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Il senso intimo, per Maine de Biran, è la rivelazione di Dio alla coscienza

di Francesco Lamendola - 30/01/2012


 


 

Il lato più caratteristico e, nello stesso tempo, più originale del pensiero di François Pierre Maine de Biran (1766-1824) è quello relativo al “senso intimo”, che fa di lui, oltre che uno dei maggiori filosofi dello spiritualismo ottocentesco, anche una sorta di anti-Cartesio o, se si preferisce, un Cartesio della coscienza invece che del “cogito”; perché è nella coscienza che Dio si rivela all’uomo, appunto mediante quello che egli chiama il “senso intimo”.

Pur non aderendo ad alcuna religione confessionale, Maine de Biran si rende conto di quanto la dimensione spirituale sia importante per l’individuo e per la società e può giudicare, per avervi assistito, quanto danno abbiano provocato all’Europa i furori dell’illuminismo ateo e della scristianizzazione, avvenuta in Francia durante la Rivoluzione.

Il pensiero filosofico di Maine de Biran, che rivela qualche affinità con quello di Rosmini, si muove sulla scia di Cartesio (però rivisitandolo profondamente) e di Malebranche, e ruota intorno alla nozione di “senso intimo”, visto come la garanzia della presenza dell’io a se stesso e, nello stesso tempo, come salvaguardia del sentimento religioso; la sua polemica è diretta contro il sensismo, che aveva preteso di ridurre ogni conoscenza all’attività dei sensi esterni.

Il senso intimo, per lui, viene percepito dall’io come sforzo e come opposizione a ciò che lo limita e cerca di resistergli, ossia il corpo; perciò la sua antropologia è dualista, e così pure la sua metafisica: infatti, la tensione verso l’assoluto nasce appunto dalla dialettica tra il senso intimo, che si rivela come attività originaria dell’io, e il corpo, che si pone come limite a tale sua attività e che, limitandola, contribuisce alla rivelazione di essa a se medesima.

La passività, infatti, è una nozione secondaria: io non mi sentirei mai passivo, afferma Maine de Biran con acuta penetrazione psicologica, se prima non fossi stato attivo: dunque l’attività è un modo di essere primario, che presuppone il proprio limite e il proprio contrario e che si rivela alla coscienza con evidenza immediata e incontrovertibile. Di più: l’attività della coscienza si caratterizza come ciò che l’io può volere e può fare, dunque presuppone la libertà; se l’io non fosse libero, non sarebbe attività, ma solo passività.

Anche la nozione di causa ed effetto si fonda su questo concetto: dalla libertà dell’io scaturisce la sua attività, e questa produce una catena di cause ed effetti; ciò non significa, tuttavia, che l’io si scomponga e si dissolva nelle diverse determinazioni del suo volere e del suo agire, perché l’unità della coscienza permane attraverso i suoi stati mutevoli, e da ciò de Biran deduce la nozione di sostanza, sempre uguale a se stessa.

Se, dunque, il sensismo tendeva a smaterializzare l’io e a scomporlo negli innumerevoli stati della coscienza, sempre instabili e mutevoli per loro stessa natura, la filosofia del Nostro ricostituisce l’unità dell’io e afferma risolutamente il concetto della sua permanenza, ricollegandosi direttamente all’evidenza cartesiana.

L’estensione, per de Biran, è la percezione dei corpi che si pongono come limite al nostro agire; mentre la forza ci appare come la manifestazione dello sforzo che la nostra volontà compie per esplicitarsi in azione concreta, contro ciò che le si oppone.

Abbiamo detto che l’antropologia del Nostro è schiettamente dualista: di tale dualismo egli si fa esplicito assertore, e non esita ad affermare che vanno combattute risolutamente non solo le filosofie che negano tale dualismo, ma anche quei comportamenti, magari inconsapevoli, che tendono ad offuscarlo, in cima ai quali egli pone l’abitudine.

A causa dell’abitudine, e dei gesti e dei comportamenti abitudinari che compiamo, noi scivoliamo sovente dalla dimensione spirituale della coscienza e della riflessione, che rappresentano la nostra parte intellettuale e, perciò, specificamente umana, verso la dimensione animale - o, come avrebbero detto i filosofi antichi e specialmente Aristotele, verso l’anima vegetativa e l’anima sensitiva, a scapito dell’anima intellettiva.

