La concezione della natura in bilico tra religione e tecnica
di Paolo Muscetta - 10/07/2006
Prima di entrare nel vivo dell’argomento, è necessario spendere due righe di questo articolo per chiarire il motivo che mi ha a spinto a parlare della natura analizzando il peso che la concezione religiosa e tecnico-scientifica hanno avuto ed hanno nel nostro rapporto con essa.
L’analisi delle componenti culturali (religiose, tecniche) che hanno condizionato e condizionano il nostro approccio alla complessità della natura, può rappresentare un momento di partenza di un dibattito interno volto ad approfondire il senso del nostro agire ecologista. Nella pletora dei movimenti politici ed ideologici non raramente si sbandierano slogan ambientalisti per veicolare le posizioni più varie, non raramente tutt’altro a favore dell’ambiente, il nucleare, gli ogm (come è vero quel detto, le strade dell’Inferno sono lastricate di buone intenzione), allora prima che nasca una qualche organizzazione che difenda l’ambientalismo da sé stesso, è necessaria una riflessione sul senso dell’agire (ovvero del “fare”) a favore della natura (“verde”).
La ricerca di senso passa a mio avviso attraverso due domande fondamentali: “perché dobbiamo rispettare la natura?” e “che cosa significa rispettare la natura?”, prima di preoccuparci del “come” rispettare l’ambiente.
Le due domande sono in qualche modo legate tra loro, entrambe sono centrate sull’essenza della natura e sul nostro modo di concepire questa essenza. Il rispetto per la natura come per qualunque essere, passa per il riconoscimento della sua intrinseca essenza, rispettare equivale a trattare in conformità ad essa (natura), riconoscere la sua essenza, ad esempio rispettare l’uomo equivale ad usargli un trattamento conforme alla sua umanità, il modo di intendere questa umanità condiziona il rispetto. In una cultura totalitaria in cui l’idea di Stato predomina sui singoli uomini non è scandaloso eliminare fisicamente e socialmente i dissidenti, ovvero coloro i quali non sono organici all’idea di Stato che il regime perpetra, in quanto l’uomo è visto come un ingranaggio di una macchina, se l’ingranaggio non funziona viene sostituito senza troppi problemi e sensi di colpa.
Per fare un passo avanti nella comprensione del nostro modo di intendere l’essenza della “natura” ovvero la sua natura (scusate il giro di parole ma non ne ho altre) in senso ontologico (ovvero al suo essere in quanto tale) ed assiologico (ovvero al suo bene) basterebbe segnalare l’uso indistinto nei movimenti “ecologisti” dei termini “natura”, “ambiente” “ecologia” ed “ecologismo”, (dietro parole diverse ci sono significati e modi di rappresentare la natura diversi). Analizziamo per semplicità soltanto la differenza strutturale dei primi due “natura” e “ambiente”. Il concetto di “natura” porta nel suo etimo un senso di complessità che lo eleva a qualcosa di più della somma delle parti di cui descrive il nesso. Il greco phùo (come anche il latino nasci – da cui deriva il termine natus e quindi l’italiano natura) indica precisamente questo movimento di “dare origine” a qualcosa di nuovo e non già-esistente, una “neo-creazione” che si inquadra in un ciclo bio-morfico, che ripete ogni volta questa creazione, in sintesi, riprendendo la definizione della natura riproposta da Aristotele nella Metafisica, essa è “come sostanza delle cose che possiedono il principio del movimento in sé e per propria essenza” (Metafisica V5, 1015) che cioè non divengono in base ad un principio ad esse esteriore come le cose prodotte dalla tèchne (tecnica) (ad esempio la sedia dell’artigiano) ma da un principio interiore (l’uomo dall’uomo).
La radice greca e latina del termine come “Phùsis” e “Nasci” indica la natura non come la somma delle cose naturali (insieme di piante, animali) ma come il principio produttivo, che ne determina il movimento e la generazione. Se prendiamo ora il termine/concetto di ambiente ci accorgiamo immediatamente dell’enorme distanza che lo separa da quello di natura. Anche qui l’etimologia ci dice cose importanti: ambiente è ‘ciò che sta attorno’, dal latino ambiens, da ambire, andare attorno; e contiene perciò sempre un riferimento all’uomo, assunto come punto di partenza - osservatore - e centro da cui parte la “luce-sguardo” che, perlustrando in giro l’orizzonte, illumina e perciò traccia dei limiti di visuale delimitando prospetticamente un ambito, ritaglia e pertanto selezione e sceglie dal mondo - dalla totalità delle cose di cui ha esperienza - un certo numero di fenomeni che, dal suo punto di vista, sono di interesse.
