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Francisco Xavier parte per le isole del Moro nell’epico racconto di Daniello Bartoli

di Francesco Lamendola - 17/02/2012


 

 

C’è stato un tempo in cui la civiltà europea, fra cose indubbiamente meno belle  e meno condivisibili, ha saputo produrre anche una stirpe d’uomini eccezionali, di autentici giganti: uomini dallo spirito magnanimo, disposti ad affrontare qualunque sacrificio e qualunque pericolo per diffondere la Buona Novella cristiana, senza nulla cercare o chiedere per se stessi, senza altra ambizione che quella di fare del bene.

Commisero degli errori, senza dubbio; molti di tali errori, però, non erano loro, ma del tempo e della cultura cui appartenevano; rarissimamente erano in mala fede, e la loro coerenza e la loro dirittura erano tali da spingerli ad affrontare il martirio senza dubbi o ripensamenti, sena parole di odio per i loro assassini, senza mai dubitare della propria buona causa e della grazia divina che sa condurre verso il bene anche ciò che agli uomini appare come male.

Mentre tanti altri uomini di animo geniale cercavano la gloria per se stessi e si facevano ricompensare lautamente per i loro studi e per le loro creazioni - artisti, letterati, studiosi; mentre altri uomini di animo virile, ma avidi e spietati, si recavano in terre lontane guidati solo dall’istinto della preda e della ricchezza, con qualunque mezzo, lecito e illecito, i missionari cristiani nulla desideravano per se stessi e, disarmati, affrontavano impavidi rischi e fatiche tali da scoraggiare il più ardito “conquistador”, l’avventuriero più avvezzo a ogni sorta di pericolo.

Non temevano la fame, la sete, le malattie, le bestie feroci, le burrasche, le bonacce; né temevano il contatto con l’umanità più primitiva e feroce, di cannibali e tagliatori di teste: perché, con buona pace di Rousseau, il buon selvaggio non è mai esistito che nelle fantasticherie dei “philosophes” e nei pamphlet di alcuni stucchevoli scrittori imbevuti di utopie tanto fumose. quanto puerili.

Questi uomini dalla tempra eccezionale e dal cuor di leone, ma incapaci di reagire al male col male, anzi, ben decisi a rendere bene per male, a dare l’esempio della mitezza e della fratellanza; questi uomini forti, dunque, di una forza morale ferma e dolce, radicata in una profonda fiducia in Dio, hanno scritto una pagina di storia notevolissima, che oggi viene poco ricordata e quasi solo in una luce negativa, in omaggio a una cultura laicista e teofoba che vorrebbe fare piazza pulita di quanto di meglio ha prodotto la civiltà europea (ivi compreso il significato profondo dell’arte, della poesia e della musica, che, da Giotto e Dante fino a Bach ed oltre, è squisitamente religioso) ed ha imposto un conformismo più che mai totalitario, fondato sul menzognero ricatto in base al quale l’Occidente dovrebbe vergognarsi delle cose migliori che ha prodotto nel corso della sua storia.

Lo ripetiamo: quei missionari commisero indubbiamente degli errori; tuttavia, cerchiamo di essere giusti: allora non esisteva l’antropologia comparata, non esisteva l’idea che i popoli più forti fossero moralmente tenuti a rispettare i più deboli; molti Europei dubitavano perfino che Negri e Amerindi avessero un’anima: ciò che fecero i missionari fu di rendere meno traumatico l’impatto della civiltà europea sui popoli extra-europei, di fare da ammortizzatori, di alleviare le sofferenze dei nativi e di avviarli a convivere con la cultura dei loro nuovi dominatori, senza di che non sarebbero stati minimamente in grado di difendersi; se contribuirono al genocidio culturale di quei popoli, ciò avvenne perché tali erano le ide del tempo e, comunque, furono gli unici a non agire con cieca violenza o per brama di ricchezza e di dominio, ma solo per ragioni disinteressate.

