Le tesi sostenute nell’ultimo libro di Pietro Ichino ( A che cosa serve il sindacato?, Mondadori, Milano 2005, pp. 298, Euro 17,50), se per caso fossero recepite e trasformate in leggi, riporterebbero indietro l’ Italia di più di un secolo: in pieno Ottocento, quando il lavoro non aveva alcun diritto e rappresentanza. Perché?
In primo luogo, perché l’autore (un giuslavorista) propone una radicale trasformazione della contrattazione collettiva. Uno strumento giuridico che invece costituisce, almeno dalla Carta del Lavoro (1927), il pilastro, piaccia o meno, su cui poggiano tutte le successive conquiste sociali, sancite dalla Costituzione repubblicana (1948) e dall'importantissimo Statuto dei Lavoratori (1970). Perciò il libro di Ichino, politicamente parlando, è animato da un antisindcalismo, che va ben oltre quello dello stesso fascismo…
In secondo luogo, perché nel libro il sindacato è considerato una specie di palla al piede del sistema economico italiano, o comunque una delle principali cause del “declino italiano”. E qui, come vedremo, Ichino ragiona più da economista che da giurista: considera il lavoro un puro e semplice fattore produttivo, e non una condizione di subordinazione sociale da tutelare giuridicamente. O comunque, Ichino non cerca di trovare un punto di equilibrio tra le due posizioni.
Ma qual è la sua proposta? Che il contratto nazionale di lavoro conservi “ il suo ruolo essenziale di rete di protezione universale, assumendo però il carattere di disciplina ‘di default’, cioè di regolamento applicabile soltanto dove non ne sia stato pattuito uno diverso da una singola organizzazione o coalizione sindacale di livello inferiore dotata della necessaria rappresentatività nella zona o azienda cui il contratto si riferisce” (p.13) . Il che in soldoni significa un autentico rovesciamento della situazione attuale: dove il divieto delle contrattazioni aziendali in deroga allo standard nazionale garantisce parità di trattamento giuridico, contributivo, sociale e assicurativo a tutti i lavoratori
Ichino però non la pensa così. Il divieto di deroghe sarebbe sbagliato perché basato sull’idea che “la valutazione data dai sindacati nazionali stipulanti di ciò che è ‘meglio’ e di ciò che è’ peggio’ per i lavoratori sia in ogni caso più affidabile rispetto alla valutazione che ne danno i lavoratori stessi nel caso concreto, nel singolo luogo di lavoro” (p.14). E’ un po’ come dire: sindacati nazionali fatevi da parte… Ma chi ci assicura che una volta messi fuori gioco i contratti nazionali, e i sindacati maggiori, non nascano sul piano locale sindacati “minori” e di comodo? E che, comunque, in assenza di standard obbligatori, la conflittualità, aumenti invece di diminuire? Gli esempi positivi citati dal giuslavorista (Gran Bretagna e Stati Uniti) riguardano realtà profondamente diverse da quella italiana, non comparabili. Quanto alle sfortunate vicende dell’Alfa di Arese, le responsabilità del fallimento non andrebbero imputate, come fa l’autore, solo ai sindacati ma equamente divise, come per le cause del “declino Italiano” tra i protagonisti della vicenda (partiti, governi, Fiat, eccetera).
Invece Ichino, che tra l’altro è stato dirigente sindacale della Fiom-Cgil e deputato Pci, attacca soprattutto i sindacati, e con una durezza degna Hayek Ecco cosa scrive nei riguardi di Cgil, Cisl, Uil: “Una responsabilità tutta particolare è quella che portano le confederazioni sindacali maggiori (…)incapaci di sperimentare forme diverse di azione [dallo sciopero] altrettanto efficaci ma meno costose per tutti; incapaci soprattutto di far valere la superiorità (…) di un disegno complessivo di allineamento graduale degli standard di qualità del servizio e di trattamento di chi vi è addetto agli standard e ai paesi più civili” (pp. 222-223).
L’idea del giuslavorista è tutto sommato molto semplice: va ridimensionato il potere del sindacato e ampliato quello delle imprese. E i contratti in deroga sarebbero lo strumento che consente alle aziende di competere meglio, agendo in particolare sul costo del lavoro. Ma in questo modo il lavoro non torna a essere un puro e semplice fattore economico? Certo. Ma per Ichino questo non è un problema, visto che tutto il libro è fondato su un saldo presupposto economicista. Quale? Che il mercato produca sempre ricchezza, e che per produrla debba essere messo nelle condizioni di funzionare senza alcun intralcio sociale e sindacale.