È interessante notare che de Biran vede questo slittamento dal livello superiore della coscienza a quello inferiore del corpo, essenzialmente come una “meccanizzazione” dell’agire (quel che noi oggi definiremmo “vivere con il pilota automatico inserito”), perché ciò mostra come la sua contrapposizione di spirito e di corpo, nonostante il debito verso Cartesio e Malebranche, non vada tanto nel senso della contrapposizione di “res cogitans” e “res extensa”, quanto nel senso della contrapposizione tra libertà e ripetitività; e, quindi, non sia tanto un frutto del razionalismo, quanto del volontarismo, che lo porta ad una visione anti-meccanicistica dell’antropologia.

Prima e meglio di Marx, dunque, questo filosofo conservatore, che è stato sempre guardato con estremo sospetto dalla cultura progressista per la sua incrollabile fede nei valori della tradizione (soltanto l’impronunciabile De Maistre, forse, è stato più osteggiato e boicottato di lui dalla cultura contemporanea), aveva perfettamente compreso che il maggior pericolo da cui l’uomo deve guardarsi è quello di cadere nella uniformità di azione propria della macchina, più ancora che di abbandonarsi ai suoi istinti inferiori: è nella sua meccanizzazione che l’uomo si disumanizza e cessa di essere propriamente “persona”, per avvicinarsi allo statuto di “cosa”.

E, in questo senso, egli si può anche considerare come un limpido precursore del personalismo filosofico del Novecento.

Così Nicola Abbagnano riassume questo aspetto della filosofia di Maine de Biran (in: N. Abbagnano, «Storia della filosofia», Editori Associati, Milano, 1995, vol. 5, pp. 244-46):

 

«Per la prima volta nell’ultima sua opera i “Nuovi saggi d’antropologia” (1823-24), Biran si propone il problema dell’uomo totale, cioè dell’uomo che non è soltanto organismo e coscienza (e quindi sensibilità e ragionamento), ma anche rapporto con Dio.  Nelle due prime parti dell’opera (anch’essa, come l altre, lasciata incompiuta), Biran riassumere riprende i risultati da lui raggiunti negli scritti precedenti,sulla vita organica e sulla vita cosciente dell’uomo. Nella terza parte, che è la più importante, egli istituisce l’analisi della TERZA VITA dell’uomo, quella RELIGIOSA o mistica. Indubbiamente questa terza vita era rimasta sempre sullo sfondo dell’analisi di Biran; la quale, data la sua stessa impostazione, mira alla giustificazione  di essa come al suo scopo finale.”La seconda vita dell’uomo, dice Biran (“Anthr.”, in “Oeuvres”, ed Faville, III, p. 519), sembra essergli fatta soltanto per sollevarsi ala erra, nella quale egli libero dal giogo degli affettive delle passioni, e ilo genio o dèmone che dirige l’anima e la rischiara come d’un riflesso della divinità, si fa intendere nel silenzio  della natura sensibile; nella quale nulla accade nel senso o nella immaginazione che non sia voluto dall’IO e suggerito o ispirata dalla forza suprema nella quale  l’io si assorbe e si confonde. Tale forse lo stato primitivo da cui l’anima  umana è discesa e a cui aspira a risalire”.

