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Decimare i cervi del Cansiglio? Un capro espiatorio per scelte umane sbagliate

di Paolo Scroccaro - 13/04/2012

Proteggere il territorio, ma da chi?
Deforestazione, desertificazione, degrado dei terreni, riduzione della biodiversità
sono temi di straordinaria importanza e vanno affrontati con impegno e serietà,
perché fanno parte delle più inquietanti emergenze del momento: in genere,
scienziati ed esperti concordano nel ricondurre quanto sopra alla crescente pressione
antropica sul mondo naturale (urbanizzazione, disboscamenti, agricoltura intensiva,
industria della carta e così via). Al fondo di tutto questo, una sfrenata spinta
consumistica e produttivistica che non conosce il senso del limite.
Anche nel Cansiglio, la vasta foresta ai confini tra le province di Treviso, Belluno e
Pordenone, affiorerebbero problemi del genere: secondo gli operatori forestali, ci
sarebbe il rischio della distruzione della foresta e della perdita di biodiversità. Colpa
della cementificazione? Della pressione turistica? Dei campi da golf? Degli impianti
sciistici? Neanche per sogno, nel Cansiglio la colpa sarebbe dei 3000 cervi che vi
abitano, e che avrebbero il difetto di mangiare arbusti, foglie, germogli e quant’altro
(come se questo fosse un abuso), danneggiando per di più anche le aziende agricole
del posto, che pretendono i risarcimenti (50.000 euro nel 2010). Perciò bisogna
dimezzarne la popolazione tramite abbattimenti: questo è quanto previsto nel “Piano
di controllo del cervo nel comprensorio del Cansiglio 2011-2013”, approvato dalla
Regione Veneto e dall’ISPRA (Istituto Superiore per protezione e ricerca ambientale).
L’uccisione dei cervi (specie le femmine ed i piccoli sotto i 12 mesi), naturalmente in
nome del bene comune, dovrebbe iniziare dopo Pasqua. Per il 21 aprile 2012 è
previsto addirittura un ennesimo convegno, a cura di Veneto Agricoltura, per
focalizzare  i danni provocati dai cervi . A quanto pare, ci si preoccupa di frenare e
controllare la presunta distruttività dei cervi, in nome della protezione del territorio,
della biodiversità, delle aziende locali… Ma se questo è il nobile scopo, non sarebbe
meglio prendersi cura del territorio impegnandosi su ben altri fronti? Per esempio, si
potrebbe ridiscutere il progetto di megacementificazione noto come VenetoCity; per
esempio, si dovrebbe contrastare l’espansione dell’aeroporto di Treviso, che è
pericolosamente situato in mezzo alle abitazioni (oltre che nel Parco del Sile); per
esempio, si dovrebbe impedire l’attuazione del polo agro-industriale di Barcon di
Vedelago, che tra l’altro prevede la nascita del più grande macello di bovini d’Europa,
sottraendo all’agricoltura 90 ettari di terreno, per il profitto di qualcuno… Altro che i
danni causati dai cervi (o, in altre occasioni, dai cinghiali, dai caprioli, dagli orsi…), che in confronto sono niente! Eppure, aziende agricole e allevatori proprio di questo si
lamentano ripetutamente: ed invece dovremmo essere noi a lamentarci di loro (il
riferimento è soprattutto alle grandi aziende), dato che, come ha calcolato il noto
economista Joseph Stiglitz, l’allevatore europeo riceve dai singoli stati e dall’Unione
Europea più di 2 dollari di sussidi al giorno per ogni capo di bestiame! Sussidi e
agevolazioni varie che riguardano anche le promozioni commerciali, i trasporti, i
risarcimenti di ordine sanitario, i premi per la macellazione,  il burro, il latte, i
formaggi, i mangimi… senza contare poi i sussidi per lasciare i campi incolti, e quelli
volti ad incentivare  certe produzioni piuttosto che altre; sovvenzioni che almeno in
parte si aggiungono a quelle calcolate da Stiglitz. Si tratta di soldi pubblici, anche
nostri, che vengono dirottati in continuazione verso attività che dovrebbero essere
sanzionate e non sovvenzionate, come vanno sostenendo da tempo gli economisti più
innovativi: questo perché agricoltura industrializzata e allevamenti sono ormai
unanimemente riconosciuti come le attività più impattanti ed inquinanti, responsabili
di elevatissimi costi ambientali che non ricadono sugli attori principali, ma sull’intera
comunità (in gergo economico, si parla di “esternalizzazione dei costi”, il che
configura un’insopportabile ingiustizia sociale, che si sovrappone ad altri risvolti etici:
è come dire che chi rompe non paga, perché qualcun altro sarà obbligato a pagare).
