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Tempo di lotta, tempo di speranza

di Francesco Lamendola - 30/01/2012


 


 

Viviamo in tempi difficili, si usa dire.

Sì, forse siamo alla vigilia di un crollo della civiltà; forse questo crollo è già avvenuto, e noi siamo gli abitanti stralunati delle rovine, i quali, frastornati e confusi, non si sono ancora resi conto che i loro superbi palazzi più non esistono.

Mai come oggi, comunque, tutte le certezze sono sembrate illusorie; tutte le tradizioni, superate; tutte le fedi, ingannevoli; tutte le promesse, menzognere: ci aggiriamo in un deserto, nel quale sono scomparsi i punti di riferimento; e nemmeno una stella, la notte, brilla nel cielo per indicarci la giusta direzione da tenere nel nostro cammino.

Forse stiamo semplicemente girando in tondo, senza senso e senza scopo, e non arriveremo mai da nessuna parte; forse siamo condannati a morire di sete e di calore in questo luogo torrido, afoso, inospitale, in questo luogo estraneo, che è emerso quasi d’improvviso al posto dei luoghi consueti, che credevamo di conoscere.

Siano divenuti estranei a noi medesimi; e il senso di alienazione che proviamo nei confronti del mondo esterno, cose, persone e situazioni, non è che il riflesso dell’estraniamento da noi stessi, dell’esilio dalla nostra parte più vera e profonda.

Viviamo in tempi difficili, e quelli che ci aspettano saranno ancora più duri: saranno tempi di lotta, nei quali occorreranno forza, coraggio, determinazione incrollabile.

Ci sarà bisogno anche di speranza?

La speranza è sempre necessaria e, a maggior ragione, lo è nei tempi difficili; tuttavia, per essere una virtù e non un vizio, bisogna che sia speranza di qualcosa di possibile, bisogna che sia speranza viva e autentica, e non mera fuga dalle responsabilità presenti.

Ebbene, è  questo il genere di speranza di cui vi sarà bisogno; di cui vi è bisogno, fin da ora, fin da subito: perché i cuori sono stanchi e gli animi sono affranti; e neppure si riesce a immaginare, fra le nebbie dell’oggi, il sole che domani splenderà sul mondo.

Questo è un tempo di lotta, quindi un tempo per chi ha l’animo del guerriero; ma deve essere anche un tempo di speranza, dunque un tempo per chi sa divenire mago, riconquistando, attraverso la sofferenza e la consapevolezza, l’innocenza perduta.

Forti come guerrieri disposti a lottare fino all’ultimo; ma, nello stesso tempo, aperti alla speranza, come chi sa che la lotta non è fine, né premio a se stessa, e specialmente una lotta dalle prospettive così incerte, come quella che ora è necessario combattere contro la nostra progressiva disumanizzazione, contro la nostra progressiva espropriazione da noi stessi; ma che essa non è mai inutile, mai indegna di essere combattuta.

Vivere in un contesto difficile, nel quale la barbarie sembra trionfare, mentre la bellezza, l’intelligenza e la bontà paiono destinate a scomparire, significa che un po’ tutti, anche coloro che non si sentono a proprio agio e che vorrebbero reagire all’andazzo dominante, ma non sanno come, sono esposti a un certo grado d’imbarbarimento.

Nietzsche rappresentava questa situazione con la metafora dell’abisso: non si può guardare troppo a lungo nell’abisso, affermava, senza che l’abisso incominci a guardare in noi; ed Evola aggiungeva la metafora della tigre: quando la tigre è scatenata, tu non puoi affrontarla a mani nude, perché ti farebbe a brani: puoi solo cercare di saltarle in groppa e assecondare la sua pazza corsa, sperando che si presenti l’occasione di spingerla nella direzione meno sfavorevole.

Quindi, noi figli del Kali Yuga non possiamo andare a mani nude contro i poderosi meccanismi dell’economia e della finanza, o contro il conformismo culturale ormai radicato in profondità e sostenuto da veri e propri centri di potere intellettuale (ed economico-finanziario); non possiamo scagliarci a testa bassa contro il castello di menzogne e d’ipocrisie che domina il sentire ed il pensare di milioni di persone, e che è tenuto in piedi da potenti e inconfessabili interessi di natura materiale e, in certi casi, perfino dalla minaccia del codice e della prigione.

Il fatto è che in questi tempi di populismo e demagogia sfrenata, la stragrande maggioranza della popolazione è convinta di vivere in un mondo perfettamente libero e democratico; per cui, se qualcuno solleva dubbi o pone obiezioni a ciò che è considerato politicamente corretto, viene immediatamente percepito come un elemento sovversivo e pericoloso, che opera a danno del bene comune e che deve essere neutralizzato al più presto, nell’interesse generale.