I padri gesuiti, in particolare, fra il XVI e il XVIII secolo mostrarono una vitalità, un entusiasmo, un dinamismo, uno sprezzo delle fatiche e dei pericoli, quali potevano provenire solo da una autentica vocazione; e furono così abili e così rispettati, anche come uomini di cultura, che, per un momento, sembrarono sul punto di poter convertire al cattolicesimo due antiche e gloriose culture come quella cinese e quella indiana. Se ciò non avvenne, fu a causa delle contraddizioni interne della strategia missionaria della Chiesa e dei contrasti fra i diversi ordini religiosi, più che per un rifiuto da parte di quei popoli.

Una leggenda nera avvolge l’opera missionaria della Chiesa nei secoli passati; si cita continuamente l’Inquisizione e si denunciano il fanatismo e le subdole mene dei gesuiti; tuttavia, senza voler negare che aspetti negativi indubbiamente vi furono, non si dovrebbe dimenticare che i principali responsabili di tale leggenda nera sono stati i protestanti, i quali, impegnati in uno scontro politico e commerciale a livello planetario con le potenze cattoliche, fin dal XVI secolo diffusero una immagine faziosa e distorta di quanto fecero i missionari; ad essi si aggiunse poi, nel corso del XVIII secolo e negli stessi Pesi cattolici, l’opera della Massoneria, che, per mezzo di uomini come il marchese di Pombal, riuscì a demolire quanto essi avevano fatto per proteggere gli indigeni dalla rapacità dell’uomo bianco, come avvenne, ad esempio, nelle riduzioni del Paraguay.

Del resto, parlano i fatti: se in alcuni Paesi dell’America latina gli indios sono effettivamente scomparsi (quelli ove erano poco numerosi, come l’odierna Argentina), in altri, come il Messico, il Perù e la Bolivia, costituiscono tuttora la maggioranza della popolazione. E si guardi, invece, che ne è stato degli Amerindi nell’America anglosassone: lì sono stati davvero sterminati e non ne restano che poche decine di migliaia, quasi completamente deculturati o ridotti a fare i pagliacci nelle riserve, in cambio di qualche spicciolo da parte dei turisti.

Ma tornando al cuore del problema, così come appare alla nostra sensibilità di uomini moderni: ossia alla liceità o meno di entrare in modo invasivo, sia pure con le migliori intenzioni, nella vita di altri popoli e nelle loro usanze e tradizioni. Ebbene, bisognerebbe ricordare che non di rado ciò che i missionari ebbero di fronte non fu il buon selvaggio di Rousseau, ma un individuo infido, traditore, feroce, che viveva in un cerchio di terrore entro la sua stessa tribù: il terrore di essere ucciso da una freccia avvelenata nella foresta; di essere decapitato perché la sua testa andasse a ornare la capanna del guerriero di una tribù vicina; di essere ucciso o lasciato morire dai suoi stessi figli, quando l’età lo avesse reso inabile al lavoro.

Non erano casi estremi: chi lo pensa, vuol dire che è poco informato. Il navigatore francese Marion Du Fresne, che si comportò in maniera amichevole con i Maori della Nuova Zelanda, venne invitato a banchetto sotto pretesto di amicizia, ucciso e divorato con i suoi compagni da un capo indigeno che menò gran vanto della sua bella impresa: poiché, in quella cultura, il massimo della perfidia e del tradimento erano reputati anche il massimo della bravura, meritevole della più grande ammirazione (cfr. il nostro articolo: «L’uomo e la malvagità», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 03/07/2007).

Ciò avveniva nel lontano 1772, ma fino a tempi a noi vicini si sono perpetuati usi analoghi in quelle culture che - come ha mostrato l‘antropologa Ruth Benedict - erano costruite sull’edificio della paura e della malvagità di tutti verso tutti. Ancora verso la metà del XX secolo, un missionario francese, André Dupeyrat, racconta di aver visto con i suoi occhi, nelle foreste della Nuova Guinea, festini cannibaleschi e guerrieri che, dopo aver distrutto un villaggio nemico e massacrato gli abitanti, succhiavano il cervello ancora caldo, come si farebbe con un gelato, dal cranio dei bambini che erano stati uccisi sbattendo i loro corpicini contro un sasso.