E’ interessante osservare che il termine “ambiente” non solo in italiano ha una significato così precipuamente antropocentrico ma anche nel tedesco Um-welt che è appunto il mondo che mi circonda, che mi sta “tutt’intorno”, la parte di mondo che mi coinvolge e che perciò ‘ha un significato’ (o addirittura ‘esiste’) per me, Um-welt è l’insieme degli elementi che fanno parte del mondo che sta attorno all’uomo alla sua comunità e che allo stesso tempo svolgono per l’uomo e per la comunità una funzione importante per la sua esistenza.
Pertanto, la confusione dei termini natura e ambiente nel dibattito ecologistico è indicativa di un atteggiamento culturale che vede la natura come qualcosa di esterno e precedente rispetto alla società, come qualcosa che la società ha ‘sottomesso’ e che si sta oggi vendicando con la ‘crisi ecologica’ (o ‘ambientale’) ma, come fa notare il Frosini (Università di Urbino), questo è possibile solo in quanto “il concetto di natura ha subito uno spostamento semantico che, da principio intimo dell’essere delle cose, l’ha trasformato in un quasi-equivalente dell’ambiente, cioè in un’area spaziale delimitata sulla base dell’opposizione rispetto alla civiltà”.
Pertanto la natura se da un lato conserva il suo valore intrinseco di principio di generazione, del ciclo biologico, dall’altro viene relegata in un ambito esterno alla civiltà (in cui il principio tecnologico ha sostituito nell’immaginario i processi naturali) andandosi ad identificare esclusivamente con le cose naturali alberi, piante ed animali. La natura ridotta ad ambiente naturalizzato in cui persiste abbozzato il principio generatore e perpetuatore del ciclo vitale, intrattiene con la civiltà e con la tecnica un rapporto meramente funzionale che si vorrebbe anche presto sostituire. La natura ci serve per l’acqua, per l’aria, per le risorse energetiche che ci mette a disposizione, consentendoci di mantenere in vita il nostro modello di civiltà, ma al centro viene posto l’uomo / osservatore universale di questo intorno in cui si è rintanata la natura.
Per fortuna, come abbiamo accennato non abbiamo sempre guardato in questo modo la natura, noi (occidentali) siamo figli di due grandi concezioni culturali greca e giudaico cristiana, di seguito mi propongo di analizzare le peculiarità di queste due concezioni religioso-filosofiche riguardo alla natura ed il loro rapporto con il pensiero tecnologico- razionale.
Ordine immutabile della natura.
I greci concepivano la natura come cosmo, “kosmos”, ossia come un ordine immutabile che, come descritto da Eraclito (filosofo greco vissuto tra VI e il V secolo a.C.) nei frammenti della sua opera pervenutici, “è il medesimo per tutti, non lo fece nessuno né degli dei né degli uomini, ma sempre era, è, sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo misura” (Eraclito, Die Fragmente der Vorsokratiker in Diels Kranz 1969, frammento B23); inoltre esso è “l’esempio più perfetto di ordine e nello stesso tempo causa di ogni ordine riscontrabile nel particolare, che soltanto in diversi gradi si avvicinano a quello del tutto, il cosmo non è tanto un sistema fisico, quanto quell’ordine necessario a cui l’uomo come parte deve assimilarsi. Nel riconoscimento e nell’accettazione del proprio essere parte, l’uomo trova la sua collocazione e il senso della sua esistenza che è nell’adeguarsi in quanto parte all’ordine del tutto. Si tratta di un totalità che non nasce dalla somma quantitativa delle parti ma dalla nota qualitativa che fa di quelle parti composte un ordine, un cosmo. Da questo ordine, che poi è la ragione dell’universo, il suo logos, nasce quella pietà cosmica che non è tanto un sentimento religioso, quanto l’espressione antropologica di quella relazione universale che è la composizione delle parti con il Tutto.” (Galimberti, “Psiche e techne” 2004, pag. 54).