Il male è penetrato molto più in profondità di quanto non appaia; la percezione di ciò che è vero e di ciò che è giusto è talmente stravolta, che, tanto per fare un solo esempio, l’orribile utopia negativa immaginata da Orwell in «1984» è stata trasformata in un programma televisivo di grande successo, cui milioni di giovani aspirano a partecipare: è questa una delle più sconcertanti manifestazioni di quella “servitù volontaria”, contro la quale Etienne De La Boëtie metteva in guardia come una delle forme più insidiose di consenso nei confronti di un potere arbitrario.

Il problema centrale, infatti, è proprio questo: che, mentre nelle forme pre-moderne di schiavitù le cose apparivano per quel che erano e dunque anche le catene, materiali o metaforiche che fossero, risultavano evidenti, nella società attuale il cittadino-suddito-consumatore stenta alquanto a rendersi conto della propria servitù, della propria alienazione, del proprio abbrutimento. Egli crede ancora di esercitare il proprio libero arbitrio, anche quando “chiede” la sua razione quotidiana di bruttezza, stupidità e ingiustizia; ed è quel che ripetono, ad esempio, i gestori delle reti televisive, specialmente private, quando ribattono ai critici della tv-spazzatura che essi, in fondo, danno al pubblico ciò che esso domanda e non altro.

E questo, infatti, è il problema centrale della democrazia: in una dittatura della maggioranza, chi riesce a controllare i pensieri e a orientare i sentimenti della maggioranza, ha in pugno il controllo totale del corpo sociale: e senza neanche bisogno di forzare le cose, di finanziare colpi di Stato o di gestire la spoliazione dei redditi altrui: saranno le persone stesse a chiedere, a esigere che ciò avvenga, trasformandosi in pecore ansiose di farsi tosare.

Il fatto che, per poter sopravvivere, moltissime persone abbiano ormai bisogno, come di una droga, della loro dose quotidiana di stupidità e di laidezza, deve farci riflettere su quanto il male sia penetrato in profondità e quanto sia velleitaria ed illusoria la pretesa di rovesciare le cose da un giorno all’altro, magari facendo appello al buon senso, all’intelligenza o al sentimento della giustizia.

Queste cose non fanno più presa, perché tutte le coordinate che portavano ad esse sono andate smarrite: bisognerebbe ricostruire l’uomo partendo da zero; ma non è possibile farlo, senza ricadere nel circolo vizioso della strumentalizzazione dell’uomo, della sua riduzione a oggetto, della pretesa di ergersi a suoi giudici, medici e salvatori, rinnovando e perpetuando la sua condizione di alienazione e di sottomissione, e sia pure con le miglioro intenzioni (ma sappiamo bene che l’inferno è addirittura lastricato di buone intenzioni).

È davanti ad una situazione di questo genere che ci si sente particolarmente impotenti: perché lottare contro di essa non sarebbe solo come vestire i panni di Davide contro Golia; la sproporzione non è solo quantitativa, è anche e soprattutto qualitativa: come si fa a lottare per un bene che non è riconosciuto come tale dai propri interlocutori, come persuaderli di essere delle vittime manipolate a piacere, quando essi ritengono di essere lucidi, attenti e perfettamente consapevoli di quello che fanno e di quello che chiedono? Ci si verrebbe a trovare nella posizione contro cui ammonisce la parabola evangelica: a voler dare le perle ai porci, si provoca soltanto la loro rabbia, fino a farsi travolgere e calpestare da essi. E ciò, in fondo, per una ragione semplice e giustissima: i porci non gradiscono le perle, ma pretendono le ghiande.

Certo, noi sappiamo che quei porci sono degli esseri umani che la crudele magia di Circe ha trasformato in altrettanti bruti: ma come fare per aiutarli, se essi per primi negano che le cose stiano così e sostengono che chi voglia liberarli è un pazzo o, peggio, che è animato da qualche secondo fine inconfessabile? Come fare a rimanere degli esseri umani, in un mondo che, come voleva Ionesco, è ormai popolato quasi soltanto da rinoceronti, fieri d’essere tali?

A rendere le cose più difficili, c’è l’incapacità di riconoscere quanto la tecnica tenda a prenderci la mano e quanto il suo uso richieda un sovrappiù di prudenza e senso del limite: un uomo con un altoparlante può rendere la vita impossibile a mille suoi concittadini; un altro uomo, dotato della strumentazione adatta, può fare il lavaggio del cervello a milioni di persone, e senza che esse se ne rendano conto.