Ora, sappiamo benissimo che simili usanze avevano delle ragioni storiche; ma da ciò si deve forse concludere che sarebbe stato meglio lasciare quei popoli immersi nella loro ferocia?

Sappiamo bene, inoltre, che pure gli Europei sono stati capaci, anche in tempi recenti, di commettere delle barbarie tali che, per il fatto di venire perpetrate mediante la tecnologia militare, non sono, però, meno ripugnati: ma da ciò discende che qualunque europeo deve ritenersi indegno di fare del bene, di contrastare il male, di tentar di addolcire dei costumi feroci? Non sarebbe questa una forma di razzismo ideologico, consistente nel far ricadere su qualunque Europeo le colpe di alcuni; e non sarebbe un fariseismo alla Ponzio Pilato, consistente nel volgere la testa dall’altra parte, quando il male, che pure si potrebbe evitare, avviene impunemente e si tramanda di generazione in generazione?

Se quei nipotini di Voltaire e di Rousseau vedessero uno straniero che sta per fare del male ad un altro straniero, e potessero intervenire per impedirlo, farebbero dunque bene a non intromettersi, dicendosi che è cosa che non li riguarda e che, nella loro cultura, ci sono già tante usanze sbagliate da correggere o da abolire, senza dover pensare a quelle altrui?

Strana contraddizione del laicismo moderno a forte gradiente anticlericale. Esso dice: non è lecito ingerirsi nelle tradizioni altrui; e lo dice pensando all’opera dei missionari, i quali intendevano, sì, diffondere il proprio credo religioso, ma anche, contemporaneamente, promuovere l’idea della dignità di ogni essere umano, in quanto figlio di Dio, nonché della doverosa e necessaria fratellanza fra tutti gli uomini del mondo; raramente hanno qualche biasimo da fare, quei campioni della non ingerenza nei costumi altrui, a proposito della diffusione forzata dei loro ideali, laicisti e materialisti, e dell’opera devastante che l’economia, il cinema, la televisione, la pubblicità occidentali operano sulle altre culture. Meno ancora si chiedono se sia giusto esportare il progresso, la libertà e la democrazia con la forza delle armi, come pure si è fatto e si continua a fare impunemente, ad esempio in Iraq o in Libia.

Secondo questi signori, i nipotini di Voltaire e Diderot, gonfi di bile contro il cristianesimo e di ardente zelo missionario illuminista, bisognerebbe girare la testa dall’altra parte quando le donne somale vengono infibulate, anche nei Paesi europei ove sono immigrate; o quando le spose indiane vengono uccise in strani incidenti domestici, perché la loro dote è ritenuta insufficiente dallo sposo; a maggior ragione bisognerebbe disinteressarsi delle persecuzioni che colpiscono i cattolici cinesi (magari commuovendosi solo per i buddisti tibetani); e, cosa ancor più interessante, essi non trovano proprio nulla di strano, anzi se ne vantano, se l’Occidente esporta il consumismo, il materialismo, l’aborto, il divorzio, la mercificazione della donna, colpendo al cuore la tradizione di spiritualità degli altri popoli e della altre culture.

E adesso torniamo ai missionari cattolici e prendiamo un esempio significativo: l’opera dei gesuiti, e specialmente di Francisco Xavier, nelle Molucche, la cui popolazione originaria, di ceppo melanesiano, aveva usi e costumi sociali abbastanza simili a quelli di quei Papuasi che praticavano, fino a pochi decenni or sono, le guerre sistematiche intertribali, la soppressione dei neonati sgraditi e degli anziani, il cannibalismo.

