I forconi
di Francesco Mario Agnoli - 30/01/2012
Lo sciopero degli autotrasportatori non è certo il primo. Ve ne sono stati altri e più o meni identici sono stati tanto le modalità (inclusi i blocchi agli svincoli delle autostrade) e gli effetti (difficoltà di rifornimento dei carburanti e scaffali vuoti nei supermercati). Tuttavia sarebbe erroneo archiviare il tutto nel deja-vu. Questa volta in Sicilia le richieste degli autotrasportatori si sono saldate con quelle degli agricoltori e dei pescatori, riuniti nel Movimento dei Forconi, e il fenomeno si è in parte esteso (sia pure con modalità più sfilacciate) a gran parte del resto d'Italia (si pensi alla furibonda manifestazione degli esasperatissimi pescatori a Roma, repressa dalla polizia con altrettanto inusitata violenza). Ovviamente non sono mancate le proteste degli automobilisti, costretti a lunghe file per fare il pieno e di quanti faticavano a rifornire la dispensa. Tuttavia forse per la prima volta a dispetto dei disagi subiti le espressioni di solidarietà hanno superato quelle di dissenso.
Ma restiamo alla Sicilia, dove la saldatura dei moti di protesta sotto l'insegna dei Forconi è risultata più evidente e compatta. A quella Sicilia che fino agli ultimi giorni, quando non è stato più possibile far conto di nulla, i mass-media nazionali sembravano considerare, quanto ad importanza delle notizie che ne provenivano, più remota della Libia.
Se non fosse che per la storiografia moderna la storia non è più “magistra vitae” la storia nazionale potrebbe insegnarci che spesso sono stati proprio i Siciliani ad accendere per primi la miccia dello scontento trasformandolo in rivolta e in rivoluzione. E' accaduto nel 1820, nel 1848, quando la rivolta di Palermo diede il via allo sconquasso europeo, e di nuovo nel 1860, quando i moti siciliani resero possibile la conquista di Garibaldi. In realtà di questi avvenimenti qualcosa, magari malamente, sappiamo, dal momento che i manuali scolastici li hanno tutti (e non solo quelli del 1860 santificati da Garibaldi) interpretati e catalogati esclusivamente in chiave “liberale” e “unitaria”. Comunque li si interpreti resta il fatto della grande forza propulsiva ed espansiva delle collere popolari che trovano in Sicilia il loro momento esplosivo. (mi guardo bene dal credere che dipenda dall'Etna o dalla vampa solare più forte che nelle brumose regioni del nord).
Una forza che non manca nemmeno (anzi!) nella rivolta palermitana del 1866 detta del “sette e mezzo”dai giorni che occorsero per piegarla. Su questa però la storiografia ufficiale preferisce sorvolare e l'ha dimenticata nelle celebrazioni centocinquantenarie nonostante sia la più meritevole di attenzione se non altro perché questa furibonda esplosione di collera contro il governo nazionale avvenne ad appena sei anni dall'impresa garibaldina e dall'unità e vi presero parte molti che si erano battuti dalla parte di Garibaldi e degli unitari.
Erano tempi feroci e si può sperare che non si ripetano mai più le modalità della rivolta (i rivoltosi diedero al caccia ai poliziotti e più d'uno venne linciato) e della spietata repressione, ma le cause che la determinarono non mancano di attualità. La storiografia più recente le ha individuate nella crescente miseria, nell'introduzione di misure poliziesche inutilmente vessatorie e di nuovi e gravosi balzelli, che determinarono, come scrive Orazio Ferrara, riprendendo lo storico Paolo Alatri, “l'impossibile: l'alleanza tattica dei gruppi filoborbonici con circoli del radicalismo democratico, cioè l'ala oltranzista del vecchio partito filogaribaldino, e di questi due con gli autonomisti e gli indipendentisti, componenti politiche, queste ultime perennemente presenti nella storia dell'isola”. Un'alleanza al di fuori degli schemi che - commenta il Ferrara - la dice lunga su quale laboratorio politico di prim'ordine fosse in funzione in quel momento in Sicilia.
Per battere la rivolta il governo dichiarò lo stato d'assedio ed inviò in Sicilia il generale Raffarle Cadorna alla testa di 40.000 uomini, che entrarono in Palermo dopo che la città era stata a lungo bombardata dalla Regia Marina affiancata da alcune navi inglesi. I rivoltosi resistettero accanitamente combattendo casa per casa. Alla fine la conta dei morti: duecento fra i militari e un numero imprecisato fra i rivoltosi, molti dei quali arsi vivi nelle case incendiate. Domata la rivolta un migliaio di civili fu passato per le armi.
I giornali benpensanti dell'epoca (“La perseveranza”, “La Lombardia” ecc.), tributarono un ricordo d'onore ai delegati di pubblica sicurezza caduti nell'adempimento del dovere e attribuirono il “sette e mezzo” in esclusiva a gruppi filoborbonici (corrispondenti nell'immaginario “liberale” di allora agli odierni estremisti di destra) e, esattamente come oggi, alla mafia, che, a seconda delle occasioni, tutto copre e giustifica o scredita.