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E' ora di dire la verità sulla strategia della tensione

di Luciano Lanna - 23/03/2012

Fonte: futuroeliberta


Commentando il film “Romanzo di una strage” Eugenio Scalfari  archivia le solite ricostruzioni pistarole e dice: quel veleno dura  ancora

 

Con l’analisi e il commento al film Romanzo di una strage
Eugenio Scalfari ha senz’altro scritto uno dei suoi articoli
più politici degli ultimi anni, delineando nel migliore dei
modi «l’endemica malattia che ha afflitto l’Italia e che ancora non è stata guarita». Descrivendo la sua visione dell’ultimo lavoro del regista Marco Tullio Giordana, il fondatore di Repubblica scrive che «esci da quell’ora e mezza di spettacolo sapendone di più sull’Italia, sullo Stato in cui vivi, sulla gente con la quale condividi le tue sorti nel bene e nel male, sui veleni che inquinano la società». E, soprattutto su quel triplo livello di piani sul quale si sarebbe svolta l’intera storia dell’Italia del Novecento, "la nostra storia". Il film, come è noto, racconta la strage di piazza Fontana di Milano, nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, nel dicembre 1969, con le sue diciassette vittime, e si conclude con l’uccisione del commissario di polizia Luigi Calabresi, finito a colpi di pistola a pochi passi da casa sua nel 1972. E al centro della vicenda filmica un’altra morte, quella del ferroviere Giuseppe Pinelli, anarchico ma non violento, caduto (in circostanze mai chiarite) da una finestra della Questura milanese in via Fatebenefratelli qualche giorno dopo la strage. S’è sempre detto che quelle vicende segnarono per il nostro paese la “perdita dell’innocenza”. Dopo di allora niente fu più come prima: la violenza politica e non dilagò, le demonizzazioni di intere aree politico-culturali pure, prima la sinistra post-sessantottina e poi la destra tout court finirono nel tritacarne della criminalizzazione e delle inchieste pistarole, il clima si avvelenò, le parti contrapposte della dialettica politica arrivarono all’odio reciproco, nell’arco dei soli cinque anni successivi a piazza Fontana si conteranno quattromila attentati e altre cinque stragi, con un bilancio di cinquanta morti e quasi tremila feriti. Anche da lì quella recrudescenza dello scontro politico che arriverà sino al bipolarismo selvaggio degli anni Duemila. Scalfari non si limita infatti a racchiudere all’interno della sola stagione delle stragi la definizione di “strategia della tensione”. No, la inserisce all’interno di un processo più vasto che lui definisce il «secolo lungo», cominciato nel 1898 con le cannonate di Bava Beccaris contro i socialisti e i manifestanti milanesi e poco dopo con l’uccisione di Umberto I e, per dirla tutta, non sarebbe ancora finito perché quella sorta di zona grigia sulla quale scorre il flusso dei fatti dei tempi di piazza Fontana non è ancora stata smantellata, la verità non è ancora stata compiutamente svelata e le cricche, le lobby, le clientele, le mafie che vi si nascondono dietro non sono ancora state debellate e sconfitte. Il discorso di Eugenio Scalfari va insomma al di là e oltre le stesse verità accertate (o non) in sede giudiziarie e delle stesse ricostruzione cosiddette storiche. Perché non ricordare che l’immediata e superficiale attribuzione delle prime stragi ai fascisti portò in qualche modo alla stagione dell'«uccidere un fascista non è reato» e anche alla stagione dei “cuori neri”, ventuno ragazzi di destra uccisi a volte soltanto perché pensati collusi con l’area stragista? E perché non ricordare, ancora, che un grande intellettuale come Pier Paolo Pasolini scrisse che si stava sbagliando tutto? Scalfari adesso si pone molto al di là di quegli schemi e spiegando di aver vissuto da vicino tutto quel periodo invita a individuare nella “strategia della tensione” una presenza complessa e dominante in tutta la seconda metà del secolo scorso in Italia. Una presenza che Scalfari descrive, come dicevamo, attraverso la figura geometrica di un triangolo retto con due cateti e un’ipotenusa che li unisce: da una parte e dall’altra la cosiddetta manovalanza, soggetti provenienti da aree estremistiche di destra e di sinistra e disponibili a usare i mezzi illegali della violenza, ma al centro del triangolo la forza che li strumentalizza e li aizza «affinché la violenza esploda, organizza misteriosi provocatori, finanzia operazioni clandestine, corrompe e usa le istituzioni dello Stato per alimentare il disordine anziché controllarlo e spegnerlo». Dentro questa zona grigia – quella dei cosiddetti mandanti - si sono storicamente cimentati i servizi segreti, le agenzie di intelligence di Stati stranieri, logge segrete para-massoniche con l’apporto della stessa criminalità organizzata. «L’Italia – annota Scalfari - fu il terreno privilegiato di questa strategia (ma non il solo) dove si confrontarono anche il Kgb sovietico, la Cia americana, il Mossad di Israele e i servizi di sicurezza inglesi e francesi. Gladio fu una delle centrali di pilotaggio della tensione e altrettanto lo fu il servizio di spionaggio del ministero dell’Interno guidato per molti anni dal prefetto Umberto Federico D’Amato. La P2 fu un punto di raccordo clandestino ed essenziale di queste varie forze. La mafia e la camorra fornirono, quando fu richiesto, la loro manovalanza contrattando benefici e spazio per le loro iniziative delinquenziali». Un’analisi inappuntabile che scavalca la centralità di tutte le (presunte o reali) piste nere o rosse per arrivare a un j’accuse contro quel male oscuro che a partire da piazza Fontana si è spinto in avanti sino alle stragi di mafia del 1992-93 e oltre. Un male oscuro che, scrive ancora Scalfari, «ha impestato il paese per mezzo secolo, impedendo alla democrazia italiana di crescere e di metter salde radici e condannandola a una perenne fragilità. Le forze politiche e anche la business community sono state il terreno sul quale si è svolta questa partita perversa ed è questa una delle cause che hanno rattrappito sia i partiti sia il capitalismo italiano. Le democrazie si sviluppano in un quadro di legalità, di autorevolezza delle istituzioni, di regole certe e di comportamenti esemplari che la classe dirigente ha il compito di indicare ai cittadini come punti di riferimento. Tutti i paesi hanno difetti e debolezze ma hanno anche sistemi immunitari che producono anticorpi con l’incarico di neutralizzare i virus che attaccano quotidianamente gli organismi». In Italia, è la conclusione del ragionamento, il sistema immunitario è stato il vero obiettivo della strategia della tensione e di chi ne ha alimentato e rafforzato l’esistenza. Il film di Marco Tullio Giordana testimonia proprio questo: quel veleno dura ancora, per voltare davvero pagina occorre curare fino in fondo il disagio e lo sconquasso morale con una ricomposizione autenticamente democratica a base di verità, giustizia e, soprattutto, legalità.