Esemplare a riguardo è la sua ricetta anti-ineguaglianza. La prosa di Ichino è impervia, ma vale la pena sacrificarsi: “La garanzia migliore di benessere per chi risulta perdente alla lotteria naturale e sociale non è costituita dall’imposizione di un alto contenuto assicurativo nel rapporto di lavoro regolare, sia essa disposta per legge o mediante contratto collettivo. Essa può essere data invece da una rete universale di sicurezza costituita da un sistema di servizi scolastici, di formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente possibili, di informazione e orientamento professionale, di assistenza alla mobilità geografica, di ricerca intensiva e personalizzata della nuova occupazione, oltre che di sostegno del reddito per la durata del periodo di disoccupazione. Misure e servizi tanto più intensi e attivi quanto più è debole la persona interessata, cioè mobilitati efficacemente per neutralizzare il suo deficit naturale di competitività” (p.115).
E ora l’esegesi. L’espressione “lotteria naturale e sociale” è puro darwinismo sociale. Poi si parla di “misure e servizi” ma non di diritti sociali, oppure si critica “alto contenuto assicurativo nel rapporto di lavoro”: un linguaggio più da broker che da giurista. La“debolezza” della persona è riferita al concetto di “competitività”. Il che vuol dire che un uomo ha valore solo se capace di competere (economicamente) con un altro: un po’ come il soldato che ha valore solo se è in grado di battersi… Quanto alla “rete universale di sicurezza”, tutti sappiamo come oggi funzionino scuole, università, orientamento professionale. Per non parlare della “ricerca personalizzata” del posto di lavoro: che gratifica solo gli uffici di collocamento privati e le imprese in pulizia, sempre in cerca di personale a basso costo. E, infine, suona derisorio il passaggio sull’ “assistenza alla mobilità geografica”che in parole povere significa concessione al lavoratore di una misera buonuscita…
Il suo economicismo viene curiosamente meno quando affronta il diritto di sciopero, che invece sarebbe un diritto economico per eccellenza… E invece Ichino lo esclude addirittura dai “diritti fondamentali”. Perché, scrive, “proprio la non universalità del riconoscimento del diritto di sciopero, nel panorama internazionale, costituisce per altro verso un argomento rilevantissimo contro la sua qualificazione come diritto fondamentale” (p.208). Qui però il giuslavorista si inerpica per la tortuosa strada del positivismo giuridico: dottrina che riconduce il diritto alla legge scritta, quale espressione della volontà di un legislatore umano. Per farla breve, se il diritto di sciopero, non è nei codici e nelle costituzioni, allora se ne può fare anche a meno…
Se ricordiamo bene, anche Pinochet sosteneva questa tesi. . .
In primo luogo, perché l’autore (un giuslavorista) propone una radicale trasformazione della contrattazione collettiva. Uno strumento giuridico che invece costituisce, almeno dalla Carta del Lavoro (1927), il pilastro, piaccia o meno, su cui poggiano tutte le successive conquiste sociali, sancite dalla Costituzione repubblicana (1948) e dall'importantissimo Statuto dei Lavoratori (1970). Perciò il libro di Ichino, politicamente parlando, è animato da un antisindcalismo, che va ben oltre quello dello stesso fascismo…
In secondo luogo, perché nel libro il sindacato è considerato una specie di palla al piede del sistema economico italiano, o comunque una delle principali cause del “declino italiano”. E qui, come vedremo, Ichino ragiona più da economista che da giurista: considera il lavoro un puro e semplice fattore produttivo, e non una condizione di subordinazione sociale da tutelare giuridicamente. O comunque, Ichino non cerca di trovare un punto di equilibrio tra le due posizioni.
Ma qual è la sua proposta? Che il contratto nazionale di lavoro conservi “ il suo ruolo essenziale di rete di protezione universale, assumendo però il carattere di disciplina ‘di default’, cioè di regolamento applicabile soltanto dove non ne sia stato pattuito uno diverso da una singola organizzazione o coalizione sindacale di livello inferiore dotata della necessaria rappresentatività nella zona o azienda cui il contratto si riferisce” (p.13) . Il che in soldoni significa un autentico rovesciamento della situazione attuale: dove il divieto delle contrattazioni aziendali in deroga allo standard nazionale garantisce parità di trattamento giuridico, contributivo, sociale e assicurativo a tutti i lavoratori
Ichino però non la pensa così. Il divieto di deroghe sarebbe sbagliato perché basato sull’idea che “la valutazione data dai sindacati nazionali stipulanti di ciò che è ‘meglio’ e di ciò che è’ peggio’ per i lavoratori sia in ogni caso più affidabile rispetto alla valutazione che ne danno i lavoratori stessi nel caso concreto, nel singolo luogo di lavoro” (p.14). E’ un po’ come dire: sindacati nazionali fatevi da parte… Ma chi ci assicura che una volta messi fuori gioco i contratti nazionali, e i sindacati maggiori, non nascano sul piano locale sindacati “minori” e di comodo? E che, comunque, in assenza di standard obbligatori, la conflittualità, aumenti invece di diminuire? Gli esempi positivi citati dal giuslavorista (Gran Bretagna e Stati Uniti) riguardano realtà profondamente diverse da quella italiana, non comparabili. Quanto alle sfortunate vicende dell’Alfa di Arese, le responsabilità del fallimento non andrebbero imputate, come fa l’autore, solo ai sindacati ma equamente divise, come per le cause del “declino Italiano” tra i protagonisti della vicenda (partiti, governi, Fiat, eccetera).