L’antropocentrismo e la pressione sugli ecosistemi
Come spiegare, ciò nonostante, i ricorrenti piagnistei di agricoltori e allevatori contro
la fauna selvatica? La base di questo atteggiamento  e altri simili è costituita da una
rozza visione del mondo, da un’etica antropocentrica pretestuosa e prepotente, che
dà per scontate troppe cose: si ritiene a priori che il mondo intero sia sicuramente
fatto per gli umani, i quali vorrebbero poter disporre di tutti gli altri esseri a
piacimento; ed ogni qualvolta cervi o cinghiali o orsi mettono in discussione questo
assunto unilaterale, scoppiano proteste degne di migliori cause e si organizzano
perfino i convegni dedicati! A coloro che nei convegni o sulla carta stampata
pontificano su quanto è nociva la selvaggina, come minimo dobbiamo ricordare
quanto segue: Peter M. Vitousek, un illustre scienziato indipendente (ma potremmo
citarne molti altri) ha documentato in alcuni studi l’intensità crescente delle pressioni
esercitate dagli umani sugli ecosistemi, vedi tabella riassuntiva qui sotto, che ha il
merito di offrire una visione d’insieme delle principali alterazioni dovute al dominio
sulla natura (la pubblicazione sintetica  di riferimento è intitolata Human Domination
of Earth’s Ecosystems, a cura di Vitousek – Mooney – Lubchenco – Melillo):Ragionando globalmente, se ne ricava che la pressione umana (non quella di altre
specie) è diventata intollerabile e pericolosa, poiché lo spazio vitale per gli esseri nonumani è stato ridimensionato o alterato oltre misura, così da rendere impossibile
un’armonia tra l’uomo e tutto il resto: il caso dei cervi del Cansiglio, per essere
valutato con obiettività, deve essere collocato in questo contesto, che in generale è
quello di un’antropizzazione aggressiva e sconsiderata, che nel tempo ha stravolto
vecchi equilibri. Bene ha fatto perciò l’europarlamentare Andrea Zanoni a sollevare il
caso chiedendo soluzioni alternative alla carneficina e protestando presso i ministri
Clini e Catania, il Corpo Forestale dello Stato e la Commissione Europea.
Herman Daly (uno dei maggiori economisti viventi) e il suo collaboratore J.B.Cobb,
commentando le sopra citate ricerche di Vitousek, hanno osservato che quindi
l’uomo [non il cervo – n.d.a.] deve assolutamente ridimensionare la scala delle sue
attività economiche, per lasciare maggiori chances e più energia, “a disposizione di
tutte le specie non umane non addomesticate”. Per arrivare a tanto, aggiungono, è
indispensabile imparare a condividere il territorio con le altre specie, come avveniva
in passato: perché non ragionare su questa indicazione strategica, dall’alto valore
civile ed educativo,  invece di alimentare aggressività e prepotenza, arrogandosi il
diritto di pianificare a colpi di fucile l’esistenza di altri esseri?
Si può gestire la natura a colpi di pianificazione?
Coloro che sostengono tesi incentrate sulla pianificazione violenta della selvaggina,
dovrebbero sapere che idee del genere andavano di moda negli Stati Uniti nella primametà del 1900, là dove la scienza forestale credeva di poter razionalizzare la gestione
delle risorse forestali (inclusi gli animali selvatici) secondo criteri di efficienza
funzionali all’interesse umano. In tale contesto il noto Aldo Leopold divenne nel 1933
il primo docente universitario di “Gestione della selvaggina”, e lui stesso sostenne
proposte di abbattimento programmato, nella convinzione che l’uomo tecnologico
potesse gestire il mondo naturale meglio della natura stessa, decidendo chi far vivere
e chi no, e quando e come. Ma tale esperienza, culminata nell’esclusione (leggi
“sterminio”) dei grandi predatori dalla “piramide biotica”, risultò fallimentare,
generando squilibri ingovernabili, e Leopold dovette ammettere che la pretesa dei
pianificatori di sostituirsi ai cicli ed ai ritmi della natura era del tutto velleitaria e fuori
posto: la conversione di Leopold all’ecologia radicale e all’etica della Terra iniziò da
esperienze del genere, esperienze di cui anche oggi gli enti competenti dovrebbero
tener conto, invece di avventurarsi in scorciatoie semplicistiche studiate a tavolino
(nel caso del Cansiglio, la decimazione dei cervi), che se tutto va bene  faranno la
felicità di qualche azienda locale e di alcuni ristoratori (che secondo i giornali
potranno così acquistare la carne di cervo a 7,5 euro al kg). Così come dovrebbero
tener conto degli studi più avanzati in materia di gestione forestale, di economia
ecologica e di sussidi perversi (inclusi quelli agli allevatori): eviterebbero scelte
frettolose ed avventate, di cui un giorno pentirsi, e si creerebbero i presupposti
culturali per politiche ecologiche lungimiranti a difesa del paesaggio e degli equilibri
naturali, in vece di cercare un facile capro espiatorio nei cervi, come vorrebbero i
ragionieri della pianificazione.
In conclusione: invece di organizzare un convegno discutibile e di ristretto orizzonte
culturale contro i cervi, perché non organizzare un convegno, questo sì meritevole di
attenzione, su quanto suggeriscono scienziati come Daly e Vitousek, cioè sull’impatto
eccessivo dell’antropizzazione e sugli errori di politiche ambientali insipienti, che
stanno provocando la più grande devastazione della Terra che mai sia stata esperita?
Da qui, si potrebbero ricavare indicazioni costruttive per una rinnovata armonia tra
uomo e natura.