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La guerra dei 30 anni del sergente Yokoi

di Fabio Genovesi - 30/01/2012

http://pics.livejournal.com/mcnab75/pic/002pxq37

Guam, isola del Pacifico a strapiombo sulla
fossa delle Marianne. È una sera di
gennaio e due amici scendono a controllare
le reti per la pesca dei gamberi nel
fiume Talofofo. Ma sulla riva sorprendono
uno sconosciuto, un tipo strano che
li vede e scappa via. Lo inseguono nella
giungla e riescono a bloccarlo, vogliono sapere chi è e
cosa ci faceva vicino alle loro reti, ma lo sconosciuto
parlerà solo all’arrivo della polizia: è il sergente Shoichi
Yokoi, e combatte per l’esercito imperiale del Grande
Giappone. Lo credevano un ladro di gamberi e invece è
un soldato della Seconda guerra mondiale impegnato a
lottare contro gli Alleati. Nel 1972.
Per la sua posizione strategica, Guam è stata lungamente
contesa tra americani e giapponesi. Questi ultimi
l’hanno conquistata dopo l’attacco di Pearl Harbor,
ma nel 1944 gli americani se la riprendono con tre settimane
di battaglia sanguinosa. Ai giapponesi mancano
viveri e munizioni e la sconfitta appare presto inevitabile,
ma si rifiutano di arrendersi e vanno incontro a un
massacro che si conclude il 10 agosto, quando il generale
Hideyoshi Obata fa harakiri emuore insieme a 19 mila
dei suoi uomini. I pochi sopravvissuti si sparpagliano
nel folto della giungla, ma presto o tardi si consegnano
al nemico. Non tutti però. Di certo non il sergente Yokoi.
Che si costruisce un riparo sotterraneo in una foresta
di bambù, utilizzando come pala i resti di un cannone.
Copre l’entrata con stecchi e foglie, e in attesa di
ricevere nuove istruzioni resta là sotto rannicchiato col
fucile in braccio. Per ventotto anni.
Perché secondo Yokoi non è finita così, non può essere
finita così. Forse una battaglia è persa, ma il Giappone
è invincibile e presto passerà al contrattacco, e lui
deve farsi trovare pronto al suo posto.
Yokoi non è un pazzo, si comporta come molti suoi
commilitoni in tutta l’Asia, che dopo la guerra restano
nascosti per anni in zone impervie, continuando a compiere
azioni di guerriglia ai danni di popolazioni ormai
pacifiche. Vengono chiamati «soldati fantasma», e stanarli
è più difficile che bonificare un territorio minato.
Nel tentativo di convincerli che la guerra è finita, si arriva
a scaricare sulle foreste migliaia di volantini con lettere
e foto di familiari che li invitano a tornare a casa,
ma i soldati li ritengono un perfido tranello del nemico,
li stracciano e continuano a stringere l’arma.
Ci vogliono parecchi anni, ma alla fine quasi tutti vengono
catturati o muoiono di stenti, come accade a due
compagni di Yokoi che inizialmente si erano rifugiati
insieme a lui. Il sergente trova i loro corpi nella giungla,
li seppellisce e li piange, ma sa che non farà la loro
fine. Ogni notte esce dal rifugio e raccoglie noci e bacche,
cattura granchi, anguille, piccioni e cinghiali, e
quando proprio non trova di meglio si sfama con la corteccia
degli alberi. E visto che prima di arruolarsi faceva
il sarto, riesce a fabbricarsi tre uniformi militari complete
utilizzando le fibre dell’ibiscus. Perché tutto deve
essere in ordine, tutto deve essere pronto quando arriverà
il momento di tornare in battaglia.
Gliel’hanno insegnato da bambino: ogni
mattina si deve pregare rivolti vero Tokyo,
perché l’Imperatore è un Dio e il Giappone
è una nazione superiore destinata al trionfo.
Per questo Yokoi lucida il fucile e tiene
duro, anche se gli anni passano e crederci
diventa sempre più difficile. Ma oltre alla fede,
nel suo cuore brucia la vergogna: quando