Invece Ichino, che tra l’altro è stato dirigente sindacale della Fiom-Cgil e deputato Pci, attacca soprattutto i sindacati, e con una durezza degna Hayek Ecco cosa scrive nei riguardi di Cgil, Cisl, Uil: “Una responsabilità tutta particolare è quella che portano le confederazioni sindacali maggiori (…)incapaci di sperimentare forme diverse di azione [dallo sciopero] altrettanto efficaci ma meno costose per tutti; incapaci soprattutto di far valere la superiorità (…) di un disegno complessivo di allineamento graduale degli standard di qualità del servizio e di trattamento di chi vi è addetto agli standard e ai paesi più civili” (pp. 222-223).
L’idea del giuslavorista è tutto sommato molto semplice: va ridimensionato il potere del sindacato e ampliato quello delle imprese. E i contratti in deroga sarebbero lo strumento che consente alle aziende di competere meglio, agendo in particolare sul costo del lavoro. Ma in questo modo il lavoro non torna a essere un puro e semplice fattore economico? Certo. Ma per Ichino questo non è un problema, visto che tutto il libro è fondato su un saldo presupposto economicista. Quale? Che il mercato produca sempre ricchezza, e che per produrla debba essere messo nelle condizioni di funzionare senza alcun intralcio sociale e sindacale.
Esemplare a riguardo è la sua ricetta anti-ineguaglianza. La prosa di Ichino è impervia, ma vale la pena sacrificarsi: “La garanzia migliore di benessere per chi risulta perdente alla lotteria naturale e sociale non è costituita dall’imposizione di un alto contenuto assicurativo nel rapporto di lavoro regolare, sia essa disposta per legge o mediante contratto collettivo. Essa può essere data invece da una rete universale di sicurezza costituita da un sistema di servizi scolastici, di formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente possibili, di informazione e orientamento professionale, di assistenza alla mobilità geografica, di ricerca intensiva e personalizzata della nuova occupazione, oltre che di sostegno del reddito per la durata del periodo di disoccupazione. Misure e servizi tanto più intensi e attivi quanto più è debole la persona interessata, cioè mobilitati efficacemente per neutralizzare il suo deficit naturale di competitività” (p.115).
E ora l’esegesi. L’espressione “lotteria naturale e sociale” è puro darwinismo sociale. Poi si parla di “misure e servizi” ma non di diritti sociali, oppure si critica “alto contenuto assicurativo nel rapporto di lavoro”: un linguaggio più da broker che da giurista. La“debolezza” della persona è riferita al concetto di “competitività”. Il che vuol dire che un uomo ha valore solo se capace di competere (economicamente) con un altro: un po’ come il soldato che ha valore solo se è in grado di battersi… Quanto alla “rete universale di sicurezza”, tutti sappiamo come oggi funzionino scuole, università, orientamento professionale. Per non parlare della “ricerca personalizzata” del posto di lavoro: che gratifica solo gli uffici di collocamento privati e le imprese in pulizia, sempre in cerca di personale a basso costo. E, infine, suona derisorio il passaggio sull’ “assistenza alla mobilità geografica”che in parole povere significa concessione al lavoratore di una misera buonuscita…
Il suo economicismo viene curiosamente meno quando affronta il diritto di sciopero, che invece sarebbe un diritto economico per eccellenza… E invece Ichino lo esclude addirittura dai “diritti fondamentali”. Perché, scrive, “proprio la non universalità del riconoscimento del diritto di sciopero, nel panorama internazionale, costituisce per altro verso un argomento rilevantissimo contro la sua qualificazione come diritto fondamentale” (p.208). Qui però il giuslavorista si inerpica per la tortuosa strada del positivismo giuridico: dottrina che riconduce il diritto alla legge scritta, quale espressione della volontà di un legislatore umano. Per farla breve, se il diritto di sciopero, non è nei codici e nelle costituzioni, allora se ne può fare anche a meno…
Se ricordiamo bene, anche Pinochet sosteneva questa tesi. . .