Così, dunque, Daniello Bartoli narra la decisione di Francisco Xavier di portare il Vangelo nelle Isole Molucche nell’ano di grazia 1546 (dalla «Storia della Compagnia di Gesù; Asia, parte I», in: P. Carli, A. Sainati, «Scrittori italiani», voll. II, Le Monnier, Firenze, 1953, pp. 710-15):

 

«Già l’antica e la nuova cristianità del Molucco era in istato da lodarsene tanto che parve al santo Padre poter sicuramente recar ad effetto quello di che, fin da quando stava in Amboino, aveva conceputo un accesissimo desiderio; e in pare per adempierlo, quivi di colà si era condotto. Ciò era di passar oltre, a portar la fede e il nome di Cristo alla tanto temuta nazione del Moro. Ma sul primo mettersi in procinto di quel pericoloso passaggio, anzi al solo dirne che fece, tanti e sì gagliardi incontri si attraversarono al suo disegno che fuor che un cuore, anzi uno zelo apostolico come il suo, non sarebbe riuscito bastevole a superarli. Navigare a quelle isole pareva a’ cristiani di Ternate quanto andarsi a cercar da se stessi la morte, per mano di gente la quale, se per gola di carne umana, di che sono ingordissimi, a quegli del proprio sangue non la perdona, quanto meno a un forestiere, di paese incognito, di religione contraria, di nascimento, appresso quei barbari, barbaro, e non difeso dal timore delle armi de’ Portoghesi; i quali colà poco usavano, dove non erano mantenimenti per vivere, non che mercatanzie per trafficare. Se altro non fosse che l’infelicissima condizion del paese, in certo modo maledetto dalla natura - sì povero è d’ogni bene e in acconcio più di fiere che d’uomini, tutto dirupi e balzi di monti e selve impraticabili, acque salmastre, aria gravosa, oltre alle spesse piogge di cenere e fuoco e alle tempeste di sassi, che con orrendi tremuoti dalle voragini, sia della terra o dell’inferno, si scagliano - il mettersi colà non era un gittarsi a morire alla disperata? Ma nulla fosse di ciò: che poteva sperarsi da uomini divoratori d’uomini, privi d’ogni altro ingegno che da lavorar veleni, e senza uso d’altro discorso che da ordir tradimenti, di che sono eccellenti maestri? Tra ladroni, poi, che hanno per arte da sostentarsi il rubare l’altrui, che il manterrebbe del suo? chi il guiderebbe alle selve e alle caverne, dove tanti di loro, a guisa di fiere, s’annidano, quivi, addestrando i piccoli figliuoli a saettare i cignali, perché da quella scuola più ammaestrati escano alla caccia degli uomini? Come innesterebbe princìpi di legge divina in petti che parea non avessero neppur quegli del primo istinto della natura? Gli converrebbe prima recarli a essere di bestie uomini, poscia d’uomini cristiani; e a tal fine, divellerne la fierezza, la disonestà, la barbarie e mille altri vizi tratti dal nascimento, cresciuti seco con gli anni, e con l’uso fatti natura. E fosselo non pertanto: cambiasseli fino a recarli a costumi d’uomini, a legge di cristiani. Quanto ci si terrebbono fermi? Durerebbono in tal essere se non quanto egli durasse con loro? E chi di poi sottentrerebbe in sua voce a sostenerli? Chi avrebbe uj cuor come il suo per ardire, e uno spirito come il suo per poter tanto? Non era ancor secco il sangue di Simon Vaz, sacerdote che, in onta e in compagna de’Portoghesi, ammazzarono a tradimento. Né il movesse il desiderio di morire colà martire di Gesù Cristo; ché il loro uccidere era fierezza di genio bestiale, non odio di religione che non conoscevano. Mancavano quivi intorno isole a migliaia, dove non era ancor giunto il primo conoscimento di Dio, e vi si porterebbe con frutto? A che gittare la propria vita e la salute altrui per una speranza incerta, anzi per una disperazione? - Queste ragioni non me lo ho io lavorate da me medesimo: furono veramente quelle che i cristiani di Ternate (i quali tenevano il Saverio in