Questo ordine immutabile perfetto, non creato (perché la creazione equivarrebbe ad ammettere l’imperfezione, perché ciò che non è stato potrebbe ritornare a non essere), deve essere preso a modello nelle cose umane e nella politica. La polis (ovvero la città per i greci) è perciò davvero cosmo-polita in quanto è come il cosmo organizzata in modo tale che le singole parti possano armonizzarsi e trovare la loro ragion d’essere (logo) nel Tutto.
L’ordine del cosmo è garantito da Dike, dea della giustizia, che presidia attraverso le sue ministre le Erinni che il corso regolare della natura non venga violato, infatti “il sole non oltrepasserà le sue misure, altrimenti le Erinni al servizio di Dike lo ricondurrebbero nella sua orbita” (Eraclito, frammento B94).
Nel mondo greco “la tecnica è infinitamente più debole della necessità (che regola la natura)”, come dice Prometeo (il dio che dona il fuoco simbolo della tecnica all’uomo) nel poema Prometeo Incatenato di Eschilo. La natura non è mai minacciata dall’uomo e dalla tecnica, la nave solca il mare, ma esso si richiude dietro all’imbarcazione che ha osato sfidarla. La tecnica viene vista come il dono conferito dal dio Prometeo volto a garantire alla specie umana la sopravvivenza, infatti a differenza di tutte le altre specie animali che sono dotate dalla natura di artigli, peli e muscoli possenti, la specie umana è insufficiente biologicamente, e senza la tecnica rischierebbe la morte.
Attraverso la tecnica, l’uomo può esercitare il suo dominio sugli animali ma non sulla natura che resta indomita, egli tutta al più può ritagliarsi nella natura un proprio spazio la città (polis) cinta da mura nella quali vigono leggi (in greco nomoi) che sono riflesso della grande legge (in greco Nomos) che regola la natura. In questo spazio la politica (la tecnica regia) regola tutte le tecniche e le arti per il bene della città.
Pertanto l’impossibilità di dominare la natura iscrive sia il fare tecnico, sia l’agire politico nell’ordine immutabile della natura che l’uomo non può dominare ma può svelare. La contemplazione (theoria in greco) consente di cogliere la verità (che in greco è a-letheia, uno svelamento, uno spostare il velo e guardare dietro) ovvero di riconoscere le leggi immutabili che regolano sia i movimenti della natura sia l’azione umana. In questo contesto l’etica e la tecnica scrutano la natura per cogliere le ragioni del “retto agire” e del “retto fare”.
Oggi, la situazione è completata rovesciata, non sono più le leggi della natura a dettare le leggi della politica (polis) ma viceversa la politica deve farsi carico della natura sempre più relegata ai confini delle nostre città.
La natura creata “frutto” della volontà di Dio – il dominio dell’uomo sulla natura.
La visione giudaico cristiana rispetto a quella greca introduce una visione della natura come creatura di Dio, della sua volontà, Dio crea la natura e la consegna all’uomo sua immagine affinché domini su di essa.
“E Dio disse, facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra” (Genesi 1, 26).
L’atto divino è e non può non essere che creazione, Dio “crea”, mediante volontà onnipotente, l’uomo e la natura sono entrambe sue creature, tuttavia l’uomo somiglia a Dio, perciò vanta una differenza ontologica (ovvero dell’essere in quanto tale) rispetto al creato. Questa differenza legittima il suo dominio sulla natura.
Nella visione giudaico- cristiana la natura perde quelle caratteristiche di inviolabilità e necessità divenendo luogo del dominio di una volontà di Dio creatore e dell’uomo come sua creatura più prossima. La scienza moderna eredita dalla religione questa visione della natura, che si sostanzia di una conoscenza che non è più contemplazione delle leggi immutabili del cosmo, (come in quella greca) ma che diviene strumento del dominio e della progettualità umana, la frase baconiana scientia est potentia, conoscere per dominare, ben sintetizza il programma della scienza moderna.
La natura, luogo della manifestazione e di svelamento dell’essere per i greci, diventa fisica, il luogo della misura e dell’esperimento. La scienza moderna trae dalla visione giudaico-cristiana il presupposto ideologico antropocentrico per il dominio della natura, solo successivamente i successi scientifici – tecnologici rinforzeranno questa visione meccanicistica del cosmo. Questa continuità ideologica tra religione e scienza moderna richiederebbe un maggior approfondimento, mi riprometto di ritrattarlo ancora in altri articoli, un ultimo spunto di riflessione in merito a questa continuità tra religione – scienza e tecnica può essere ripreso da un passo dell’opera dei due filosofi francofortesi Max Horkheimer e Theodor Adorno nella “Dialektik der Aufklarung” (in italiano Dialettica dell’Illuminismo)
“Ciò che gli uomini vogliono apprendere dalla natura, è come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini. Non c’è altro che tenga, come signori della natura, dio creatore e spirito ordinatore si assomigliano. La somiglianza dell’uomo con Dio consiste nella sovranità sull’esistente, nello sguardo padronale, nel comando. Gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano. L’illuminismo si riporta alle cose come il dittatore agli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli.”
