano egli stesso o che lo fosse sua madre, Elena.

Queste vicende convulse e sanguinose aiutano a capire, in parte, la politica religiosa imperiale negli anni che vanno dalla dissoluzione della tetrarchia all’avvento di Costantino come unico imperatore; il fallimento della persecuzione di Diocleziano e Galerio (protrattasi in Oriente, sotto Massimino Daia, fino al 313) fu seguito dal riuscito tentativo di trasformare proprio la religione cristiana da elemento di discordia e, quindi di debolezza, in elemento di aggregazione e di forza, facendo dei suoi numerosi e disciplinati seguaci i principali interessati alla stabilità e alla sopravvivenza della struttura imperiale romana, rispetto alla quale essi erano stati fino ad allora in posizione defilata, se non apertamente critica.

Lo stesso Galerio, il loro avversario più convinto, colpito, poco prima dell’ultimo anno del suo regno, da una malattia tremenda (forse un tumore alla prostata), si decise a promulgare, il 30 aprile del 311, l’editto di tolleranza generale di cui sopra abbiamo detto, controfirmato da Licinio e Costantino (ma non da suo nipote Massimino, che aveva sposato la causa della resistenza pagana contro la nuova religione).

I cristiani hanno visto fin da allora, nella dolorosissima malattia che colpì Galerio, una punizione divina per la sua empietà; o, almeno, così l’hanno interpretata i loro propagandisti ed apologisti, primo dei quali il prestigioso scrittore africano Lattanzio.

Così, dunque, rievoca Lattanzio la spaventosa agonia di Galerio nei capitoli XXXIII-XV del suo libello «De morti bus persecutorum» (in: Lattanzio, «Così morirono i persecutori», a cura di Luigi Rusca, Rizzoli, Milano, 1957, pp. 62-65):

 

«Galerio regnava già da diciotto anni, quando Iddio lo colpì con una piaga incurabile. Gli si manifestò un0ulcera maligna nella parte inferiore dei genitali e si diffuse sempre più largamente, I medici tagliano curano. Ma la piaga, quando si è già cicatrizzata, si riapre, e da una vena aperta sgorga tanto sangue da porre in pericolo la sua vita.  Tuttavia a stento l’emorragia è arrestata. Di riprende la cura in modo del tutto diverso. Finalmente si giunge a cicatrizzarla.  Ma di nuovo un leggero movimento del corpo riapre la ferita: sgorga ancor più sangue di prima. Galerio si sbianca e si consuma per le forze che l’abbandonano, e solo in estremi si riesce ad arrestare il fluire del sangue. Ma la ferita comincia a non sentir più i rimedi: la cancerosità invade le parti attigue, e quanto più si taglia, più si estende; più lo si cura, più il male prende forza.»

“… cedono vinti i maestri

e il Filliride Chirone e l’Amitaonio Melampo” (Verg. “Georg.”, III, 549-550).

Si chiamano d’ogni parte medici famosi: ma le mani degli uomini non reca nessun vantaggio. Si fa ricorso agli idoli: si invocano Apollo e Asclepio, chiedendo loro un rimedio. Apollo indica una cura: ma il male diviene molto più grave. La morte non era ormai lontana: tutte le parti basse risultavano attaccate. Dall’esterno i visceri imputridiscono, e il sedere va in cancrena. I poveri medici non cessano di sostenerlo e di curarlo, benché disperino di vincere il male. Ricacciato dai medicamenti il male si propaga all’interno, invade i visceri e vi genera vermi. La puzza si diffonde non solo attraverso il palazzo, ma per tutta la città. E non cv’è da meravigliarsi, giacché i condotti degli escrementi e delle urine sono divenuti tutt’uno. Divorato dai vermi il suo corpo si dissolve in putredine,tra intollerabili sofferenze.

“E d’orribili strida il ciel feriva;

qual mugghia il toro allor che dagli altari

sorge ferito, se del maglio appieno non cade il colpo, ed ei lo sbatte e fugge” (Verg., “Aen.”, II, 222 sgg.). Si applicavano al sedere in decomposizione carni cotte e bollenti di animali, perché il calore attirasse i vermi. Dopo averle tolte ne usciva fuori un enorme numero, eppure la putride fecondità dei visceri in cancrena e generava in quantità ancor maggiore. Già per il progredire del male alcune parti del corpo avevan mutato d’aspetto. La parte superiore fino alla piaga si era disseccata, e per la spaventosa magrezza la pelle giallastra si era profondamente infossata fra le ossa; la parte inferiore, gonfiatasi come un otre,  s’era ingrossata sì da non lasciar scorgere la forma delle gambe.  E ciò durò un ano intero, finché,vinto dai mali,  fu costretto a riconoscere il Signore. Nelle pause del dolore, sempre rinnovantesi, gridava che avrebbe ricostruito il tempio di Dio, e ogni cosa avrebbe compiuto per riparare il malfatto. Mentre stava per morire emanò un editto di questo tenore.