quell’amore che padre e i quella reverenza che santo), per estrema pietà che d’ogni suo male avevano, gli uni a vicenda degli altri, gli dissero; aggiungendo poscia alle ragioni efficacissimi prieghi e lagrime, per distornarlo e svolgerlo dal suo proponimento. Ma poiché videro che di niun pro’ riusciva quanto essi adoperavano per impetrare che si rimanesse da quell’andata, passaron più avanti; e dalle ragioni si volsero alla forza; fino ad indurre il Capitano di Ternate a far severo divieto, pena la nave e l’avere, niun marinaio fosse ardito di navigare il padre Francesco a qual si fosse delle isole del Moro. - Egli allora si risentì; e forte dolendosi del poco veder che facevano nelle cose di Dio, salì i pergamo; e sopra l’abbandonamento di quella misera gentilità orò con tal veemenza di spirito, che non solamente gl’indusse a revocare il divieto e non disdirgli l’andata, ma giunse fino ad accender nel cuor di molti il desiderio e proponimento di seguirlo e d’essergli, senza alcun risparmio della via, compagni della navigazione, coadiutori nelle fatiche, e consorti, bisognando, nella morte. E chi erano essi (disse il Saverio), che mettevano termine alla potenza di Dio, e sì certamente sentivano della sua grazia? Quasi ci fosse durezza di cuori sì ostinati, che non fosse valevole, a domesticarla, quella soave ma incontrastabile virtù dell’Altissimo, che può far fruttare le verghe aride e morte, e suscitar dalle pietre i figliuoli d’Abramo! Poveri di cuore e ciechi di mente che eran! Chi avea convertito il mondo alla Sua fede, e soggettate le nazioni degli uomini all’impero della Sua legge, mancherebbe ora in un palmo di terra? Solo le isole del Moro sarebbono sterili al coltiva mento della mano di Dio, e non potrebbe egli farvi allignare e dar frutti d’eterna salute la Croce del Salvatore? E quando il Suo Padre offerse a Cristo in eredità tutte le genti, soli se ne eccettuarono i Morotesi? Sono incolti, sono selvaggi, sono bestiali. Sieno anche peggiori: e per questo medesimo, ch’egli non avea che sperare nella propria virtù per trasmutarli, maggiormente lo sperava; tutto affidandosi a Dio, dal cui solo potere deriva quanto, nella conversione delle anime, le umane forze, a sì grande opera da sé in tutto sproporzionate, ricavano. E se per esser costoro sì barbari, e sì malagevole l’addimesticarli, non c’era chi ardisse di prenderli a coltivare, prende vali egli a suo rischio. Ad altre nazioni, o più colte o men barbare, altri non mancherebbono: queste fossero sue, perché non sarebbono di niuno. Né dovean perciò dargliene biasimo di temerità. Se le isole del Moro avessero selve d’aròmati, montagne d’oro e mari di perle, ben avrebbon cuore da navigar colà e vincere ogni pericolo, per farvi loro incette e lor commercio, i cristiani: or che non v’è altro che anime da guadagnare, non v’è nulla che meriti? E la carità, né figliuoli di Dio, non ha da aver tanto animo, quanto n’avrebbe l’avarizia ne’ figliuoli del secolo? m’uccideran, dite voi, di veleno o di ferro. Non ve ne date pensiero, ch’io non merito tanto: questa non è grazia da uomini come me. Ma ben vi dico (sono parole sue proprie), che non sono tanti i tormenti e le morti che mi possono dare, che più no sia apparecchiato di riceverne per la salute anche solo d’un’anima. E che gran cosa è, che un uomo muoia per salvar quegli per cui è morto Iddio? E forse, quando pur così avvenisse, a convertir quelle genti sarà più possente il mio sangue che la mia voce. Così, fin dai primi secoli della Chiesa, è nata e cresciuta la semente dell’Evangelio nelle incolte terre del gentil esimo, più al rigo del sangue de’ martiri, che pel sudore de’ predicatori. Finì dicendo che non v’era qui da temere, altro che il proprio timore. Iddio il chiamava colà: per uomini non si rimarrebbe d’andarvi.»

