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La dittatura del debito

di Miro Renzaglia - 30/01/2012

Fonte: Gli Altri

C’era una volta, tanto tempo fa, una prigione a sud di Londra, chiamata Marshalsea. Era una prigione riservata, per lo più, a quella triste categoria che sono i debitori.  A quei tempi, infatti, si poteva ancora finire in galera per prestiti anche di poche sterline, non restituiti. Bastava un’istanza del creditore, sentenziata da un giudice solerte, per finire in gattabuia. E rimanervi fino a quando non solo eri in grado di restituire il prestito ma, anche, di pagare di tasca tua, e al contempo, le spese di detenzione. Già, perché la galera di cui si narra, era in gestione privata. E, si sa, per il privato che gestisce un’impresa economica (e la galera lo era) la legge prima è il profitto. E siccome in galera non potevi lavorare, era destino dei più consumare al fresco il resto della propria vita con un debito iniziale che andava ingrossandosi di giorno in giorno.

Con grande magnanimità, tuttavia, la prigione di Marshalsea offriva un regime particolare: i reclusi potevano ospitarvi le proprie famiglie e, per chi poteva permetterselo, anche servizi di ristorazione, un emporio per acquisti e altri benefit fuori standard. Addirittura, i più facoltosi potevano lasciare il carcere di giorno per dedicarsi alle proprie attività, e rientrarvi a sera per scontarvi la pena (una specie di semilibertà ante litteram). Gli altri e, come appare evidente, soprattutto i debitori, erano lasciati letteralmente marcire in celle sopraffollate, in condizioni disumane, ai limiti della sopravvivenza e, spessissimo, sotto questi limiti. Tanto che alcune fonti parlano di centinaia di detenuti morti letteralmente di fame. Ciò, fino all’anno 1842, quando il carcere fu chiuso e il reato di debito penalizzato altrimenti dalla detenzione.

Al di là di qualche studio specifico in materia di storia penitenziaria, è stato proprio Charles Dickens a offrire una testimonianza e a dare un resoconto di quel baratro mostruoso che fu Marshalsea, soprattutto con il romanzo The litlle Dorrit, pubblicato nel 1848. Dickens sapeva bene di cosa scriveva: suo padre John, infatti, vi era stato rinchiuso per un debito di 40 sterline e 10 scellini, tra il febbraio e il maggio del 1828.

Il romanzo narra la vicenda di Amy Dorrit, nata a Marshalsea durante la detenzione del genitore, ovviamente per debiti, il quale, come concedeva la legge, aveva potuto “ospitare” la moglie nella sua cella. La piccola Dorrit, quindi, nasce e cresce in una condizione di detenuta e impara a conoscere quello stato come naturale, tanto da essere considerata dalla popolazione ivi ristretta “la figlia di Marshalsea”. Quando, ormai giovinetta, comincerà ad uscirne per andare a servizio della facoltosa signora  Clennan, gli occhi di Amy si apriranno, a poco a poco, sul mondo libero. Ricavandone, però, una sconsolante somiglianza con quello della prigione.

Così, narra Dickens: «Alla piccola Dorritt pareva che la società assomigliasse a Marshalsea, sebbene in una sfera superiore. Quella gente viaggiava all’estero come andava in prigione: per debiti, per ozio, per compagnia, per curiosità e in generale perché non sapeva cosa fare in casa propria. Arrivavano, nelle città straniere affidati alla custodia dei corrieri, come i debitori arrivavano alla prigione con le guardie, viaggiavano nelle chiese e nelle gallerie come i prigionieri vagavano nel cortile con monotonia e stanchezza. Quando partivano erano invidiati da quelli che restavano, i quali fingevano di non avere alcuna voglia di andarsene e questa era invariabilmente l’abitudine di Marshalsea».

Può essere che la piccola Amy non riuscisse a vedere nel “mondo fuori” altro che l’immagine riflessa del “mondo dentro”. Ovvero: che espandesse i limiti del perimetro della “galera per debitori” all’intera società, per una sorta di riflesso condizionato. In fondo, viveva in piena età della Rivoluzione industriale con tutte le sue promesse (ma anche con le sue dannazioni) di modernità e avvenire. E, pressoché contestuale, sarebbe arrivata persino l’altra grande Rivoluzione, quella francese, a sancire definitivamente la fine delle plumbee epoche assolutiste. Tuttavia, non si sbagliava e il suo sguardo, oggi, può addirittura sembrare preveggente: il limite della prigione per debitori si è effettivamente espansa all’universo mondo.

Siamo tutti debitori e non solo di Equitalia. Anzi, la nostra identità di cittadini nel mondo è soprattutto quella del debitore. Il debito, pubblico e privato, detta le nostre scelte e, perfino, ci costringe ad accettare le scelte che non abbiamo fatto (ogni riferimento al governo Monti e alla sua politica è assolutamente voluto). Marshalsea, a vedere bene, era solo lo strumento rozzo di una pratica che nei secoli davanti, si sarebbe affinata ai livelli suprematisti di un destino ineluttabile. Ed ineludibile. Ineludibile, almeno fino a quando qualcuno, in nome del popolo sovrano, per quanto incravattato, non si prenderà la responsabilità di reclamare la moratoria del debito pubblico e privato.

Bisognerà avvertire costui, qualora si avventurasse in cotanta sfida, che il suo destino è segnato:  Solone, Giulio Cesare, Catilina, eccetera… eccetera… non hanno fatto una bella fine. I custodi del debito sono spietati.