“Fra gli altri provvedimenti che noi non abbiamo cessato di prendere nell’interesse e a vantaggio dello Stato, avevamo cercato prima d’ora di riformare ogni cosa secondo le antiche leggi e le pubbliche usanze dei Romani e far sì che anche i Cristiani , che avevano abbandonato la religione dei loro avi, ritornassero a migliori consigli, giacché, per speciali ragioni, tali Cristiani erano stati presi da una ostinazione e da una follia tale, da non rispettare quelle istituzioni degli antichi che forse erano state stabilite che erano state stabilite proprio dai loro progenitori, ma di loro arbitrio e come a loro piaceva si errano create da sé le leggi che osservavano e riunivano per ogni dove folle di ogni specie. In breve, quando fu promulgato il nostri editto che li invitava a conformarsi alle istituzioni degli antichi, molti furono sottoposti a giudizio, molti anche colpiti. Ma poiché moltissimi persistevano nel loro proposito e ci accorgevamo che essi, pur non tributando agli dei il culto e la venerazione dovuta, non onoravano il Dio dei Cristiani, considerando la nostra infinita clemenza e la nostra costante consuetudine in virtù della quale siamo soliti largheggiare nel perdono a tutti i sudditi, ritenemmo senz’altro di estendere anche a costoro la nostra indulgenza,  in modo che potessero di nuovo divenire Cristiani e ricostruire i propri luoghi di riunione, purché nulla commettano contro l’ordine pubblico. Cin un altro messaggio indicheremo ai governatori le norme ch’essi dovranno osservare. Perciò, come compenso della nostra indulgenza, i Cristiani dovranno pregare il loro Dio per la salute nostra, dell’Impero e propria, affinché in ogni parte lo Stato conservi la propria integrità ed essi possano vivere tranquilli nelle proprie dimore.”

Tale editto fu promulgato a Nicomedia il giorno prima delle Calende di maggio, essendo Galerio console per l’ottava volta e Massimino per la seconda [il 30 aprile del 311]. Allora, aperte le prigioni, tu carissimo Donato, con gli altri confessori fosti messo in libertà, mentre per sei anni il carcere era stata la tua abitazione.  Ma Galerio per questo suo atto non ricevette da Dio il perdono dei propri delitti, e pochi giorno dopo, raccomandati a Licinio la moglie e il figlio e a lui affidatili [che invece li farà morire], mentre ormai le membra del proprio corpo si disfacevano, soccombette all’orrenda putrefazione. Ciò fu saputo a Nicomedia  a metà di quel mese, mentre si stavano organizzando  per le Calende di marzo le feste del Vicennale.»

 

Vi è una discreta componente di sadismo nel modo in cui  Lattanzio, scrittore per altri versi pacato nel sostenere le ragioni della sua fede di fronte ai pagani, si compiace di descrivere la terribile e ignominiosa malattia che ha colpito Galerio e che lo trasforma in una specie di cadavere vivente, infestato dai vermi e così maleodorante da appestare tutto il palazzo e l’intera città (iperbole che sarebbe quasi ridicola, se non fosse semplicemente grottesca).

Peraltro, esisteva una ricca letteratura apologetica, essenzialmente di origine giudaica, che forniva a Lattanzio degli antecedenti, per così dire, illustri: il racconto della morte di Erode il Grande nelle pagine di Giuseppe Flavio; quello della morte di Erode Agrippa negli «Atti degli Apostoli» e, ancora, in Giuseppe Flavio; e, il più famoso di tutti, quello della malattia e della morte di Antioco IV Epifane nel II Libro dei Maccabei (IX, 5-28), che qui riportiamo nella traduzione della «Bibbia di Gerusalemme» e nel quale, proprio come fa Galerio nel racconto di Lattanzio, il re seleucide indirizza ai suoi nemici - qui, i Giudei - una proposta di riconciliazione, per impetrarne il favore e le preghiere in vista della sua morte imminente:

 