La vita dello spirito comincia a balenare col primo sforzo volontario: l’io si manifesta interiormente, l’uomo si conosce, appercepisce ciò che gli è proprio e lo distingue da ciò che appartiene al corpo. Ma l’uomo esteriore prevale e finisce per regnare esclusivamente :l’abitudine d’agire oscura e quasi annulla il sentimento dell’attività. Ma l’uomo interiore prende la sua rivincita sull’uomo esteriore per via d’un rinnovamento ce non è mai spontaneo ma deriva da un’azione interamente libera assolutamente estranea alle disposizioni sensibili e ad ogni impulso sterno; rinnovamento che si ottiene soprattutto per via d0una meditazione sostenuta che impiega tutta l’energia dell’attività intellettuale e infine per via ella preghiera, con la quale l’anima umana si solleva sino alla sorgente della vita, le si unisce intimamente e le s’identifica con l’amore. La meditazione e la preghiera sono le due vie perle quali l’intima spiritualità dell’uomo si solleva ala assoluta libertà, alla vita religiosa. Mi sembra, de Biran (Ib., p. 541), che assumendo per punto di partenza il fatto psicologico, senza la cui meditazione lo spirito umano si perde nelle escursioni ontologiche verso l’assoluto, si possa dire che l’anima, forza assoluta che È senza MANIFESTARSI, ha due modi di manifestazione essenziali: la ragione (logos) e l’amore. L’attività per la quale l’anima si manifesta a se stessa come persona o io è la base della ragione; è la vita propria dell’anima giacché ogni vita è la manifestazione di una forza. L’amore, origine di tutte le facoltà affettive, è la vita comunicata all’anima come una condizione della sua propria vita, la vita che le viene dall’esterno e dall’alto, cioè dallo spirito d’amore, che soffia dove vuole”. In tal senso, Dio sta all’anima come l’anima sta al corpo. Il corpo, oltre ad  avere funzioni e movimenti propri,è diretto dall’anima che vuole, pensa o sa ciò la che a; allo sesso modo l’anima, pur aveva volta proprie, ha intuizioni, ispirazioni, movimento sopranaturali, per i quali è tutta sotto l’azione di io e cm assorbita in lui. La grazia di io per l’anima,ciò che la volontà dell’anima è per il corpo (“”Fond. De la morale et de la religion””, in “Oeuvres, ed. Naville, III, p. 53).

In tal modo, il senso intimo, la coscienza, appare a Biran come la stessa rivelazione di Dio. In polemica con de Bonald che aveva ridotto ogni rivelazione alla rivelazione esterna e aveva fatto dello stesso linguaggio l’immediata creazione di Dio, Biran afferma la superiorità della rivelazione interiore, che sola vale come criterio. La coscienza, dice Biran (“Opinions de M. de Bonald”, in “Oeuvres”, d. Faville, III; p. 93), può essere considerata come una specie di manifestazione interna, di rivelazione divina; e la rivelazione o la parola di Dio può esprimersi nella voce stessa della coscienza”. La rivelazione non è soltanto quella esterna della tradizione orale o scritta, ma c’è anche quella interna o della coscienza. L’una e l’altra vengono da Dio e l’una e l’altra hanno il loro fondamento fuori della ragione ed escludono dalla loro sfera lo scetticismo religioso e filosofico (Ib., p. 96).  Esse stanno tra loro come la lettera e lo spirito, ma il loro accordo è garantito dall’unica loro sorgente che è Dio (Ib., p. 217). “Senza una rivelazione immediata fatta a ciascun popolo o piuttosto senza il corso della grazia che agisce sui cuori altrimenti che con le parole, quale potrebbe essere il ‘criterium’ pubblico e sociale per distinguere la verità dall’errore, quando ogni nazione pretendesse di possedere da sola  con la lingua ispirata, il tesoro delle verità intellettuali e morali?” (Ib., p. 241).

Nel suo punto culminante, l’analisi di Maine de Biran svela la sua preoccupazione dominane: la giustificazione della tradizione. “Le istituzioni morali e religiose, egli dice, (“Fond. De la mor. Et de la rel.”, Ib., p. 63-64), potranno essere snaturate, pervertite o separate dalla loro sorgente per non essere più che istituzioni politiche e convenzioni umane relative alla civilizzazione della società, alla natura del governo, al sole, al clima, ecc.: variabili sotto questi rapporti nella forma come nel fondamento. Invece, nella tendenza opposta, le istituzioni politiche di tutti i luoghi, di tutti i tempi andranno sempre più avvicinandosi all’assoluto, ad una morale e ad una religione tutta divina; e il destino delle società come degli individui sarà perfettamente compiuto solo quando queste leggi dell’assoluto, diffondendosi su tutto il mondo politico, gli imprimeranno tutte le direzioni, ne regoleranno tutti i movimenti e determineranno la forma costante e ormai invariabile della sua orbita”. Queste parole rivelano il centro della personalità di Maine de Biran e la natura dei suoi interessi non soltanto filosofici, ma politici e religiosi. Maine de Biran ha inteso il senso intimo come strumento di giustificazione della tradizione. Ciò lo connette intimamente allo spiritualismo eclettico dei suoi contemporanei, dai quali si distingue solo per la perfezione che ha saputo dare a questo strumento. E lo stesso interesse fondamentale fa di lui il maestro e l‘esempio dello spiritualismo contemporaneo.»