si è arruolato gli hanno spiegato che si
deve preferire la morte all’essere catturati,
e che la resa è il disonore più totale. E Yokoi,
sopravvissuto alla battaglia, sente di
non aver servito il suo Paese fino in fondo.
Ma rimedierà tenendo duro, fino alla vittoria
oppure morendo come i suoi compagni.
E sarebbe andata davvero così, se quel 24
gennaio del 1972 non l’avessero sorpreso
sulle rive del Talofofo. La polizia lo arresta, lo interroga
e poi lo rispedisce inGiappone. Yokoi è arrivato sull’isola
di Guam a ventotto anni, torna a casa che ne ha cinquantasette.
Ad attenderlo c’è un Paese che lo accoglie da eroe. Si
organizzano manifestazioni e i media gli si incollano
addosso. Ma il sergente Yokoi si rivela un eroe molto
scomodo da celebrare. «È con grande vergogna che torno
vivo», sono le prime parole che pronuncia, in linea
col suo modo di pensare, ma incomprensibili per il
nuovo Giappone che si trova davanti. È un Paese ricco e
all’avanguardia, figlio del miracolo economico postbellico
e votato a una politica aggressiva di produzione e
consumo. I nuovi giapponesi si aspettano da Yokoi
quello che noi troviamo nei vip che tornano smagriti e
malconci dall’Isola dei Famosi, pronti a offrirci la scena
rassicurante del loro pianto di gioia davanti a un idromassaggio
o una manicure.
Yokoi però non è così. È un uomo severo e in perfetta
forma. Appena catturato, a Guam gli hanno fatto delle
radiografie, e intimorito da quei macchinari fantascientifici
ha detto «se volete uccidermi fatelo in fretta
», ma la sua salute è risultata ottima. Sta molto meglio
dei suoi connazionali, che vivono a testa bassa rinchiusi
nelle fabbriche e negli uffici, sacrificandosi a
una frenesia di arricchimento che ha reso il paese caotico
e inquinato, rinnegando una tradizione millenaria.
Yokoi insomma è una capsula del tempo, un fossile
vivente tornato per schiaffare in faccia al Giappone moderno
tutte le sue colpe. Annusa disgustato l’aria piena
di veleni, trema per gli scempi della cementificazione,
resta incredulo davanti ai campi da golf e propone di
convertirli in campi di fagioli. Persino l’esistenza della
spazzatura è per lui un’assurdità.
Le vecchie generazioni lo amano, ma per i giovani
del nuovo Giappone è uno scomodo impiccio, e un
grande imbarazzo per Hirohito: assecondando la volontà
degli americani, nel 1946 l’imperatore ha annunciato
via radio alla nazione di non avere natura divina, è insomma
un uomo come tutti gli altri, e solo Yokoi insiste
a volerlo incontrare per consegnargli il suo fucile e
adorarlo. Hirohito però non va nemmeno ad accoglierlo
al suo ritorno, preferendo assistere alle Olimpiadi invernali
di Sapporo.
Insomma, niente è rimasto di quel Giappone per cui
Yokoi è rimasto trent’anni in una buca in Micronesia,
nemmeno le divinità. Ha offerto la sua vita per impedire
una rovina che intanto è avvenuta in forme più insidiose
e devastanti. Ma come ha già ampiamente dimostrato,
Yokoi è uno che non si arrende. Comincia a girare il Paese
e a tuonare dai palchi televisivi, per promuovere uno
stile di vita naturale e un ritorno ai valori nazionali di eleganza,
armonia e semplicità. Arriva anche a candidarsi al
Parlamento, ma non viene eletto. Si guadagna da vivere
tenendo corsi di sopravvivenza, materia in cui è un esperto
indiscusso, e quando sente che le forze lo abbandonano
si ritira a vita privata nel suo paese di origine. Qua, a
ottantadue anni, Yokoi lascia un mondo che ormai da
tempo non era più il suo. E torna sottoterra, stavolta al
cimitero di Nagoya, all’ombra di una lapide che che sua madre
ha fatto scolpire per lui quaranta anni prima.