 

Ecco, dunque, l’uomo che evangelizzò le isole del Moro, ossia le Molucche settentrionali: un uomo di Dio che, mentre i suoi connazionali adoperavano la spada, usò solo il linguaggio dell’amore; che, mentre i suoi connazionali cercavano le ricchezze e spogliavano le popolazioni indigene, insegnò loro i rudimenti della fraterna convivenza, mostrò loro che un altro modo di vita era possibile, meno ferino e più umano; che non ebbe paura di nulla, che non arretrò davanti a nulla, perché riponeva ogni sua fiducia in Dio.

La prosa del Bartoli, sonante di preziosità barocche, può piacere o non piacere (a Leopardi, che pure era tutt’altro che un clericale, piaceva moltissimo), ma non concede nulla alla fantasia: questa è una pagina di storia scrupolosamente esatta fin nei particolari; semmai, si potrebbe dire che il grande scrittore ha voluto tenersi al di sotto della realtà, per non apparire eccessivo. I pericoli e le fatiche affrontati da quei primi missionari, non già soltanto per predicare il cristianesimo, ma per gettare le basi di una vita più umana fra popoli che avevano fatto della crudeltà e della violenza il loro stile di vita, sono stati ancora più grandi di come appaiono in questa pagina di prosa; eppure quei missionari non dubitarono mai, neanche davanti alle usanze più atroci, che anche nel primitivo albergasse un’anima fatta a immagine di Dio e suscettibile di giungere, se opportunamente guidata, al possesso della più sublime dottrina morale: il perdono delle offese e l’amore per tutti, anche verso il nemico.

Quale altro Europeo, allora o anche dopo, ha mai mostrato altrettanta generosità, altrettanta nobiltà d’animo, altrettanto amore, fattivo ed operante, nei confronti di una umanità che non aveva nulla capace di allettare l’interesse altrui, neppure la presenza di prodotti di un qualche valore economico, ma quasi tutto, semmai, di ciò che suole provocare paura ed orrore? E allora bisogna dirlo: quei missionari furono degli eroi, se mai questa parola ha avuto un significato.

Altro che Achille o Ulisse, l’eroe della violenza omicida e l’eroe dell’inganno e della frode; perché, nelle nostre scuole, non si portano mai ad esempio di coraggio uomini come Francisco Xavier - e ve ne furono tanti, anche meno conosciti, ma altrettanto valorosi -, se non per un dichiarato pregiudizio ideologico, per un fastidio ed una ostilità radicati e neanche tanto dissimulati verso l’idea che essi rappresentano?

Eppure, nella storia dei rapporti fra l’Europa e il resto del mondo, uomini come Francisco Xavier sono i migliori che si possano citare; gli unici dei quali noi occidentali possiamo ancora andare fieri, a dispetto dei loro errori di metodo o di prospettiva.

Né si dimentichi che ancora ai nostri giorni, silenziosamente e quotidianamente, vi sono missionari cristiani, laici e religiosi, che offrono la loro vita per amore di popoli lontani e sfortunati, afflitti da guerre e carestie, dove la vita di un bianco, se non veste l’uniforme o se non viaggia con la scorta, vale meno di niente: basta il miraggio di pochi spiccioli per guidare la mano di qualche bandito abituato ad andare per le spicce, assassinando coloro che intende derubare.

Di chi dovremmo andare fieri, dunque, quando si parla della storia dei rapporti fra l’Europa e gli altri continenti?

Dei conquistatori, degli sfruttatori, dei negrieri?

O forse dei “tecnici” che, ancora oggi, dietro la facciata di legittime attività economiche, spogliano i popoli extra-europei dei loro beni, delle loro tradizioni, dei loro valori morali, per sostituirli con il discutibile Dio del consumismo e di un “progresso” brutale e omologante?