Ovviamente, dire che il pensiero giudaico-cristiano abbia aperto la strada ad una concezione strumentale della natura, non implica che questo sia il messaggio autentico del vecchio testamento o del vangelo. Infatti, è innegabile quanto afferma don Marco Belleri, Parroco di Seggiano (GR), nel suo articolo del Febbraio 2004 su questo giornale quando dice “che nella visione biblica vi è una continuità tra l'atto creativo iniziale e la cura continua di Dio per tutte le sue creature (ad es. sal 104,13; 145,15; 147,8). Spesso nel passato si è creata una divisione tra i due aspetti, accentuando la fede in Dio creatore onnipotente a scapito del Dio che si prende cura delle sue creature. E questo ha portato a vedere l'uomo, immagine del Dio onnipotente, come dominatore della natura, più che curatore provvidente”. Quindi, in nuce nel pensiero cristiano-giudaico si può cogliere un principio di responsabilità nei confronti della natura, che troverà asilo e nuovo respiro nel pensiero del filosofo tedesco Jonas. Egli nella sua opera “Il principio responsabilità, un’etica per la civiltà tecnologica” (trad. it. Einaudi, Torino 1990, p. 24) propone un’etica che non si ferma all’uomo ma riconsidera il rapporto uomo-natura, alla luce del rischio derivante dallo sviluppo tecnologico e dalla sua pervasività nella vita dell’uomo.
La nuova etica jonasiana è la seguente “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla terra", oppure, tradotto in negativo: "Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita", oppure, semplicemente: "Non mettere in pericolo le condizioni della sopravvivenza indefinita dell'umanità sulla terra", o ancora, tradotto nuovamente in positivo: "Includi nella tua scelta attuale l'integrità futura dell'uomo come oggetto della tua volontà" (p. 16).
Il nuovo imperativo ordina, in sostanza, di riconsiderare il senso del nostro agire non solo riferendoci all’uomo ma alla natura che ci sta intorno minacciata costantemente dal nostro progresso tecnologico, perché il frutto delle nostre azioni hanno un effetto sul futuro del pianeta e della specie.
Nel nostro agire, per Jonas dobbiamo tener conto dell’umanità che i nostri occhi non vedranno, le generazioni presenti devono prendersi cura della natura da lasciare alle generazioni future.
Egli assegna a ciascuno di noi parte della collettività l’onere politico di controllare la tecnica, tuttavia la nostra incapacità di ponderare gli effetti futuri delle nostre scelte tecnologiche pone un limite che sembrerebbe invalicabile. Infatti, se è vero che la collettività dovrebbe esercitare la sua potenza nei confronti della tecnica, è anche vero che come sostiene il filosofo Anders (anche egli tedesco e contemporaneo di Jonas) che questa stessa collettività è formata da uomini “antiquati” rispetto al mondo delle macchine, che invidiano alle macchine l’efficienza, e che hanno come propria morale la massima “il fattibile è obbligatorio”. Allora, per Anders è necessario svegliare la collettività degli indifferenti, criticare gli irresponsabili minimizzatori del pericolo, creare una coscienza morale adeguata all’era della tecnica, pena la distruzione del genere umano. E’ necessario comprendere che non tutto ciò che è fattibile è obbligatorio ma al contrario ciò che è moralmente obbligatorio deve essere fattibile, dobbiamo imparare a disobbedire agli apparati e alla burocrazia tecnocratica, Anders propone “lo sciopero dei prodotti” (quello delle maestranze che si rifiutano di continuare a produrre mezzi di distruzione).
Il pensiero di Anders per il fascino e l’attualità richiederebbe più spazio, ma le poche righe che ho riportato siano feconde per noi di “Fare verde”, di belle idee, azioni e dibattiti interni che vedano la natura e l’uomo sempre come un fine senza cortocircuiti dettati da facili opportunismi di parte.