 

Se Maine de Biran si fosse limitato a distinguere la vita fisiologica dell’uomo da quella della coscienza, basata sull’intelletto e la volontà, non si sarebbe peraltro distinto un gran che dal dualismo classico e quasi manicheo, né dal dualismo cartesiano di “res cogitans” e “res extensa”.

Il contributo più originale del Nostro alla filosofia è stato la risoluta affermazione di una terza vita dell’uomo, la vita spirituale, caratterizzata dall’amore, che è di tanto superiore alla vita intellettiva, quanto quest’ultima lo è rispetto alla vita corporea. Se, infatti, identificandosi con la dimensione più “bassa”, quella fisiologica, l’uomo rischia di perdere la sua connotazione essenziale e di retrocedere verso la realtà naturale, non distinguendosi più da essa, nemmeno con la totale identificazione con la coscienza e la ragione l’uomo realizza pienamente e genuinamente se stesso, perché lascerebbe fuori dal proprio piano la parte più sublime, quella spirituale, che lo rende simile a Dio.

Come i filosofi del Rinascimento, de Biran vede l’uomo come un microcosmo che realizza in se stesso una essenza divina, pur occupando una posizione intermedia fra Dio e l’animale; e tale essenza si realizza precisamente mediante la rivelazione del “senso interno”, che, nella meditazione e nella preghiera, apre, per così dire, una finestra sull’infinito.

Né de Biran si limita ad una tensione dell’umano verso il divino, ma afferma che anche dal divino parte una azione verso l’umano e attraverso l’umano; e tale azione è quella rappresentata dalla grazia. Con l’aiuto della grazia, l’uomo scopre la sua natura essenziale, che non è di questo mondo, ma è parte della stessa dimensione divina.

Come si vede, si tratta di una via prettamente mistica dell’uomo verso Dio: qui egli appare più vicino a Ildegarda di Bingen o a Meister Eckhart, piuttosto che a Cartesio o a Malebranche: e questo ne fa un pensatore originale, uno dei pochi che, in Occidente, hanno visto la via mistica non come la negazione o come una alternativa alla via razionale, ma come il naturale completamento e superamento di quest’ultima- cosa che le filosofie orientali hanno sempre saputo.

Egli, dunque, contro Kant e contro l’illuminismo, è anche un restauratore della metafisica; e, con Pascal, è persuaso che il cuore ha le sue ragioni, delle quali nulla sa la ragione e che, nondimeno, sono essenziali per la comprensione del significato della vita umana.

Inoltre, affermando che l’uomo alla ricerca di Dio, per opera della grazia, può riavvicinarsi alla condizione originaria dell’anima prima della caduta, sottolinea che l’uomo, nella sua tensione verso l’assoluto, non è solo e che può ritrovare, almeno in parte, la purezza e l’innocenza perdute, a condizione che non pretenda di farsi Dio di se stesso (come andavano facendo, negli stessi anni, l’idealismo tedesco e specialmente l’hegelismo), ma riconosca francamente la propria limitatezza e la propria non autosufficienza.

In questo senso complessivo, la filosofia di Maine de Biran, proprio come quella di De Maistre, è una reazione contro il pensiero moderno, che vorrebbe negare il divino o che vorrebbe ridurlo alle dimensioni di una creazione puramente umana; ed è anche la vigorosa riaffermazione di quei valori della trascendenza sui quali si basa, da sempre, la tradizione spirituale, e senza i quali né il singolo può autenticamente realizzarsi, né la società umana può trovare in se stessa l’equilibrio e la pace.