I comportamenti irresponsabili sono divenuti abituali, la barbarie fa parte della realtà quotidiana. Ecco un uomo che va a far colazione al bar, ogni mattina: lascia l’automobile con il motore acceso, entra, ordina il cappuccino, aspetta che glielo servano, lo beve con tutta calma, facendosi quattro chiacchiere, poi paga e finalmente esce: e questo ogni mattina, senza mai un dubbio, un ripensamento; sparge metalli pesanti tutto intorno, piombo, cadmio ed altri, tutti altamente dannosi per la salute di moltissime persone, e solo per non darsi il disturbo di spegnere il motore o per risparmiare qualche misero centesimo di euro.

Questa barbarie quotidiana, moltiplicata per cento, per mille  e per diecimila, caratterizza i nostri stili di vita i nostri comportamenti quotidiani, basati sullo spreco, sull’inquinamento, sulla totale mancanza di proporzione tra il beneficio del singolo e il danno che ne riceve la comunità: sarebbe necessaria una rivoluzione copernicana del nostro modo di pensare e perfino di sentire, dovremmo sviluppare un senso di responsabilità che non possediamo più, perché il consumismo ci ha abituati alla filosofia del tutto e subito, sena badare ai costi e alle conseguenze.

Il materialismo, l’edonismo spicciolo, il cinismo nella vita delle persone, sono arrivati a toccare livelli quasi intollerabili: non è vero e giusto ciò che è vero e giusto in se stesso, ma quello che la maggioranza ritiene tale; e poco importa se si tratta di una maggioranza cialtrona, disinformata, superficiale e arrogante.

Una formosa escort, all’epoca dello scandalo delle “olgettine”, disse al microfono del giornalista che la intervistava: «La bellezza, come dice Sgarbi, è un valore: dunque perché non farsela pagare? Ma se invece sei brutta, stattene a casa»; e lo diceva con una sfrontatezza, con una sicumera al di là di ogni decenza: forte del consenso, implicito o esplicito, dell’intera società, e resa più audace dalle teorie (peraltro mal comprese e mal digerite) degli intellettuali che oggi vanno per la maggiore, forse in ragione - anch’essi - non della loro bravura, ma della loro sfrontatezza.

In questo generale smottamento dei valori, in questa irruzione della barbarie consumista e tecnologica nella vita d’ogni giorno, è riconoscibile la profonda crisi del presente: una crisi che non sappiamo come andrà a finire e dove ci condurrà; se darà luogo a una rinascita o se travolgerà ogni cosa per un lungo spazio di tempo.

Vi sono errori che si pagano a carissimo prezzo; vi sono errori perpetrati da più generazioni che portano alla Nemesi e che richiedono una lunga e dolorosa espiazione, prima che i loro effetti nefasti vengano riassorbiti: noi ci troviamo in una situazione di questo genere.

Chi ha avuto in sorte di vivere in questa fase storica, deve sviluppare le qualità del guerriero: la forza, il coraggio, l’audacia e lo sprezzo del pericolo; deve essere capace di lottare a lungo, per tutta la vita, senza aspettarsi tregue o concessioni, senza sognare facili soluzioni di compromesso, quando la stanchezza e la solitudine si faranno maggiormente sentire.

Sì, anche la solitudine: perché pochi sono quelli che aprono gli occhi e si rendono conto di come stanno le cose; la grande maggioranza degli uomini e delle donne seguiteranno a pascersi di erba come le mucche, ruminando soddisfatti, come se tutto andasse nel migliore dei modi; non ascolteranno i gridi d’allarme e anzi si scaglieranno contro chi li metterà in guardia.

E tuttavia sarà necessario sviluppare anche un’altra qualità, senza la quale la forza e il coraggio del guerriero sono inutili: la capacità di conservare la speranza. Senza la dimensione della speranza, anche la lotta più tenace e coraggiosa è condannata alla sconfitta: perché la vittoria non consiste nel trionfare dei nemici, ma nel trionfare della tentazione di abbandonarsi alla disperazione.

Solo colui che sa sperare, anche contro tutto e contro tutti, è un autentico guerriero: perché dopo il tempo della lotta viene il tempo della ricostruzione; e guai a quella società che non trovi in se stessa il tipo umano che, dopo aver lottato, sappia anche ricostruire.

Dipenderà da lui, comunque la lotta sarà finita, se una nuova alba sorgerà ad illuminare il mondo…