«… Così diceva nella sua superbia: “Farò di Gerusalemme un cimitero di Giudei, appena vi sarò giunto”: Ma il Signore che tutto vede, il Dio d’Israele, lo colpì con piaga insanabile e invisibile. Aveva appena terminato quella frase, quando lo colpì un insopportabile dolore alle viscere e terribili spasimi intestinali, ben meritati da colui che aveva straziato le viscere altrui con molti e strani generi di tormenti. Ma egli non desisteva affatto dalla sua alterigia,  anzi pieno ancora di superbia spirava il fuoco della sua collera contro i Giudei e comandava di accelerare la corsa. Ma gli accadde di cadere dal carro in corsa tumultuosa e per la grave caduta di riportare contusioni in tutte le membra del corpo. Colui che poco prima pensava di comandare ai flutti del mare, arrogandosi di essere un superuomo e di pesare sulla bilancia le cime dei monti, ora gettato a terra doveva farsi portare in lettiga, rendendo a tutti manifesta la potenza di Dio, a tal punto che nel corpo di quel’empio si formarono i vermi e, mentre era ancora vivo, le sue carmi fra spasimi e dolori cadevano a brandelli e l’esercito era tutto nauseato dal marciume e dal fetore di lui.  Colui che poco prima credeva di toccare gli astri del cielo, ora nessuno poteva più sopportarlo per l’intollerabile intensità del fetore. Allora finalmente, malconcio a quel modo, incominciò ad abbassare il colmo della sua superbia e ad avviarsi al ravvedimento per effetto del divino flagello, mentre ad ogni istante era lacerato dai dolori. Non potendo più sopportare il suo proprio fetore, disse: “È giusto sottomettersi a Dio e non pensare di essere uguale a Dio quando si è mortali!”. Quell’empio si mise a pregare il Signore che ormai non avrebbe più avuto misericordia di lui, e diceva che avrebbe dichiarato libera la città santa, che prima si affrettava a raggiungere per raderla al suolo e farne un cimitero; che avrebbe reso pari agli Ateniesi tutti i Giudei che prima aveva stabilito di non degnare neppure della sepoltura, ma di gettare in pasto alle fiere insieme con i loro bambini;  che avrebbe adornato con magnifici doni votivi il sacro tempio, che prima aveva saccheggiato, e avrebbe  restituito in maggior numero gli arredi sacri e avrebbe provveduto con le proprie entrate ai contribuiti fissati per i sacrifici; inoltre che si sarebbe fatto Giudeo e si sarebbe recato in ogni luogo abitato per annunciare la potenza di Dio.»

 

È evidente che Lattanzio ha avuto presente questo brano di prosa allorché ha descritto la malattia e la morte di Galerio, o meglio, che se ne è servito come di un preciso modello letterario, fin nei particolari: dal puzzo delle carni infette, che ammorba l’aria tutto intorno e disgusta gli altri anche a grande distanza (l’intero esercito seleucide nel caso Antioco Epifane, il palazzo e la città di Nicomedia nel caso di Galerio), fino al riconoscimento della propria umana fragilità davanti a Dio da parte del monarca superbo, e alla richiesta di preghiere ai fedeli di quella stessa religione che aveva, per l’innanzi, crudelmente perseguitato.

Dispiace, un po’, che il cristiano Lattanzio si sia lasciato guidare qui, compiacendosene, da un modello veterotestamentario nel quale non si riscontra alcuna traccia di quella misericordia divina che è, invece, al cuore del lieto annunzio del Nuovo Testamento: benché convinto del proprio errore, il tiranno sacrilego non trova pietà davanti a Dio e le sue preghiere rimangono inascoltate, spegnendosi nei gemiti di dolore di una raccapricciante agonia.

I sostenitori delle buone ragiono, morali e teologiche, dell’autore del «De mortibus persecutorum» potrebbero ribattere che tali preghiere sono rimaste inascoltate perché non provenivano da un sincero pentimento, né da un autentico desiderio di riconciliazione con Dio: tanto è vero che non approdano ad una conversione, ma solo ad una richiesta di intercessione che suona alquanto opportunistica, specialmente se si considera il male fatto in precedenza e il sangue innocente versato; e si sarà notato che l’editto di Galerio usa una perifrasi eufemistica per non parlare apertamente delle uccisioni dei cristiani avvenute durante la persecuzione dioclezianea; (per la precisione, dice che i cristiani erano stati “deturbati”, “abbattuti”, per minimizzare la sanguinosa realtà delle sentenze capitali).

Questo argomento può essere condivisibile sul piano rigorosamente logico, ma vi fa difetto, appunto, proprio quel “di più” di compassione, di capacità di perdono, di amore, che rappresentano il vero e dirompente elemento di novità del cristianesimo rispetto alle altre religioni antiche, ivi compreso lo stesso giudaismo.

E non è una mancanza da poco…